Trump, America Latina e Caraibi tra dazi, Cina e deportazioni

Marco Consolo*

Nonostante il cambio di amministrazione alla guida della Casabianca, non si vedono grandi cambiamenti all’orizzonte nella politica di Washinton nel suo cortile di casa. Da tempo, la preoccupazione principale degli Stati Uniti è quella di non perdere la propria egemonia sul sub-continente latino-americano e di stroncare la crescente influenza di Russia e Cina. 

La strategia dell’amministrazione Trump per l’America Latina è decisamente aggressiva e il sub-continente ha un ruolo centrale nella politica estera di Washington. Non è un caso che il primo viaggio ufficiale del Segretario di Stato Marco Rubio sia stato in America centrale e nei Caraibi. Non succedeva dal 1912, quando Philander Chase Knox andò a Panama, durante la costruzione del Canale. 

Fin dall’inizio del mandato, l’obiettivo principale degli Stati Uniti è stato chiaro: destabilizzare i governi progressisti e indebolire i legami della regione con la Cina. Tra i molti mezzi utilizzati per raggiungere questo obiettivo, in prima battuta c’è il sostegno esplicito all’estrema destra in vari Paesi, per fermare l’avanzata dei governi progressisti. I recenti brogli in Ecuador a favore di Noboa sono l’ennesimo avvertimento delle crescenti difficoltà politiche per le forze progressiste. Parallelamente, ci sono le pressioni e i ricatti sui governi locali. 

Si sa, da tempo il sub-continente è parzialmente “fuori controllo” degli USA ed il pendolo della politica alterna cicli “progressisti” e conservatori (o direttamente reazionari). 

Ma la feroce campagna anti-cinese, che riesuma la Dottrina Monroe, si scontra con la realtà dell’espansione economica della Cina nel continente. Prima come partner commerciale, poi come investitore strategico e ora come interlocutore politico privilegiato. In soli due decenni, il commercio bilaterale è aumentato 35 volte, mentre i prestiti e i finanziamenti cinesi per le infrastrutture hanno superato di gran lunga i contributi della Banca Mondiale e della Banca Interamericana di Sviluppo (BID). Ferrovie, porti, dighe e autostrade sono state costruite con il sostegno del gigante asiatico, senza le condizioni capestro che accompagnano i finanziamenti occidentali, del Fondo Monetario Internazionale (FMI) o della Banca Mondiale.

“Gli Stati Uniti si opporranno vigorosamente ai progetti della “Via della Seta” cinese in America Latina”, ha avvertito il Dipartimento di Stato lo scorso 15 maggio. Una avvertenza che si aggiunge a quelle ricorrenti dei generali del Comando Sud (US SOUTHCOM).

L’ultima minaccia di Washington arriva subito dopo la firma di adesione alla “Via della seta” del presidente colombiano Gustavo Petro, che dà parzialmente le spalle agli Stati Uniti, tradizionale partner commerciale di Bogotà. “Questa iniziativa cambierà la storia delle nostre relazioni estere”, ha commentato Petro sulla piattaforma X. Mentre l’ufficio del Dipartimento di Stato per le Americhe, sulla stessa piattaforma, ha ribadito che: “I dollari dei contribuenti americani NON DEVONO (maiuscolo nel testo originale…) essere utilizzati in alcun modo dalle organizzazioni internazionali per sovvenzionare le aziende cinesi nel nostro emisfero. Gli Stati Uniti si opporranno con forza ai recenti e imminenti progetti di esborsi da parte del BID e di altre istituzioni finanziarie internazionali per le imprese controllate dallo Stato e dal governo cinese in Colombia”. È bene ricordare che il potere di voto (e di veto) nella Banca Interamericana di Sviluppo (BID) è proporzionale ai fondi forniti da ciascun Paese e gli Stati Uniti ne sono i principali finanziatori.

Ma circa due terzi dei Paesi dell’America Latina e dei Caraibi hanno già aderito alla “Via della seta” e oggi Pechino è già il principale partner commerciale di Brasile, Perù e Cile. Sebbene il Brasile stia approfondendo le sue relazioni con la Cina, è chiaro che le pressioni degli Stati Uniti hanno svolto un ruolo fondamentale nel garantire che il Paese non annunciasse formalmente la sua adesione.

Dottrina Monroe e resistenza continentale

Se dal cappello di Trump è riapparsa la Dottrina Monroe, in linea con lo storico interventismo di Washington a sud del fiume Bravo, il suo bullismo e le minacce hanno fatto crescere l’opposizione e la resistenza di popoli e governi. I dossier più caldi riguardano le tariffe doganali, le deportazioni dei migranti (in molti casi veri e propri sequestri) e la politica di terra bruciata nei confronti di Cuba e Venezuela (e degli altri governi progressisti) per cercare di isolarli. Sullo sfondo, come elemento sovra-ordinatore, la volontà dichiarata di espellere la Russia, ma soprattutto la Cina dal continente.

Mentre i media mainstream sono concentrati sulla resistenza di Canada e Groenlandia, non si sa molto di quella latino-americana, che si è manifestata in diversi modi, dalle dichiarazioni di diversi Capi di Stato, alle mobilitazioni di piazza in alcuni Paesi.

Sul versante delle tariffe doganali, il caso del Messico è quello più stridente. Di fronte all’esplicita minaccia di Trump di innalzare enormemente le tariffe, la Presidente Claudia Sheinbaum è riuscita a tessere alleanze trasversali, portando a casa l’appoggio di Francisco Cervantes Diaz (presidente del settore imprenditoriale più rilevante del Messico) e di circa 300 imprenditori , oltre ad alcuni leader dell’opposizione. Parallelamente, Sheinbaum ha convocato la popolazione a scendere in piazza per ripudiare le politiche unilaterali di Trump. In una manifestazione di forza, davanti a 350.000 persone riunite nella storica piazza del Zocalo di Città del Messico, la Presidente ha dichiarato: “Non siamo estremisti, ma siamo chiari sul fatto che … non possiamo cedere la nostra sovranità nazionale … a decisioni di governi stranieri o poteri egemonici”, e il suo livello di approvazione ha raggiunto l’85%. 

La CELAC batte un colpo

Sullo stesso versante tariffario, anche se in maniera più contraddittoria, il presidente brasiliano Lula sta promuovendo iniziative diplomatiche per arrivare ad una posizione unitaria in America Latina, puntando sugli organismi regionali come la Comunità degli Stati Latino-americani e dei Caraibi (CELAC). Dopo l’annuncio iniziale di Trump sulle tariffe, Lula e Sheinbaum hanno avuto una conversazione telefonica in cui si sono accordati sulla necessità di rafforzare la CELAC come alternativa ai legami commerciali con gli Stati Uniti. L’obiettivo è promuovere una risposta multilaterale all’offensiva tariffaria di Trump, in netto contrasto con gli accordi bilaterali proposti dagli Stati Uniti sin dalla presidenza Clinton nel 1994. E come si ricorderà, nel 2005 i presidenti progressisti latinoamericani, guidati da Hugo Chávez, affondarono la proposta dell’Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA). 

Oggi, da una parte ci sono i governi progressisti, sostenitori dell’integrazione latino-americana con diverse sfumature. Dall’altra, quelli di destra, allineati con Washington attraverso accordi bilaterali di libero scambio. Uno scontro evidenziato pienamente lo scorso aprile al vertice della CELAC in Honduras, marcato dalla partecipazione attiva di Brasile, Colombia, Cuba, Honduras, Messico, Uruguay e Venezuela e dall’assenza dei presidenti di destra di Argentina, El Salvador, Paraguay, Perù ed Ecuador. 

Mentre Lula ha insistito sul fatto che i Paesi della regione possano commerciare in valute locali, dissociandosi dal dollaro, la presidente honduregna Xiomara Castro ha dichiarato: “Non possiamo lasciare questa storica assemblea … senza discutere il nuovo ordine economico che gli Stati Uniti ci stanno imponendo con tariffe e politiche migratorie”. 

Viceversa, i presidenti dell’Argentina e del Paraguay, Javier Milei e Santiago Peca, si sono incontrati ad Asunción in disaccordo con la posizione della CELAC sulle tariffe doganali, con la chiara volontà di sabotare l’unità latino-americana. E i loro rappresentanti al vertice della CELAC non hanno firmato la Dichiarazione di Tegucigalpa, che ha espresso il rifiuto delle misure coercitive unilaterali e delle tariffe imposte da Donald Trump.

Per quanto riguarda la piazza, oltre al Messico, Panama è forse il Paese dove la mobilitazione si è fatta più sentire, mettendo in difficoltà il Presidente di destra José Raul Mulino. Una mobilitazione contro la visita del Segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Pete Hegseth, ed i piani per stabilire quattro nuove basi militari statunitensi attorno al Canale interoceanico. 

Un capitolo a parte riguarda le pressioni di Washington per l’uscita di Panama dalla Via della Seta e per il controllo del Canale interoceanico, con il risultato dell’estromissione della società di Hong Kong CK Hutchison e del rientro dalla finestra della statunitense Black Rock nell’amministrazione del Canale. Un obiettivo strategico, dopo la riconsegna del Canale ai panamensi grazie agli accordi Torrijos-Carter del 1977 e l’espulsione del Comando Sud dal Paese.

Il vertice CELAC-Cina

Se la Casabianca lavora a sabotare l’unità latino-americana, quest’ultima cerca altre sponde. Con uno scenario mondiale turbolento, segnato dall’incertezza e dall’aumento delle tensioni commerciali, la regione deve inserirsi meglio e non perdere spazi e opportunità. 

Lo scorso 13 maggio si è tenuto a Pechino il vertice tra la CELAC e la Cina. La CELAC è composta da 33 Paesi, con circa l’8% della popolazione mondiale (poco più di 600 milioni di abitanti) e quasi il 6% del Prodotto globale lordo. Da parte sua, la Repubblica Popolare Cinese, rappresenta un quinto della popolazione mondiale (1,4 miliardi di abitanti) e circa il 20% dell’economia globale. È chiaro che il legame con la Cina apre orizzonti di maggiori possibilità, non come strategia unica, ma di certo importante. E oggi, Pechino propone alla CELAC di coordinarsi meglio contro l’”egoismo egemonico” degli Stati Uniti, in un diverso quadro di cooperazione basato su non interferenza, rispetto reciproco, complementarità e sviluppo condiviso. Un paradigma descritto dalla stessa diplomazia cinese come una proposta “win-win”, a cui è sempre più attenta questa parte del mondo.

Nel vertice di Pechino, come controcanto alle politiche dell’amministrazione Trump, il presidente Xi Jinping ha sostenuto che non ci sono vincitori nelle guerre commerciali e il bullismo e la volontà egemonica portano solo all’autoisolamento. Il Presidente cinese si è presentato come partner affidabile in tempi di “scontro” e “protezionismo” e ha promesso 9,2 miliardi di dollari in crediti di sviluppo per l’America Latina e i Caraibi. Dal vertice è uscito un piano d’azione per rafforzare il partenariato strategico che, secondo Pechino, è una guida per i prossimi tre anni che “cercherà di approfondire la cooperazione globale tra Cina e CELAC” in settori prioritari come intelligenza artificiale, telecomunicazioni, energia pulita e spazio. 

Xi Jinping ha dichiarato la disponibilità della Cina a unire gli sforzi con i Paesi latino-americani, con cinque programmi concreti per “promuovere lo sviluppo” e contribuire a una “comunità Cina-ALC con un futuro condiviso”. 

Il primo è il programma di “solidarietà”, per continuare a sostenersi a vicenda su questioni che riguardano i rispettivi interessi e le principali preoccupazioni, a partire dalla difesa del sistema internazionale, con le Nazioni Unite ed il diritto internazionale al centro, e per parlare con una sola voce nei consessi internazionali. 

Il secondo è il programma di “sviluppo”, con il sostegno al sistema commerciale multilaterale, a catene industriali e di approvvigionamento globali stabili, in un ambiente internazionale di apertura e cooperazione e una maggiore sinergia tra le reciproche strategie di sviluppo La Cina aumenterà le importazioni di prodotti dai paesi ALC e incoraggerà le sue imprese ad espandere gli investimenti nella regione.

Il terzo è il programma di “civiltà”, con il sostegno ai valori dell’uguaglianza, dell’apprendimento reciproco, del dialogo e dell’inclusività tra le civiltà, di pace, sviluppo, equità, giustizia, democrazia e libertà.

Il quarto è il programma di “pace”, per attuare iniziative di sicurezza globale, cooperando più strettamente nella gestione delle catastrofi, nella sicurezza informatica, nell’antiterrorismo, nell’anticorruzione, nel controllo degli stupefacenti e nella lotta alla criminalità organizzata transnazionale.

Il quinto è il programma di “connettività People-to-People”. Nei prossimi tre anni, la Cina fornirà agli Stati membri della CELAC 3.500 borse di studio, 10.000 opportunità di formazione in Cina, 500 borse di studio per insegnanti di lingua cinese, 300 opportunità di formazione per personale dedicato alla riduzione della povertà. Inoltre, avvierà 300 progetti (cosiddetti “piccoli e belli”) e eliminerà il visto per cinque Paesi ALC come primo passo.

Sul versante delle infrastrutture commerciali, c’è da ricordare la recente apertura dell’importante porto di Chancay, in Perù, un nodo strategico per il commercio tra i due continenti. Un’iniziativa che Washington vede come il fumo negli occhi, ma che non è riuscita a fermare. 

In conclusione, il Forum CELAC-Cina cerca di promuovere la cooperazione con il Paese che negli ultimi vent’anni ha maggiormente incrementato la propria presenza in commercio e investimenti nella regione, diventando uno dei principali partner commerciali di molti Paesi latinoamericani. Un rapporto che è avanzato anche nel campo della cooperazione politica e dei rapporti diplomatici. Un dato per tutti: tra i Paesi membri della CELAC, solo tre mantengono ad oggi relazioni diplomatiche con Taiwan: Paraguay, Guatemala e Haiti.

La sconfitta nell’OSA

Sul versante delle istituzioni internazionali, c’è da registrare la sconfitta di Washington e dei suoi 

alleati continentali per l’elezione del Segretario generale dell’Organizzazione degli Stati

Americani (OSA) per i prossimi cinque anni. Lo scorso 10 marzo, Albert Ramdin, del Suriname, 

è stato eletto Segretario Generale in seguito al ritiro del ministro degli Esteri paraguaiano Rubén

 Ramirez Lezcano, candidato di Washington e delle destre continentali.

Nonostante le dichiarazioni formali dell’inviato di Trump per l’America Latina, Mauricio 

Claver-Carone, che ha assicurato che il nuovo Segretario Generale dell’OSA sarà alleato degli 

Stati Uniti, Ramdin si oppone alle “sanzioni” imposte da Washington e difende il dialogo con il

governo venezuelano di Nicolás Maduro. A differenza del suo rivale Ramirez, che aveva

promesso di promuovere un “cambio di regime” in Venezuela, Cuba e Nicaragua.

Ramdin deve la sua nomina non solo al sostegno unanime delle nazioni caraibiche, ma anche a quello dei governi “progressisti” di Brasile, Colombia, Uruguay, Bolivia e Cile, mentre i governi di destra e pro-Trump dell’Argentina e di El Salvador hanno sostenuto Ramirez. Da parte sua, la Cina, come paese osservatore nell’OSA, ha sostenuto la candidatura di Ramdin, che difende la politica di “una sola Cina” e la volontà di approfondire il rapporto tra Cina e OSA. Al contrario, il Paraguay è l’unico Paese del Cono Sud ad avere relazioni diplomatiche con Taiwan.

Dopo la lunga parentesi dell’uruguayano Luis Almagro (fedele burattino degli Stati Uniti) alla Segreteria dell’OSA, vista la sconfitta, una delle possibilità è che l’amministrazione Trump cerchi di ricattare l’Organizzazione con il taglio dei suoi importanti contributi finanziari. Washington ha già congelato quelli volontari, il che potrebbe essere il primo passo in quella direzione. 

Una polarizzazione a doppio taglio

In America Latina le politiche di Trump del “prendere o lasciare” hanno anche rafforzato la polarizzazione politica, spostando più a destra il tradizionale centro-destra e rafforzando la crescita di un’estrema destra reazionaria, sempre più aggressiva ed influente, allineata a Washington e allo stesso Trump, contro i governi di sinistra e di centro-sinistra. Ma allo stesso tempo, l’indignazione provocata dalle politiche tariffarie, dalle sue dichiarazioni sul Canale di Panama e sul Golfo del Messico, così come la sua politica di deportazioni di massa ed il mantenimento del blocco contro Cuba, stanno ricompattando le forze progressiste latinoamericane.

Su Cuba, il segretario di Stato americano Marco Rubio ha vergognosamente annunciato sanzioni contro i funzionari governativi e le loro famiglie di diversi Paesi per la “complicità” nella promozione delle missioni mediche cubane. A Rubio ha risposto la prima ministra delle Barbados, Mia Mottley, che ha ringraziato il personale medico internazionale cubano per l’assistenza durante la pandemia di COVID-19. Mottley ha aggiunto: “Se il costo è quello di perdere il visto per entrare negli Stati Uniti, così sia”. 

In Giamaica, subito dopo le minacce di Rubio, non è stato da meno il primo ministro Andrew Holness: “Per quanto riguarda i medici cubani in Giamaica, cerchiamo di essere chiari: i medici cubani sono stati incredibilmente utili per noi”. Dichiarazioni simili sono state fatte dai Primi Ministri di Antigua e Barbuda, Saint Vincent e Grenadine e Trinidad e Tobago.

Le deportazioni dei migranti

Un altro dei temi caldi, per l’oggi ed il domani, nei rapporti tra gli Stati Uniti ed il resto del continente è quello delle deportazioni dei migranti. L’ultima “moda” che si sta affermando a livello mondiale è quella di inviare i migranti, “irregolari” o meno, nelle carceri di Paesi terzi, a cambio di un lauto appoggio finanziario. In Europa è il caso dell’Italia con l’Albania e della Gran Bretagna con il Rwanda. In America Latina, il caso emblematico è l’accordo tra Washington ed il governo Bukele in El Salvador, con la deportazione di 238 venezuelani a una prigione di massima sicurezza a San Salvador, che ha provocato una forte indignazione tra i venezuelani. Molti di loro sono scesi in piazza a protestare, tra cui molti parenti delle vittime. Il presidente Nicolás Maduro ha invitato all’unità del Paese, per denunciare quello che ha descritto come il sequestro di immigrati venezuelani. 

Nonostante l’appello all’unità di Maduro, la questione delle deportazioni ha ulteriormente approfondito le divisioni dell’opposizione venezuelana in due blocchi. Il settore più radicale, che aveva appoggiato la candidatura presidenziale di Maria Corina Machado e poi quella del suo sostituto Edmundo Gonzalez, è ora spaccato. Ad aprile, l’ex candidato presidenziale Henrique Capriles è stato espulso da Primero Justicia, uno dei principali partiti di opposizione del Paese, per le sue divergenze con Machado, anche rispetto alle deportazioni. Capriles ha chiesto il “rispetto dei loro diritti umani” e ha definito “inaccettabile” la stigmatizzazione di tutti i migranti venezuelani come criminali.

Tutta un’altra musica per il settore più estremista dell’opposizione venezuelana, guidato da Maria Corina Machado, che si guarda bene da esplicitare la minima critica alle deportazioni di Trump per non perdere il suo sostegno. Machado ha espresso il suo appoggio a Trump con parole chiare: “Rispettiamo le misure adottate nel quadro della legge da governi democratici come quello degli Stati Uniti …e ci fidiamo dello stato di diritto che prevale in queste nazioni democratiche”. 

La battaglia per la seconda e definitiva indipendenza è in pieno svolgimento.


*Marco Consolo, del Comitato Politico Nazionale di Rifondazione Comunista, membro dell’Esecutivo e del Gruppo di lavoro su America Latina e Caraibi del Partito della Sinistra Europea

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