Ferro o piuma? La fine del soft power americano con la presidenza di Donald Trump
Monica Di Sisto*
“Il mondo deve considerare gli Stati Uniti non solo come la nazione più forte ma anche come la più generosa”. Questa frase fu pronunciata dal 34esimo presidente degli Stati Uniti Dwight D. Eisenhower, nel suo discorso del 1957 alla National Conference on the Development of World Peace e anticipa di qualche decennio la definizione di “soft power” coniata dal politologo Joseph Nye alla fine degli anni Ottanta. Nell’ambito delle relazioni internazionali, il potere è spesso suddiviso in due forme distinte: l’hard power, che si basa sul suo esercizio diretto, accompagnato, nei momenti di crisi, dalla coercizione e dalla forza, e il soft power, che scommette sull’attrazione, la persuasione e la formazione delle preferenze. Pensiamo alla cultura pop, la visibilità mediatica dei propri valori politici e la desiderabilità delle merci-simbolo del proprio stile di vita, come centri commerciali, fast food e blue jeans a livello di cittadinanza globale, mentre a livello sistemico gli aiuti allo sviluppo e la partecipazione alle istituzioni internazionali: con questi potenti strumenti di influenza gli Stati Uniti hanno costruito dal secondo dopoguerra un’immagine di leadership e credibilità che trascendeva la loro potenza economica e militare. Questa immagine, tuttavia, sta affrontando una crisi significativa con l’amministrazione di Donald Trump che nella visione “America First”, fin dal precedente mandato ha integrato una – almeno narrativa – attitudine puramente competitiva che si è materializzata nelle minacce dei dazi, dei tagli agli aiuti esteri garantiti attraverso l’agenzia federale USAID e ai finanziamenti per le agenzie delle Nazioni Unite.
Come nasce e si consolida il ‘potere morbido’ Usa
Le basi del soft power americano furono gettate subito dopo la Seconda Guerra Mondiale. La devastazione dell’Europa e di alcune parti dell’Asia offrì agli Stati Uniti un’opportunità unica per guidare la ricostruzione e la governance. Ciò si manifestò in modo più visibile nel Piano Marshall, che stanziò oltre 13 miliardi di dollari (circa 150 miliardi di dollari di oggi) per contribuire alla ricostruzione delle economie dell’Europa occidentale, non solo per altruismo, ma anche per prevenire la diffusione del comunismo e promuovere l’interdipendenza economica. Allo stesso tempo, gli Stati Uniti svolsero un ruolo chiave nel plasmare l’ordine internazionale del dopoguerra attraverso istituzioni come le Nazioni Unite e organizzazioni finanziarie come il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale. Esse non servirono solo alla stabilizzazione economica globale, ma anche come veicoli dell’influenza americana, radicando i principi economici liberali e il multilateralismo a trazione occidentale a livello globale.
Ma non deve sfuggirci l’aspetto “soft” dell’influenza statunitense sui nostri Paesi. Dal punto di vista culturale, gli Stati Uniti hanno esportato una potente narrativa di libertà, opportunità e modernità. I film di Hollywood, il jazz e il rock, i blue jeans e, in seguito, l’ascesa dei giganti della tecnologia della Silicon Valley hanno contribuito a una pervasiva presenza culturale americana in tutto il mondo. Questo “stile di vita americano” è diventato un’aspirazione per molte società, rafforzando ulteriormente il soft power del Paese. Durante la Guerra Fredda, il soft power è diventato un’importante risorsa strategica nella battaglia ideologica con l’Unione Sovietica. Il governo statunitense ha investito molto nella diplomazia pubblica, istituendo iniziative come il Programma Fulbright per permettere a studiosi, artisti e scienziati di formarsi negli Usa, la United States Information Agency (USIA), che coordinavano l’iniziativa culturale delle ambasciate americane e le trasmissioni Voice of America, servizio ufficiale radiotelevisivo del Governo Federale. Tutte vittime dei recentissimi tagli di Trump. Questi sforzi miravano a presentare gli Stati Uniti come una terra di libertà e innovazione, contrastando la propaganda sovietica con messaggi di apertura e libertà individuale.
Ancora più importante, la cooperazione allo sviluppo americana approfondì nel tempo la propria capacità di penetrazione con la creazione dell’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID) nel 1961, sotto la presidenza Kennedy. USAID è diventato un pilastro del soft power degli Stati Uniti, fornendo aiuti allo sviluppo, assistenza tecnica e sostegno umanitario alle nazioni emergenti, in particolare in Africa, America Latina e Asia.
Con la fine della Guerra Fredda, gli Stati Uniti si percepivano come l’unica superpotenza mondiale, ma il loro soft power è diventato ancora più significativo in un mondo sempre più globalizzato. Gli anni ’90 e i primi anni 2000 hanno visto gli Stati Uniti promuovere la democrazia e il libero mercato attraverso mezzi sia bilaterali che multilaterali. L’istituzione, a opera dell’amministrazione Clinton, e l’espansione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto), gli accordi internazionali sul clima e sui diritti umani e la proliferazione di università e aziende americane a livello globale hanno tutti testimoniato la portata influente del Paese. Tuttavia, gli anni successivi all’11 settembre hanno presentato un quadro più complicato.
Mentre l’amministrazione Bush ha enfatizzato l’hard power attraverso la Guerra al Terrore, radicalizzatasi con gli interventi militari in Afghanistan e Iraq, la reazione al percepito unilateralismo statunitense ha eroso gran parte della buona volontà che si era accumulata nei decenni precedenti. Ciononostante, le istituzioni fondamentali del soft power – Usaid, diplomazia multilaterale, esportazioni culturali globali e scambi di istruzione superiore – continuavano a operare nell’ombra consolidando una visione positiva degli Stati Uniti a partire dai Paesi in cui più si era scatenata la loro furia ritorsiva bellica.
Barack Obama e il revival del soft power
L’elezione di Barack Obama nel 2008 ha segnato un deliberato ritorno a una forma di leadership globale fondata sulla diplomazia, sulla cooperazione multilaterale e sul ripristino dell’immagine morale dell’America all’estero. La presidenza di Obama ha cercato di ricostruire la credibilità del soft power statunitense, privilegiando l’impegno rispetto allo scontro, la collaborazione rispetto al predominio e la responsabilità condivisa nella risoluzione delle sfide globali. Fin dall’inizio, Obama ha utilizzato con grande efficacia il potere della narrazione e del simbolismo. Anche se è stato il primo presidente Usa a riorientare, con il programma “Buy american”, la tradizionale estroversione dell’economia americana verso un più marcato sostegno al mercato interno e alla rindustrializzazione nazionale, nessuno lo ricorda come un pericoloso sovranista: la sua storia personale, la retorica dell’inclusione e l’enfasi sul rispetto reciproco lo hanno caratterizzato come un vero campione del dialogo globale.
Esempi degni di nota includono il suo discorso al Cairo del 2009, in cui si rivolse al mondo musulmano nel tentativo di ristabilire le relazioni dopo anni di guerra, e i suoi primi sforzi diplomatici per riprendere il dialogo con gli alleati e le istituzioni internazionali. Questi gesti erano più che pura apparenza: riflettevano la consapevolezza strategica che il soft power americano fosse legato non solo alle sue risorse, ma anche alla sua reputazione. In termini di politica estera, l’amministrazione Obama ha riconfermato l’impegno degli Stati Uniti nel multilateralismo. Il suo rinnovato impegno con le Nazioni Unite e la firma del nuovo trattato Start con la Russia sono stati i primi segnali di un rinnovato atteggiamento internazionalista. Ha sostenuto lo sviluppo globale attraverso un aumento dei finanziamenti per iniziative come il Pepfar (Piano di Emergenza del Presidente per la lotta all’AIDS) e ha ampliato i programmi globali per la salute e la sicurezza alimentare attraverso l’iniziativa “Feed the Future” dell’UsAid.
L’Agenda per la Sicurezza Sanitaria Globale dell’amministrazione ha rappresentato una pietra miliare nella preparazione dei paesi a rispondere alle minacce delle malattie infettive, un’area in cui il soft power statunitense era da tempo efficace. Anche il commercio è stato utilizzato come strumento di soft power. L’amministrazione Obama ha perseguito il Partenariato Trans-Pacifico (TPP), non solo come accordo commerciale, ma come piattaforma strategica per la leadership americana nella regione Asia-Pacifico. Il TPP mirava a stabilire le regole dell’impegno economico nella regione, in contrasto con il modello statale cinese. Sebbene controverso a livello nazionale e infine abbandonato dall’amministrazione Trump, il TPP è stato ampiamente considerato un tentativo di allineare obiettivi economici e geopolitici attraverso un quadro commerciale basato sui valori.
Il cambiamento climatico è emerso come il nuovo terreno di espansione del soft power americano nel nuovo secolo. La leadership di Obama nei negoziati dell’Accordo di Parigi sul clima del 2015 ha segnato un significativo successo diplomatico. Gli Stati Uniti, in collaborazione con la Cina e l’UE, hanno contribuito a raggiungere un consenso tra quasi 200 paesi sulla riduzione delle emissioni di carbonio. Obama ha anche cercato di ricalibrare il coinvolgimento degli Stati Uniti in Medio Oriente e di spostare l’attenzione verso la “costruzione della nazione in patria”. Sebbene la sua decisione di ritirare le truppe dall’Iraq e di ricalibrare il coinvolgimento in Afghanistan abbia avuto risultati contrastanti, rifletteva un più ampio desiderio di ridurre l’impatto dell’hard power americano.
Tuttavia, i limiti persistevano. La Primavera araba e le sue conseguenze hanno messo in luce la complessità della promozione dei valori democratici. L’intervento in Libia, pur giustificato a livello multilaterale, ha sollevato interrogativi sulla coerenza e sull’impegno a lungo termine. Inoltre, l’ascesa dell’ISIS, la crisi in Siria e le tensioni con Russia e Cina hanno dimostrato che il soft power da solo non può risolvere tutte le sfide globali.
Donald Trump e il soft power col pugno di ferro
Se ne parla poco, ma è con la sua prima presidenza, tra il 2017 e il 2021, che Trump ha operato una netta rottura con l’approccio di lunga data degli Stati Uniti al soft power. Trump ha apertamente respinto l’ordine internazionale liberale del dopoguerra che gli Stati Uniti avevano contribuito a costruire. La sua dottrina “America First” ha dato priorità all’unilateralismo, alla sovranità nazionale e al nazionalismo economico rispetto all’impegno globale, alla costruzione di alleanze e alla cooperazione multilaterale, minando gli strumenti chiave del soft power che erano stati perfezionati nel corso di decenni.
Trump considerava già allora molti degli impegni globali degli Stati Uniti economicamente svantaggiosi e politicamente gravosi. A cavallo dei due mandati si è ritirato da accordi internazionali chiave, tra cui l’Accordo di Parigi sul clima, l’accordo sul nucleare iraniano (Jcpoa) e il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Ha denigrato alleati e istituzioni di lunga data: la Nato è stata da lui etichettata come “obsoleta”, il G7 e l’OMC sono stati costantemente criticati e persino le Nazioni Unite sono state definite inefficienti e ostili agli interessi statunitensi. Trump ha anche preso di mira gli aiuti esteri come emblematici dell’eccessiva espansione degli Stati Uniti. La sua amministrazione ha costantemente proposto tagli profondi ai bilanci del Dipartimento di Stato e di USAID, spesso superiori al 30%, sebbene il Congresso abbia ripetutamente ripristinato gran parte dei finanziamenti su base bipartisan. Ciononostante, la retorica e le intenzioni hanno inviato un segnale chiaro: gli aiuti allo sviluppo sarebbero stati giudicati meno in base al valore strategico a lungo termine e più in base alla lealtà politica a breve termine e ai guadagni transazionali.
L’amministrazione ha proposto drastici tagli ai contributi statunitensi alle Nazioni Unite e alle sue agenzie, prendendo di mira l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), il Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione (UNFPA), l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione (UNRWA) e altre. Nel 2018, gli Stati Uniti hanno ritirato i finanziamenti dall’UNRWA, che fornisce servizi essenziali di istruzione e assistenza sanitaria ai rifugiati palestinesi, solo parzialmente rialimentato da Biden, giustificando la decisione come necessaria a causa di presunte cattive gestioni e pregiudizi politici. Trump ha reintrodotto e ampliato, tra l’altro, la “Politica di Città del Messico” (nota anche come Global Gag Rule), bloccando i finanziamenti statunitensi alle ONG straniere che fornivano o anche solo menzionavano servizi di aborto. Questa decisione ha avuto un impatto significativo sui servizi di salute riproduttiva in Africa e Asia.
Il vuoto trumpiano e il fallimento dell’Europa
Ricordiamo, infine, la decisione di ritirarsi dall’OMS durante la pandemia di COVID: citando presunte cattive gestioni e deferenza nei confronti della Cina, Trump ha sospeso i contributi statunitensi e ha avviato la procedura formale di ritiro, poi revocata dal Presidente Biden. Nonostante questo tentativo di recupero, tuttavia, la Cina ha aumentato i suoi contributi alle agenzie delle Nazioni Unite, ha posizionato i suoi rappresentanti in ruoli di leadership chiave e ha ampliato la sua influenza sulle norme e sulla governance internazionali. Il ritiro degli Stati Uniti ha quindi creato l’opportunità di un cambiamento nelle dinamiche di soft power globale, potenzialmente rimodellando le istituzioni multilaterali per gli anni a venire. Credo sia questo l’aspetto più interessante, e più certo, sul quale concentrale la conclusione di questo mio ragionamento. Mentre la propaganda europea oggi si concentra sulla polarizzazione, la creazione e alimentazione di un clima di terrore globale e di una minaccia imminente addirittura alla sopravvivenza dei propri cittadini, con la diffusione di video terroristici a copertura della scelta del settore armiero come volano di crescita e centralità globale, la Cina riempie il vuoto lasciato da Trump nelle istituzioni e nei fondi multilaterali. Essa continua, da un lato, a trattare anche con lui condizioni economico-commerciali più favorevoli per le imprese globali, e statunitensi, accreditandosi, dall’altro, come potenza di pace, centrata sulla prosperità e il negoziato con tutti gli orfani della rilevanza occidentale. E’ la tomba dell’aspirazione europea alla centralità globale, schiacciata sul ruolo del crociato-becchino frugale e frontaliero, mentre chi cerca pace e mercati cancella Bruxelles dalla mappa delle destinazioni inevitabili.
*Monica di Sisto, giornalista, responsabile dell’Osservatorio italiano su clima e commercio Fairwatch.