Trump: la risposta di destra al declino degli USA
Paolo Ferrero
Nei primi mesi della sua presidenza, Trump non ci ha certo regalato giornate noiose, anzi. Nella gran confusione che si è prodotta il rischio è che tutto quanto sta accadendo venga ridotto alla personalità disturbata di Trump, alle sue mattane. Non vogliamo certo negare gli evidenti tratti narcisisti psicotici che caratterizzano il personaggio – e non solo lui… – ma ritengo del tutto fuorviante ridurre a questo aspetto quanto sta succedendo: c’è del metodo in quella follia!
Per questo il numero della rivista cercherà di rendere evidenti le dinamiche di fondo che hanno reso possibile un presidente come Trump, quali siano i suoi obiettivi e quali gli effetti della sua azione. Non da ultimo cercheremo di capire quali spazi politici si aprano nella nuova situazione che si sta determinando.
Una rivoluzione conservatrice
La tesi di fondo attorno a cui ruota questo numero della rivista è così riassumibile: Trump cerca di dare una risposta al declino che vivono gli USA, alla loro vera e propria crisi strutturale. La proposta di Trump è di estrema destra ed espressione del sovversivismo delle classi dirigenti: una sorta di “rivoluzione” fascista nel XXI° secolo che richiama fortemente gli elementi della “rivoluzione conservatrice” della Germania degli anni venti del secolo scorso. La “conservative revolution” nel suo carattere di ossimoro, di unione degli opposti, non fu solo un fenomeno politico ma anche culturale, di costume e per certi versi antropologico. L’American First trumpiano – nella consapevolezza che la storia non si ripete identica a se stessa – ha assonanze significative con quell’esperienza. Lo stesso atteggiamento violentemente arrogante scelto da Trump, con l’abbandono del soft power, evidenzia la distanza dal modo con cui le classi dominanti – bipartisan – hanno gestito il potere politico statunitense negli ultimi decenni. Trump si comporta volutamente come un gradasso da saloon perché la sua azione e la sua comunicazione sono costituenti, si muovono su un terreno metapolitico che vuole dare una risposta – da destra – alla crisi statunitense, che non è solo una crisi economica ma è una vera e propria crisi di identità. Noi ascoltiamo le cose che Trump dice come se parlasse a noi, al mondo, ma il più delle volte parla semplicemente a una parte del popolo degli Stati Uniti. Parla in particolare a quei maschi bianchi adulti impoveriti, rabbiosi e frustrati che del movimento MAGA costituiscono la spina dorsale e che spera che l’America (uso a ragion veduta questa definizione sbagliata) torni ad essere grande: Make America Great Again! Vance non è solo un vicepresidente ma è il testimonial di cosa può essere il “miracolo” Trumpiano.
Capire il terremoto per costruire una alternativa
Con ogni evidenza Trump è espressione di una profonda spaccatura che, a partire dal declino degli USA e dell’occidente, è avvenuta dentro le classi dominanti imperialiste. Lo scontro in atto è durissimo – va molto al di la della divisione tra democratici e repubblicani ed attraversa pesantemente questi ultimi – ed esprime gli interessi contrastanti delle diverse frazioni di capitale oltre ad aver radici profonde nella crisi sociale. Questa spaccatura vede le attuali classi dominanti europee legate a doppio filo con l’ala del capitalismo USA che ha perso contro Trump. Non a caso, la ridicolizzazione di Trump e la demonizzazione di Putin sono la cifra della comunicazione dei media europei mainstream. Questa modalità caricaturale di presentare le differenze politiche dentro il fronte borghese punta a nascondere la crisi profonda dell’imperialismo occidentale. Quell’imperialismo che nell’ultimo trentennio neoliberista è stato caratterizzato dal pensiero unico sostenuto in modo bipartisan dal centro destra e dal centro sinistra. Trump è una risposta reazionaria alla crisi di quel modello di accumulazione, di quegli equilibri di potere e di quella narrazione.
Noi che siamo autonomi ed avversari tanto di Trump quanto dei Draghi e dei Macron, ci muoveremo in senso opposto alla narrazione ufficiale e cercheremo di capire quale progetto persegua il presidente statunitense. Ovviamente cercare di capire non significa per nulla pensare che il “nostro” si muova in modo coerente o tanto meno condivisibile. E’ piuttosto evidente che i suoi obiettivi non solo sono tra loro pesantemente contraddittori, ma in larga parte velleitari: si collocano molto al di sopra del potere effettivo che gli USA hanno oggi. Cercare di capire Trump non significa quindi pensare che la sua azione possa ottenere un pieno successo, ma significa abbandonare l’idea che sia semplicemente un mattacchione e che dopo di lui tutto possa tornare come prima. Trump non è una parentesi, ma il frutto della crisi reale e profonda della principale potenza imperialista mondiale e al contempo un tentativo di risposta alla stessa.
L’attuale presidente degli Stati Uniti non è all’origine della crisi dell’occidente e della sua destabilizzazione: questa è iniziata da tempo. Trump cerca di rilanciare, da destra, il sistema di potere statunitense trasformandolo e ricreandone le basi materiali.
Per sconfiggere il disegno reazionario di Trump non servono nuovi Biden o un nuovo Obama: Trump è l’espressione del fallimento delle loro politiche. La risposta a questa crisi deve essere ricercata sul terreno dell’alternativa perché è l’imperialismo statunitense ed occidentale ad essere andato in crisi e a costituire il principale pericolo per la pace mondiale.
Trump è un effetto, non la causa del terremoto: un sintomo di una situazione di profondissima crisi ed instabilità a cui, nella misura in cui non ci saranno risposte da sinistra, vi saranno altre risposte di destra: quelle del tycoon o peggio. Terza guerra mondiale compresa. Noi qui, partendo dall’analisi del terremoto, cerchiamo di individuare le possibili risposte da sinistra: contro Trump e contro il complesso delle classi dominanti politiche ed economiche a cui questo – e la schiera dei suoi miliardari –pretende di essere alternativo. Trump nella sua azione e con le sue parole mostra in forma assai più chiara dei suoi predecessori la durezza e la spietata unilateralità dell’esercizio del potere imperialista degli USA. Contro di lui e contro i Biden dobbiamo costruire una alternativa, una terza via che ci eviti di cadere in continuazione dalla padella alla brace.
Anche per questo, nel combattere Trump, come è già stato fatto notare, “non dobbiamo prenderlo alla lettera, ma dobbiamo prenderlo sul serio”.
Il declino degli USA
Gli USA, dopo la seconda guerra mondiale, sono stati una grande superpotenza con un altissimo standard di consumi interni. Questo ruolo si è consolidato nel 1971 quando il dollaro è diventato moneta di scambio e di riserva a livello mondiale su base unicamente fiduciaria, ed ha assunto un rilievo enorme dopo il 1989, in conseguenza del crollo dell’Unione Sovietica.
Nel mondo unipolare che ne è derivato, gli USA hanno promosso la globalizzazione neoliberista che ha enormemente allargato il perimetro del modo di produzione capitalistico fondato sul lavoro salariato, e al contempo ridotto drasticamente il potere del movimento operaio occidentale.
Lo sviluppo complessivo è stato reso possibile dal ruolo di “consumatore di ultima istanza” ricoperto dagli Stati Uniti. In pratica, lo sviluppo dell’economia mondiale è stato trainato dal fatto che gli USA vivessero al di sopra dei loro mezzi indebitandosi con il resto del mondo. I dollari con cui gli USA acquistavano merci estere rientravano in patria innanzitutto attraverso l’acquisto di titoli del debito pubblico da parte di europei, giapponesi e cinesi, e così il giro poteva ricominciare. Per oltre vent’anni questo meccanismo ha garantito lo sviluppo mondiale.
Il deficit commerciale degli USA è quindi semplicemente l’altra faccia della medaglia dell’enorme posizione di rendita di cui hanno goduto gli Stati Uniti, vivendo al di sopra dei propri mezzi e godendo del frutto del lavoro del resto del mondo.
Il benessere degli USA è stato il frutto della rendita imperialista, fondata sulla centralità del dollaro e dell’apparato militare, ma questa ha portato con sé deindustrializzazione, affievolimento della primazia nella ricerca e nell’innovazione, un serio degrado dell’apparato formativo complessivo. Gli effetti di cui si lamenta Trump non sono dovuti a “furbizie” o cattiverie altrui, ma il corrispettivo dell’enorme posizione di rendita imperialista degli USA.
Parimenti lo sviluppo della globalizzazione e la crescita dell’economia mondiale hanno reso possibile un enorme sviluppo economico, tecnologico, finanziario e militare di altri nazioni: Cina, India, Brasile eccetera. Inoltre la Russia, nel nuovo secolo, ha ritrovato una propria identità che gli ha permesso di ridefinirsi come superpotenza militare e come soggetto politico di primo piano sullo scacchiere mondiale.
E’ quindi venuto ad affievolirsi il dominio statunitense sul piano economico, tecnologico e militare: il “privilegio esorbitante” di cui gli USA hanno goduto per decenni è diventato via via sempre più arbitrario e insopportabile per le medie e le grandi potenze emerse nella globalizzazione.
E’ in questo contesto che sono venuti alla luce i BRICS, espressione della nuova realtà economica, ma anche del venir meno della sudditanza nei confronti degli USA da parte di larga parte delle élites del “sud globale”.
Nonostante questo nuovo contesto, gli USA hanno continuato anche negli ultimi anni ad approfittare del loro peso militare e finanziario – sanzionando chiunque non accettasse di mettersi in riga – ed allargato il loro soft power attraverso la promozione di un enorme apparato mondiale di gestione dell’informazione e di formazione del senso comune e delle forme della socialità.
La disgregazione della società U.S.A.
Sul piano interno, la crisi sociale è stata assai più rapida del declino internazionale. Se gli anni dal 1945 al 2008 sono stati gli anni del sogno americano, nel 2008 è avvenuto il crollo del sogno americano e non vi è più stata una vera ripresa. La crisi dell’occupazione industriale, la crescita esponenziale di lavori poveri legati all’immigrazione, l’estendersi di ghetti urbani, la crisi della classe media – in un contesto di enormi diseguaglianze e di assenza di reti di sicurezza sociale – sono andati avanti di pari passo con la finanziarizzazione dell’economia e hanno contribuito enormemente alla disgregazione del tessuto sociale statunitense. La decadenza imperiale degli USA colpisce quindi una società civile disgregata e divisa, piena di diffidenze e rancori, che alcuni commentatori dipingono sull’orlo della guerra civile.
L’intreccio tra crisi sociale interna, il ridursi di dominio nel mondo e la crescita di una superpotenza come la Cina, produce una percezione del declino statunitense che va molto oltre l’aspetto economico e si presenta come vero e proprio declino esistenziale. L’idea che la Cina possa diventare a tutti gli effetti – per capacità proprie, per le dimensioni del paese e per l’entità della popolazione – il numero uno del mondo, produce un disorientamento, uno shock collettivo negli USA. Per un popolo cresciuto nel mito del “destino manifesto”, della funzione civilizzatrice insostituibile degli Stati Uniti, l’idea di perdere questa funzione e di ritrovarsi in condizioni di inferiorità e quindi di vulnerabilità è semplicemente terribile.
La crisi statunitense è quindi una crisi organica, non limitata a questo o quell’elemento ma relativa al ruolo storico che gli USA ritengono di poter e dover svolgere.
La presidenza Biden
In questa situazione, la presidenza Biden ha rappresentato il punto di arrivo di una classe dominante che – sopravvalutando pesantemente la propria forza – si è mossa in modo completamente irresponsabile.
In primo luogo con la guerra in Ucraina, perseguita e ricercata per lunghi anni con l’obiettivo di incastrare la Russia in una sorta di “Afganistan europeo” che producesse due risultati: la crisi economica della Russia (anche attraverso le sanzioni) e la sua sconfitta militare. Attraverso questi passaggi si sarebbe così ottenuto il vero obiettivo storico: far cadere il governo di Putin e determinare in Russia un caos tale da riuscire a frantumarla in una miriade di piccoli e medi stati. Perché l’esistenza stessa della Russia, nelle sue dimensioni smisurate e con tutte le sue ricchezze, è considerata dalle élites occidentali un ostacolo al proprio potere e alla valorizzazione del proprio capitale.
Questi calcoli, strombazzati a pieni polmoni nel 2022, si sono rivelati completamente sbagliati: sul piano militare la Russia ha retto benissimo il confronto e ha mostrato una netta superiorità sulla NATO in campo missilistico. Sul piano economico non solo l’economia russa ha tenuto ma ha allargato l’apparato produttivo e le sanzioni – obbligandola a trovare canali di vendita delle sue materie prime alternativi al dollaro – hanno posto le condizioni per un forte ridimensionamento del ruolo della moneta statunitense. Parimenti il furto delle riserve finanziarie estere della Russa attuato dalle banche occidentali, ha spaventato varie potenze emergenti che si sono affrettate a trasformare parte delle proprie riserve da dollari a oro.
La guerra e le sanzioni invece di spezzare le reni alla Russia come pronosticavano Mario Draghi ed Enrico Letta, hanno mostrato che il predominio USA non era più tale ne sul piano militare ne su quello finanziario. Non solo: hanno cementato una alleanza strategica mai vista tra Russia e Cina e mostrato che larga parte del Sud del mondo, a partire dall’Africa, non aveva più fiducia nei paesi occidentali, dalla Francia agli USA.
In secondo luogo Biden ha coperto le spese militari, gli investimenti e le spese sociali con un enorme aumento del debito pubblico statunitense – aumentandolo di 10.000 miliardi di dollari e portandolo agli attuali 37.000 miliardi di dollari – finanziato a tassi di interesse crescenti e con l’emissione di titoli a breve scadenza. In un paese in cui i ricchi nei fatti non pagano tasse, gli interessi sul debito sono cresciuti in modo esponenziale: 345 miliardi nel 2020, 726 miliardi nel 2023, oltre 1100 miliardi di dollari stimati per il 2025. Gli interessi sul debito hanno superato la spesa militare, corrispondono ad un terzo del totale delle entrate fiscali e Biden ha lasciato al suo successore una crescita della spesa per gli interessi sul debito del tutto fuori controllo.
La vittoria di Trump
E’ questo il contesto in cui Trump ha vinto le elezioni e i punti di fondo su cui ha fatto leva in campagna elettorale, ottenendo un consenso rilevantissimo tra le classi popolari bianche, mi paiono i seguenti:
1. Innanzitutto l’evocazione dell’American First e del MAGA: Make America Grait Again (facciamo l’America nuovamente grande). Facendo leva sulla paura del declino statunitense, sul risentimento sociale come sullo sciovinismo imperiale, Trump ha promesso una nuova età dell’oro. Trump ha promesso all’America in crisi di realizzare un nuovo sogno fondato sul nazionalismo “americano” enfatizzando la necessità e il diritto degli USA di tornare ad essere il numero uno e di muoversi unilateralmente a proprio esclusivo vantaggio.
2. Il secondo punto è il blocco dell’immigrazione dal Sud America, dipinta come l’origine del degrado del tessuto sociale statunitense. Il nodo dell’immigrazione è fortemente intrecciato con una robusta dose di suprematismo bianco, non di rado misogino. Il blocco dell’immigrazione clandestina è un pezzo dell’American First, che parla del modo in cui gli USA si vogliono rapportare con il resto del mondo ma costituisce anche un segnale di ripresa di gerarchia interna agli USA con i maschi bianchi al vertice della piramide.
3. Il terzo elemento è stata la promessa di un radicale taglio degli sprechi cioè di ridimensionamento dello stato. Questa campagna ha una doppia valenza: da un lato si poggia sulla retorica reaganiana e liberista della lotta alla spesa pubblica assimilata tout court agli sprechi, dall’altra va molto oltre promettendo di smantellare gli apparati di potere che governavano lo stato, a prescindere da chi vince le elezioni: smantellare il “deep state”, presentato come nemico del popolo e della democrazia. Non a caso è stata evocata la necessità di fare piena luce sull’assassinio di Kennedy e sulla gestione del Covid. Taglio quindi della spesa pubblica ma anche taglio degli apparati, e delle regole, che riducono il potere sovrano del presidente presentato come il rappresentante autentico del popolo.
4. Collegata al taglio degli sprechi, la proposta della riduzione drastica delle tasse, a partire dalle imprese, da sostituire tendenzialmente con i dazi: invece di far pagare le tasse agli “americani”, le facciamo pagare al resto del mondo, attraverso i dazi, per poter avere il privilegio di venderci le loro merci. Il rilancio produttivo dell’economia USA è stato presentato come possibile proprio esaltando l’aspetto del taglio drastico delle tasse al fine di trasformare gli USA in gigantesco paradiso fiscale.
5. Il quinto elemento è stato l’evocazione della necessità di tornare a essere una grande nazione industriale. La deindustrializzazione statunitense, che è il corrispettivo del fatto che gli USA vivono al di sopra dei loro mezzi e consumano parassitariamente le risorse prodotte dagli altri paesi, è stata presentata come una sorta di truffa ai danni del povero popolo statunitense. Porre fine alla concorrenza sleale, alla truffa a cui è stato sottoposto l’ingenuo popolo statunitense, è stato un punto decisivo della narrazione trumpiana. Si badi che in quella narrazione, i truffatori non sono solo i cinesi e i paesi del Sud Est asiatico, ma sono in primo luogo gli europei, che da un lato sono protetti dall’esercito degli Stati Uniti e dall’altra sputano nel piatto dove mangiano invadendo gli USA di prodotti a basso costo.
6. Importante è stata la promessa di non aprire nuove guerre e di chiudere, in 24 ore, quelle in corso. Scaricando in toto su Biden la responsabilità della guerra in Ucraina, è stato costruito un grande messaggio: gli USA possono tornare i primi economicamente se la smettono di sprecare uomini e risorse in guerre inutili, che non li riguardano direttamente. Connessa a questa prospettiva la necessità di tagliare gli sprechi anche in campo militare, rendendo molto più efficiente il Pentagono, che dopo il 1945 non ha più vinto alcuna guerra.
Com’è noto, tutti questi messaggi sono stati conditi dalla retorica antidemocratica dell’uomo forte che si è fatto da sé e che deve governare senza lacci e laccioli per poter fare gli interessi del popolo “americano”, che a sua volta ha diritto a primeggiare nel mondo. Un presidente che per volere divino deve essere forte e privo di vincoli al fine di poter governare degnamente un popolo che, in nome del “destino manifesto”, ha il diritto di “tornare ad essere grande”. Questa impostazione, che riprende l’ideologia dell’eccezionalità degli Stati Uniti condivisa da tutto lo spettro politico nazionalista democratico e conservatore, e oggi viene declinata in chiave fascio-liberista, non è solo un elemento folcloristico ma un punto centrale: la violazione delle regole, interne ed esterne, e la ricostruzione di rapporti di forza favorevoli nel mondo, è la condizione fondamentale per ridare il potere al popolo e per fare nuovamente grande l’America.
Ciarlatano o espressione di un disegno strategico?
Troppo sovente al centro delle critiche a Trump – di destra come di sinistra – vi è la sua personalità – palesemente disturbata – e non il disegno politico lungo cui si muove. Non mi pare il modo migliore per capire cosa sta facendo, per valutare gli elementi di forza e di debolezza della sua strategia e soprattutto per capire quali sono gli spazi che si aprono per la nostra autonoma iniziativa politica. Farò qui di seguito due esempi di come si possa parlare male di Trump tutti i giorni e non capire nulla di cosa sta facendo.
Partiamo dalla questione dei dazi. Si parla molto delle retromarce di Trump e delle sue figuracce in mondovisione. Occorre però tener presente che nella contrattazione è abbastanza normale chiedere molto, per poi cercare di ottenere quello che si riteneva necessario. Ad esempio, in questo caso, la sottolineatura delle retromarce copre una realtà grande come una casa: dopo aver sparato cifre inverosimili, oggi gli USA hanno imposto più o meno a tutto il mondo dazi del 10% (al 30% per la Cina). Anche se le trattative finissero al punto di partenza, non si tratterebbe di un piccolo risultato per gli USA: a fronte di 3300 miliardi di dollari di importazioni annuali, stiamo parlando di circa 400 miliardi di entrate dai dazi senza prendere in considerazione le correzioni che potranno avvenire negli interscambi. Non mi pare un piccolo risultato.
Vediamo la questione della guerra in Ucraina. Il fatto che Trump avesse promesso di chiudere la guerra in 24 ore è usato come argomento per segnalare il fatto che sia uno sbruffone inconcludente. Anche questa caricatura mi pare falsa. Il vero obiettivo di Trump non era certo di fermare la guerra in 24 ore, ma piuttosto di ricostruire i rapporti con la Russia, di sfilare gli USA da una guerra persa, di smetterla di regalare a gratis gli armamenti a Zelensky, di scaricare i costi della guerra e della ricostruzione sugli europei e di mettere le mani sui giacimenti minerari ucraini. Mi paiono obiettivi largamente raggiunti. La riapertura del dialogo con la Russia è oramai palesemente indipendente dai risultati nelle trattative di pace e gli accordi sullo sfruttamento delle risorse minerarie ucraine – tagliando fuori completamente l’Unione Europea – garantisce a Trump sia materie prime che il pagamento degli eventuali armamenti che fornirà in futuro. Inoltre è del tutto evidente che Trump si è pronunciato a favore di una pace fondata sul compromesso che garantisse la sicurezza di tutte le parti in causa mentre sono i paesi europei ad essersi opposti a questa prospettiva in nome di una pace che derivi dalla sconfitta militare della Russia. In questo contesto, è molto probabile che la guerra prosegua fino a quando la sconfitta sul terreno non costringerà ucraini ed europei a chiedere la mediazione del tycoon per ottenere che la Russia cessi le ostilità. Non mi pare che in Ucraina si stia registrando una debacle di Trump, ma piuttosto sta maturando una sconfitta strategica dell’Europa, autoinflitta dai dementi che la governano e che usano il popolo ucraino come carne da cannone per le proprie avventure belliche.
Continuare a inseguire gli svolazzi di Trump non aiuta a capire cosa sta facendo e dove vuole andare. Anche perché è molto probabile che questi primi mesi servano proprio per sondare le resistenze e definire le linee di compromesso su cui attestare la rivoluzione conservatrice che ha promesso e credo stia cercando di realizzare. Invece di concentrarsi sugli elementi folcloristici o addirittura personalistici, occorre cercare di applicare la lezione del materialismo storico per guardare alle dinamiche di fondo del sistema e cercare di coglierne la logica.
Cosa sta facendo Trump?
La mia opinione è che Trump e le forze che lo sostengono abbiano ben chiaro che gli Stati Uniti sono in forte declino, che stanno perdendo la leadership mondiale e che rischiano la bancarotta finanziaria e il collasso sociale. Conseguentemente ritengono che per tornare ad essere primi nel mondo – che è l’obiettivo fondamentale di Trump – sia necessaria una grandissima ristrutturazione del sistema economico militare e finanziario statunitense e il ridisegno complessivo del quadro mondiale. L’obiettivo di Trump è quindi di evitare il collasso e nello stesso tempo di usare la forza residua degli USA per ridisegnare le relazioni mondiali superando le forme che la globalizzazione neoliberista ha assunto in questi 30 anni. Quella di Trump non è certo una ipotesi neo-isolazionista, ma piuttosto il tentativo di costruire una nuova leadership dell’imperialismo statunitense in un mondo globalizzato ma nettamente diviso in sfere di influenza. Una strada in cui la spartizione del mondo per via politica si accompagni, sul fronte interno, all’ideologia della comunità nazionale caratterizzata da una sorta di iperliberismo fascistoide, razzista e misogino.
In questo quadro le priorità su cui sta agendo Trump a me paiono le seguenti:
Sul terreno economico e finanziario:
L’obiettivo principale è quello di mettere in sicurezza il debito pubblico statunitense e nel contempo ristrutturare il sistema finanziario vigente per cercare di mantenere una centralità statunitense in un contesto che non è più unipolare. Ovviamente tutti questi desiderata, oggi avanzati in modi arroganti e presentati come imposizioni arbitrarie, necessitano obbligatoriamente di una successiva fase di discussione al fine di definire nuovi accordi e di nuovi equilibri. Solo al termine di questo percorso che non sarà brevissimo si potrà dare una valutazione sull’efficacia dell’azione di Trump. A oggi i terreni principali di azione mi paiono i seguenti:
– In primo luogo ridurre direttamente il debito pubblico tagliando le spese. Ad oggi sono oltre 240.000 i dipendenti licenziati dal DOGE e lo smantellamento di agenzie, di ministeri e così via è piuttosto rilevante. Lo stesso pentagono non è esente da questa operazione presentata a livello interno come una gigantesca operazione di riduzione degli sprechi.
– In secondo luogo ridurre il valore del dollaro per “sgonfiare “ il debito pubblico e rendere più competitive le merci statunitensi. E’ bene aver presente che i dazi equivalgono nei fatti ad una svalutazione della moneta statunitense…
– In terzo luogo il controllo “politico” dei tassi d’interesse sul debito Usa, al fine di ridurli e di allungare sine die la durata dei titoli di stato. A questo riguardo gli strumenti che Trump sta mettendo in campo mi paiono variegati, contraddittori e non posso in questa sede darne conto compiutamente. Segnalo solo che si va dall’idea di dar vita a Titoli del tesoro della durata di un secolo all’idea di usare i dazi come parziale sostituto delle tasse, dal ridimensionamento del circuito euro/dollaro obbligando le banche europee ad avere un corrispettivo in titoli di stato USA per poter emettere dollari, alla rivalutazione delle riserve auree degli USA fino all’idea di ridimensionare drasticamente il ruolo della Federal Reserve e di usare Stablecoins per finanziare il debito. La completa ristrutturazione del circuito finanziario, interno ed esterno, è quindi parte rilevante del tentativo di Trump di reagire al venir meno della centralità del dollaro come valuta di scambio e di riserva. Si tratta di un percorso appena abbozzato che certo non può essere affrontato in questa sede, visto che chiederebbe da solo un numero intero della rivista, ma che costituisce uno degli elementi meno discussi ma più rilevanti del progetto trumpiano. E’ su questo terreno innovativo che mi pare Trump stia costruendo una possibile convergenza con Black Rock e le grandi finanziarie USA – sin qui dipinte da Trump come sfruttatrici del popolo statunitense – in un rilancio dell’imperialismo statunitense nella nuova fase.
Sul terreno militare ed energetico:
– Trump sta operando con determinazione per costruire una stretta collaborazione con la Russia al fine di: sganciarla dall’alleanza assorbente con la Cina, ridurre i rischi di guerra atomica, ridurre le spese militari e nel contempo assicurarsi una possibilità di accesso alle enormi risorse naturali che la Russia ha nel suo sterminato territorio. La Russia nel “mondo di Trump” dovrebbe essere una potenza a se, non nemica degli USA, contrapposta all’Europa ma più sbilanciata verso l’occidente che verso l’oriente, con una propria, limitata, aria d’influenza.
– Trump punta ad un ridisegno significativo del ruolo della potenza militare Statunitense. Com’è chiaro un enorme esercito come quello degli USA – 1000 miliardi di spesa annua – è in grado di esercitare una enorme pressione su centinaia di paesi ma è veramente utile solo se non si arriva alla guerra atomica. Se scoppiasse una guerra nucleare e il pianeta diventasse sostanzialmente invivibile, questa macchina militare infatti servirebbe a poco… Trump mi pare intenzionato a ridurre i rischi di terza guerra mondiale nucleare – che nessuno vincerebbe – e nel contempo a valorizzare fino in fondo questa enorme macchina bellica. Una volta ridefinito “l’equilibrio” nucleare con le altre superpotenze, si riapre infatti il tema della definizione delle sfere di influenza e della “protezione” dei propri vassalli oltre che dei propri sudditi. In questo quadro mi pare evidente che Trump è intenzionato a far pagare ai propri vassalli la “protezione militare” – l’Europa in primo luogo – ed a minacciare, neutralizzare o spingere nella propria sfera di influenza larga parte dei paesi del mondo. Nella logica di Trump, il tentativo di accordarsi con le superpotenze che sono in grado di distruggere gli USA al fine di allontanare il rischio di una guerra atomica, significa aprire la strada all’uso delle 800 basi militari degli USA in giro per il mondo al fine di garantire il controllo sulla propria – ampia – sfera di influenza. Come avrebbe detto il padrino, Trump vuole essere nelle condizione di fare ad una bella fetta di stati nel mondo “Un’offerta che non possono rifiutare” …
– Dotare gli USA di una riserva strategica di energia a basso costo: petrolio, gas, nucleare, rinnovabili, etc. In questo quadro occorre leggere il rapporto privilegiato che Trump ha posto in essere con la Russia e soprattutto con l’Arabia Saudita e il Qatar. Trump sta trattando in primo luogo con chi ha enormi riserve energetiche per costruire una alleanza finalizzata a garantirsi bassi costi di approvvigionamento ed a incidere pesantemente sui prezzi a cui vendere energia al resto del mondo, tra cui Cina ed Europa. Trump vuole cioè mettere pesantemente le mani sui rubinetti dell’energia ed in questo quadro non è improbabile che il petrolio e il gas Russo tornino ad affluire verso l’Europa attraverso la mediazione statunitense che ne definirà anche il prezzo. Non è da escludere che in questo quadro l’Italia, con il suo supino governo, possa essere scelta come hub energetico per l’Europa. Infine, mentre fino ad ora Trump ha proseguito ed accentuato il criminale sostegno allo stato terrorista di Israele ed al genocidio che sta perpetrando al popolo palestinese a Gaza, è possibile che proprio la necessaria forte alleanza con i paesi arabi porti a qualche contraddittoria novità nella regione.
Sul terreno della ricerca e dell’attività manifatturiera:
-Trump ha mostrato una attenzione fortissima alle nuove tecnologie, ha posto al centro il tema dell’intelligenza artificiale e l’obiettivo di arrivare su Marte prima dei cinesi. A questo riguardo è bene notare due cose. La prima è che lo sviluppo dell’intelligenza artificiale richiede enormi quantità di energia e che quindi questo punto è connesso a quello precedente. La seconda è che Trump in presenza di una apparato scolastico assai degradato, ha espresso chiaramente la volontà di fare incetta di cervelli in giro per il mondo per poter competere con la Cina nello sviluppo scientifico e tecnologico.
– Da questo punto di vista occorre valutare la volontà di reindustrializzare gli USA: dubito che Trump si riferisca al settore tessile o calzaturiero. Penso che l’obiettivo fondamentale sia quello di allargare la sfera produttiva USA al fine di garantire la totale autonomia produttiva nazionale a partire dai settori militare, farmaceutico e della logistica. Ad oggi, molti componenti elettronici necessari per costruire le armi statunitensi vengono non solo da Taiwan ma direttamente dalla Cina. Larga parte del macchinario per la movimentazione merci nei porti statunitensi è stato prodotto in Cina, così come una parte consistente delle medicine che gli statunitensi consumano. Trump ha l’obiettivo di essere in grado di produrre negli USA le produzioni sensibili dal punto di vista della “sicurezza nazionale”. Non significa a mio parere la fine della globalizzazione o tanto meno della divisione internazionale del lavoro ma il superamento del criterio puramente economico nell’organizzazione della produzione, introducendo “l’interesse nazionale” come principio ordinatore politico. Nella scelta di reindustrializzare gli Stati Uniti viene posto soprattutto un elemento qualitativo, in cui lo spostamento negli USA di aziende di punta sul piano tecnologico – come i produttori di chip di Taywan – costituisce un elemento centrale.
Riassumendo
In questo quadro, credo che i dazi e le sanzioni verranno usate – in parallelo alla protezione militare e alla fornitura di liquidità monetaria – come sistema di “pressione” al fine di disciplinare “amici” e recalcitranti.
Ci troviamo quindi in una situazione in cui Trump, nel puntare a suddividere il mondo per aree di influenza considera l’America Latina e il Caribe il suo cortile di casa e vuole allargarlo fino alla Groenlandia e al Canada. Parimenti vuole avere buoni rapporti con la Russia, i Paesi Arabi e l’India, sfasciare l’Unione Europea – trattando con i singoli paesi il loro rapporto di sudditanza – e vincere la sfida con la Cina, il vero grande competitor che fa ombra agli USA. Tutto questo avviene in una fase storica nuova in cui la scarsità di materie prime ridefinisce il rapporto tra esportazioni di merci e accaparramento delle risorse. E’ quest’ultima una novità che pone rilevanti problemi alle forme storiche dell’accumulazione capitalistica e alla sua tendenza strutturale all’allargamento smisurato. La fine della globalizzazione neoliberista – non della mondializzazione – e la crisi dell’egemonia USA a cui Trump cerca di rispondere, sono quindi intrecciate ad una difficoltà nella riproduzione del rapporto di capitale.
In questa fase di passaggio fondamentale è che i comunisti e le comuniste sviluppino un punto di vista autonomo dalle diverse frazioni del capitale in modo da individuare le contraddizioni di fondo puntando a svilupparle in direzione di una transizione verso il socialismo e non in un riequilibrio interno al capitale.
Contraddizioni e spazi di intervento:
Come abbiamo visto l’azione di Trump, che non può essere appiattita sul folcloristico agire di uno squilibrato, ha però grandissime contraddizioni che dobbiamo individuare al fine di svilupparle in una direzione a noi favorevole.
1. La spesa militare europea, che la NATO e Trump chiedono che arrivi al 5% del PIL è totalmente incompatibile col mantenimento del welfare. In Italia in pochissimi anni la spesa militare è passata da 18 a 32 miliardi, ha avuto una accelerazione fortissima con il governo Draghi e il governo Meloni è intenzionata a portarla a 40 miliardi per l’anno prossimo. Si tratta di cifre enormi che possono essere recuperate solo tagliando drasticamente la sanità pubblica, le pensioni ed in generale il sistema di welfare. Inoltre è evidente che Trump ha tutte le intenzioni di drenare risorse e ricchezze dall’Europa verso gli Stati Uniti a partire dal drastico ridimensionamento della forza industriale della Germania e dell’Italia.
Non so se l’Unione Europea reggerà a questo sconquasso ma sono certo che la lotta contro le spese militari e il riarmo, contro la NATO e per l’indipendenza dagli USA, per costruire un sistema di sicurezza di una Europa dall’Atlantico agli Urali, possa diventare il nuovo terreno fondamentale attorno a cui costruire una alternativa in Europa o se volete una Europa alternativa.
La connessione tra la proposta pacifista di un mondo multipolare cooperativo e la difesa degli interessi materiali delle classi subalterne è il centro attorno a cui costruire, cento anni dopo la rivoluzione Russa, un rilancio strategico del movimento comunista e una possibile transizione socialista.
2. La globalizzazione neoliberista aveva un corrispettivo ideologico nell’universalismo astratto del pensiero unico liberal liberista. Il MAGA, col suo tratto brutalmente nazionalista, sciovinista, razzista e misogino, non si presta certo a divenire un pensiero universalistico. Ovviamente il MAGA può diventare un modello per tutte le destre nazionaliste del mondo ma certo non aiuta gli USA a ricreare un suo appeal come potenza egemone. Il rilancio della potenza statunitense declinata unicamente in chiave di interesse nazionale e l’abbandono del soft power, possono diventare un handicap fortissimo a cui dobbiamo contrapporre un nuovo universalismo comunista.
3. La strategia di Trump si basa sulla distruzione del sistema di regole connesse al mercato mondiale e sulla sostituzione di queste con contrattazioni specifiche bilaterali. Questo schema che indubbiamente è il più favorevole per gli USA e per il loro progetto non è per nulla detto che venga accettato dal resto del mondo. Non mi riferisco tanto all’Unione Europea quanto a cosa faranno la Cina, la Russia ed in generale i BRICS.
Favorire tutte queste contraddizioni, favorire le alleanze che si oppongono a questo disegno a partire dai BRICS, tenendo ben fermo il punto centrale del no alla guerra unito al no allo sfruttamento è un altro snodo fondamentale del nostro lavoro politico.
4. L’idea di Trump che gli USA possano mantenere i benefici dall’avere il dollaro come valuta di scambio globale senza esserne obbligati a pagarne i costi, è assai contraddittoria e destinata probabilmente a determinare una scarsità di dollari
Che questo dia luogo ad una maggiore ricattabilità dei singoli paesi da parte degli USA oppure che questa situazione spinga vari paesi, a partire dai BRICS, a dare una decisa accelerata alla creazione di un sistema di scambi alternativo, è tutto da vedere. Anche su questo crinale si apre un fronte decisivo di lotta antimperialista tutt’altro che sconfitto in partenza.
5. L’America latina nello schema di Trump dovrebbe essere nella sfera di influenza degli USA. Sul piano economico oggi non è più così, a partire dal Brasile. Inoltre Cuba e Venezuela, hanno con la Russia un rapporto molto forte, esibito platealmente il 9 maggio scorso a Mosca. Anche il tentativo degli USA di ripristinare un rapporto di dominio verso l’America Latina è quindi foriero di una grande contraddizione rispetto allo schema di Trump e dobbiamo prepararci sin da ora a sviluppare il massimo di azione di solidarietà.
6. L’idea di Trump di poter tagliare le tasse – a partire dai ricchi – nell’attuale contesto di deficit e debito pubblico, pare del tutto velleitaria. Eppure questa impostazione caratterizza la Legge di Bilancio presentata dal governo al Congresso degli Stati Uniti negli stessi giorni in cui anche Moody’s declassava il Debito pubblico statunitense. Il livello di lotta di classe che si determinerà negli USA attorno a questi nodi determinerà buona parte delle possibilità di Trump di portare avanti il proprio disegno politico complessivo.
7. Da ultimo, la politica di Trump sul piano interno aggredisce gran parte della democrazia residua degli USA, favorendo i ricchi e blandendo i maschi bianchi a scapito del resto della popolazione. La repressione del movimento contro il genocidio dei palestinesi ci parla di un salto di qualità che riproduce il peggio delle pratiche maccartiste. Si tratta di una impostazione di rottura in un paese che già oggi vede pesantissime contraddizioni sociali ed in cui la dinamica demografica di dice che il declino della centralità “dell’uomo bianco”, è segnato. Penso quindi che il progetto di Trump abbia rilevantissime contraddizioni proprio all’interno degli States, anche se il profilo e la cultura politica del partito democratico sembra essere il suo migliore alleato.
Chiudo qui questo troppo lungo editoriale nella speranza di aver dato un contributo alla comprensione della fase di transizione che stiamo affrontando e delle rilevanti contraddizioni su cui possiamo operare positivamente.