L’Europa in crisi
Elena Basile*
LE RADICI DELLA CRISI
La crisi dell’Europa viene da lontano. Oggi ne osserviamo le apparenze più macroscopiche. Molti analisti marxisti la fanno risalire agli anni ottanta, alla Commissione Delors, all’Atto Unico di Spinelli. Qualcuno si azzarda a considerare colpevoli gli stessi fondatori dell’Europa, certamente Jean Monnet considerato un proconsole americano a Bruxelles.
La Storia presenta complessità che in questa sede non possono essere esplorate e che sarebbe sbagliato ridurre con interpretazioni parziali. Partirei invece da Maastricht, il trattato che codifica le “quattro libertà” e vara l’Unione Monetaria trasformando il mercato comune delle merci e dei servizi, e la circolazione senza ostacoli delle persone in una costruzione ordo-liberistica. La libera circolazione dei capitali non fu infatti una misura neutra che avrebbe portato benessere e modernizzazione a Paesi Membri, come fu presentata. Essa fu l’adesione a un modello economico nel quale il patto tra capitale e lavoro che aveva resistito fino agli anni Ottanta, veniva messo da parte. In un quadro di deregolamentazione del movimento dei capitali, appare evidente l’impossibilità di tassare i ceti capitalistici pronti a spostare i loro investimenti in Paesi più permissivi. A partire dagli anni Ottanta con le politiche del Presidente Reagan e del Primo Ministro conservatore Thatcher, la scuola di pensiero liberista prevaleva sulle politiche keynesiane affermatesi a partire dagli anni Trenta. Con Maastricht si istituzionalizza un meccanismo perverso che avrebbe contribuito grandemente alla crisi del debito e alle crescenti disuguaglianze sociali. La fine di una tassazione realmente progressiva, che pesa soprattutto sulle classi lavoratrici, costringe i Governi a indebitarsi al fine di mantenere gli standards di vita delle società affluenti. Il finanziamento del debito avviene in virtù dei prestiti dietro remunerazione di quegli stessi ceti capitalisti che erano stati detassati. In una sintesi brillante l’economista americano Richard Wolff afferma che le classi lavoratrici contribuiscono alla remunerazione delle oligarchie finanziarie. La tassazione progressiva, che negli anni di Eisenhower contemplava una aliquota fiscale marginale sul reddito personale equivalente al 92% e sui profitti del 60% , scompare gradualmente nelle economie affluenti a partire dagli anni Ottanta.
Il processo storico è lungo e articolato. Non può essere compreso se non si tiene conto di molti altri fattori di trasformazione delle relazioni internazionali, basti pensare alla fine di Bretton Woods nel 1971, allo smantellamento dell’Unione Sovietica nel 1991, oppure alle trasformazioni politico sociali che hanno gradualmente distrutto sia la soggettività operaia come veniva intesa negli anni sessanta, sia i corpi intermedi.
Ai fini del nostro ragionamento e per ragioni di spazio ci concentriamo sui i contenuti di Maastricht che mette da parte le aspirazioni alle riforme sociali dell’Europa sebbene esse appaiano nei documenti europei, nei Trattati di Maastricht come di Lisbona, in modo ricorrente. Nella cittadina olandese, le classi dominanti europee danno origine a una costruzione monca, all’Unione Monetaria e alla moneta unica senza provvedere alla politica di bilancio e fiscale comune. Si tratta di un’operazione dai chiari risvolti classisti, in grado di discriminare i Paesi debitori e di avvantaggiare i creditori. L’asse franco-tedesco impone il dirigismo francese accanto al liberismo tedesco. La Commissione europea man mano acquisirà insieme alla Banca Centrale Europea e al Fondo Monetario Internazionale ( la Troika), un pieno controllo sui paesi del meridione europeo per imporre riforme di carattere liberistico al fine del rispetto dei noti parametri creati a Maastricht ( 60% del Pil di debito, 3% di deficit, 2% di inflazione) di cui nessuno ha fino a oggi illustrato la base scientifica. Il modello tedesco guidato dalle esportazioni, basato sulla contrazione della domanda interna, su bassi salari e alti tassi di interesse per governare l’inflazione, come un vestito troppo stretto di taglia unica, viene fatto indossare a Paesi di misure e problematiche economiche differenti. Il coordinamento delle politiche economiche e la moneta unica avrebbero dovuto implicare interventi di redistribuzione della ricchezza e degli investimenti, debito e fiscalità comune, se non si volevano approfondire le divergenze tra Stati debitori e creditori. La moneta unica deve necessariamente riflettere una zona economica omogenea. Queste sono nozioni elementari che anche chi non è economista, ed io non lo sono, può comprendere. Una delle leggi più note è che il capitale si muove verso i Paesi che permettono una maggiore accumulazione, che hanno tassi di produttività più alti, che permettono economie di scala e offrono infrastrutture migliori. Se la competitività di un’economia non può essere risolta con aggiustamenti del cambio, il paese debole ricorrerà a una contrazione della domanda ponendo in essere un circolo vizioso, alimentato peraltro dalle politiche procicliche imposte dai Paesi frugali per contrastare il debito. In uno scenario che ha aspetti surrealistici, il debito dei Paesi del Sud è stato accompagnato da politiche di austerità che hanno piegato crescita e inflazione. Il debito è valutabile in rapporto al Pil. Diminuisce quindi con la crescita economica e l’inflazione.
Lo spread, la differenza tra i tassi di interesse praticati dalla Bundesbank tedesca rispetto a quelli italiani, di cui si è scritto in modo ossessivo sulla stampa mainstream durante la crisi del debito, fa comprendere come la facilità con cui le imprese ottengono crediti in Germania è tale da permettere un drenaggio costante di ricchezza dal Sud al Nord. Nell’Europa delle patrie nazionaliste non si è perseguito un interesse generale. Non si è pervenuti alla consapevolezza di Alexander Hamilton, Segretario del Tesoro americano che dal 1781, prima della formazione dell’Unione, condusse una battaglia essenziale: trasferire parte del debito accumulato dalle 13 colonie accumulato durante la guerra di indipendenza nel debito federale. In questo modo, con il sacrifico delle colonie più ricche del Sud come la Virginia, si diede vita a un’ombra di interesse generale dei neonati Stati Uniti. Il compromesso tra creditori e debitori, tra responsabilità e solidarietà, tra adesione al modello liberista tedesco e redistribuzione della ricchezza in Europa non si è invece prodotto.
La costruzione europea è un castello fondato su basi di carta in quanto il modello britannico di una UE-mercato convive con tentativi abortiti di dare una struttura sovranazionale, dirigistica in determinati settori.
La politica dell’allargamento sponsorizzata dal Regno Unito e sostenuta da Romano Prodi in qualità di Presidente della Commissione europea dal 1999 al 2004 ha portato nel 2004 all’adesione dei seguenti Paesi Cipro, Malta, Estonia, Lettonia e Lituania, Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia, Slovacchia e Slovenia. In precedenza non si era mai avuto un allargamento di queste dimensioni. Paesi con storie, istituzioni e composizione della società civile differenti entravano a far parte di una organizzazione internazionale già poco armoniosa. I negoziati per l’adesione implicavano la trasformazione dei Paesi candidati in economie di mercato che applicavano i principi del liberalismo politico. Si comprende come l’aver voluto in pochi anni imporre principi di organizzazione politico-istituzionale e economico-sociale predefiniti a società complesse, con percorsi storici dissimili è stata un’operazione controversa. I problemi che l’Europa ha ancora attualmente con i Paesi dell’Europa dell’Est sono una manifestazione della difficoltà di omologare società poco omogenee che hanno pertanto frenato il processo di integrazione. Nel 2007 entravano nell’UE Bulgaria e Romania, nel 2013 la Croazia. Il nuovo possibile allargamento potrebbe coinvolgere i seguenti Paesi: Macedonia del Nord, Montenegro, Albania, Kossovo, Serbia, Bosnia e Erzegovina, Moldavia, Georgia, Ucraina e Turchia. Non sembrerebbe che l’Europa voglia imparare dai propri errori. Appare evidente a molti analisti che si sarebbe dovuto scegliere tra due progetti aventi scopi strategici differenti. Si poteva scegliere la visione britannica, con i suoi sostenitori scandinavi, baltici e dell’Est, di una zona di libero scambio, al massimo di un mercato comune. La visione continentale avrebbe voluto invece costruire un’Europa integrata, con una costituzione ed istituzioni appropriate. Il tentativo di operare una sintesi tra questi due disegni di organizzazione internazionale ha generato un ibrido poco funzionale da cui i cittadini europei hanno preso le distanze.
Dal punto di vista istituzionale, l’Europa non conosce la separazione dei poteri e non è mai riuscita a colmare il grave deficit democratico che né è conseguito. Le decisioni di maggiori rilevanza sono prese da un organo burocratico non eletto e dal Consiglio dei Capi di Stato e di Governo, dai Consigli dei Ministri che rispondono a un ordine gerarchico internazionale. In Europa non esiste uno spazio pubblico europeo, non esistono partiti transnazionali in grado di dibattere problematiche europee. In una struttura siffatta che non conosce Montesquieu, ogni cambiamento in grado di aumentare la sovranazionalità, dal voto a maggioranza al debito comune per la difesa, è accompagnato da un aggravarsi della illegittimità democratica.
Si comprende come le trasformazioni politico sociali dello scenario internazionale associate a una costruzione europea contraddittoria e opaca abbiano permesso la formazione di una classe politica e burocratica che è essenzialmente la cinghia di trasmissione tra interessi delle lobby degli affari e le società civili nazionali. Lo stretto coordinamento delle politiche monetarie degli Stati Membri, di impronta dirigistica, scalza i residui di dialettica democratica e le possibili tensioni sociali esistenti all’interno dello Stato nazionale.
LA NECESSITA’ DI UN PROGETTO ALTERNATIVO ALLE POLITICHE DI GUERRA E NEOCONSERVATRICI
Le guerre in Ucraina e in Medio Oriente sono state la cartina di tornasole che ha reso evidente la sottomissione della classe dirigente europea ai potentati economici e istituzionali che governano l’Occidente. L’Europa è divenuta una pedina dei neoconservatori di Washington.
Gli obiettivi di pace e prosperità sono stati sconfessati da un’élite che ha fatto propria la retorica militarista appartenente alle dittature totalitarie. La guerra in Ucraina è stata trasformata in un conflitto tra il bene e il male, negando la complessità storica di un evento drammatico, nel quale si intreccia allo scontro tra nazionalismi e tra le due ucraine, dell’Ovest e dell’Est russofono, la guerra per procura della NATO, che utilizza il popolo ucraino come carne da macello contro la Russia. Le origini storiche del conflitto nella narrativa propagandistica, travestita di contenuti moralisteggianti, sono state cancellate. L’aggressione russa, in risposta all’espansionismo NATO ai suoi confini, equiparabile alla postura di Kennedy di fronte all’installazione di missili sovietici a Cuba, è stata considerata dal linguaggio brussellese orwelliano non provocata e non giustificata, sebbene fosse stata preceduta da una guerra civile in grado di mietere 14.000 vittime. Tutti coloro che hanno tentato di opporsi a una ricostruzione semplicistica e piena di lacune sono stati bollati come filoputiniani e esclusi per quanto possibile dal dibattito pubblico. A nulla sono valsi gli argomenti documentati, a nulla è servito ricordare che Lord Palmerston nella guerra di Crimea ( 1853-56) aveva avuto una strategia di assedio alla Russia non diversa da quella realizzata con la guerra in Ucraina odierna, intesa a negare a Mosca lo sbocco al mare e la proiezione nel Mediterraneo. Nella grande Scacchiera nel 1997 , Brzezinski , ex consigliere alla Sicurezza Nazionale di Carter, aveva illustrato con precisione la possibilità di indebolire la Russia attraverso il buco nero ucraino. La Rand Corporation, think tank del Pentagono, nel 2019 aveva presentato uno studio che riprendeva la tesi Brzezinski. Essa aveva tuttavia sconsigliato di metterla in pratica in quanto avrebbe provocato un conflitto con Mosca.
Non è stato possibile avere un dibattito basato sui fatti. Il discorso politico si è allontanato dalla verità storica fino a voler negare la realtà.
Come Raniero La Valle ha affermato in un articolo sul “Fatto Quotidiano”, ci voleva un pazzo, Trump, per smascherare la tremenda ipocrisia del Deep State statunitense e delle sue ramificazioni in Europa. In poche settimane il nuovo Presidente ha sconfessato le politiche neoconservatrici, riconoscendo l’esigenza di una mediazione con Putin e le ragionevoli e legittime preoccupazioni di sicurezza della Russia. Neutralità dell’Ucraina e concessioni territoriali sono state promesse da Trump al Presidente russo in dialoghi a Riad che hanno escluso Europa e Ucraina.
Le reazioni della classe politica europea, allarmanti nella loro uniformità, sono state guidate dalla cancellazione della realtà. Si sono ripetuti a oltranza slogan senza senso. Addirittura si è affermato che Putin ha perso la guerra, capovolgendo la situazione sul campo militare e la consapevolezza diffusa di condizioni di pace vantaggiose per Mosca.
Il partito DEM in Europa è ancora al potere. Cercherà di resistere per comprendere se il braccio di ferro senza precedenti iniziato tra il nuovo Presidente statunitense e il “blob”, l’insieme delle burocrazie e delle agenzie di sicurezza che gestiscono la politica estera statunitense, sarà veramente vinto da Trump. Nel caso di una sconfitta del cosiddetto Deep State l’élite dell’UE si riposizionerà sulla nuova politica estera statunitense
E’ sbalorditivo intanto osservare l’Europa filoatlantica recitare un copione surrealistico, rivoltarsi contro Washington, volere continuare da sola la guerra contro Mosca.
La guerra in Medio Oriente e la sostanziale complicità europea nel genocidio di Gaza, hanno mostrato in modo incontrovertibile, la corruzione e il declino dei politici europei e della loro classe di servizio. Stampa, diplomazia, amministrazione, accademia sono venuti in soccorso alfine di giustificare a Gaza, come in Ucraina, il massacro di innocenti quale triste ma necessario dovere dell’Occidente, eroicamente votato alla difesa della libertà contro la Russia e il terrorismo di Hamas.
Nelle oligarchie liberali occidentali, che stanno gradualmente integrando meccanismi illiberali, di censura e ostracismo del pensiero differente, e nelle quali le elezioni divengono meccanismi automatici di legittimazione dei ceti plutocratici, conservare la speranza è particolarmente difficile.
Quale potrebbe essere una auspicabile direzione per quella parte della società civile europea che compone un dissenso ancora marginale? Secondo molti analisti sarebbe prioritario un progetto unitario, transnazionale ed europeo, di opposizione alle guerre e alle politiche neoconservatrici di Washington, della destra e dei socialisti europei. Le differenziazioni e la comprensibile ricerca di un’identità dovrebbero essere al momento messi da parte. Si dovrebbe anche evitare di tradire la modernità, gli ideali di libertà e uguaglianza sociale, il sogno di un’Europa federale, democratica, sociale, aperta e cosmopolita, che poco ha a che vedere con l’Unione Europea attuale. Buttare via il bambino con l’acqua sporca, confondere l’ideale con la sua realizzazione, può facilitare l’ emarginazione del dissenso e precludere la formazione nel lungo periodo di una alternativa di sinistra in Europa.
Purtroppo lo Stato nazionale è troppo debole per resistere alle oligarchie finanziarie oppure per uscire dalla NATO. L’Europa federale potrebbe invece individuare un proprio spazio nel mondo multipolare e perseguire obiettivi politici di indipendenza strategica, preclusi al singolo Paese membro.
*Entra nella carriera diplomatica nel 1985 e ne percorre tutte le tappe divenendo una delle poche donne che raggiunge i gradi apicali. Ambasciatrice d’Italia in Svezia e in Belgio per otto anni consecutivi. Ha scritto 5 libri di narrativa ed è commentatrice freelance sul Fatto Quotidiano e su riviste di politica internazionale.