Trump mira a sostenere l’egemonia statunitense nell’ordine capitalistico

Julio C. Gambina*

La crisi capitalistica esplosa tra il 2007 e il 2009 ha reso evidenti i limiti del regime di liberalizzazione emerso di fronte alla crisi di redditività del capitale tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. Questa crisi è stata motivata dalla maggiore capacità socio-politica del lavoro nella contesa contro il capitale per il plusvalore, sia attraverso il miglioramento dei redditi da lavoro, sia attraverso la spesa sociale gestita dagli Stati nazionali.

Questa disputa sull’eccedenza ha spinto l’iniziativa politica della borghesia concentrata, la cui prova iniziale è stata il terrorismo di Stato nel Cono sud dell’America Latina e si è generalizzata a partire dalla rivoluzione restauratrice di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, alla fine degli anni Settanta e all’inizio degli anni Ottanta.  

L’idea era quella di riprendere una dinamica di maggiore appropriazione dei profitti, orientata a potenziare l’accumulazione del capitale con una maggiore composizione organica e finalizzata a recuperare la possibilità di maggiore dominio e potere del capitale sul lavoro, sulla natura e sulla società, una sussunzione mai immaginata per la riproduzione e l’espansione capitalistica.

L’obiettivo strategico era riprendere la logica offensiva del capitale, solo messa in discussione nel mezzo secolo tra le crisi degli anni Trenta e degli anni Settanta/Ottanta del secolo scorso. Alludiamo a una temporalità più ampia, che ha origine negli obiettivi di costruzione di una società socialista dal 1917, fecondata dalle rivoluzioni in Cina nel 1949, a Cuba nel 1959 e in Vietnam nel 1973/75. Ancor più con la bipolarità “capitalismo-socialismo” installata nell’immaginario sociale mondiale tra il 1945 e il 1991. Alludiamo all’“immaginario”, che agisce nella “politica”, persino nelle “strategie e tattiche”, senza voler entrare nel merito se le rivoluzioni abbiano o meno prodotto una forma di organizzazione socio-economica alternativa al regime del capitale.

La liberalizzazione dell’economia, come soluzione proposta alla crisi di redditività degli anni ’60/’70, è stata assunta con la riproposizione degli slogan iniziali del capitalismo: libero commercio, libero scambio o libera concorrenza. La sconfitta del socialismo nell’Europa orientale, consumata negli anni ’80 dalla crisi polacca e lo smantellamento dell’URSS nel 1991, hanno permesso l’euforia della “fine della storia” e del trionfo del capitalismo.

Il tempo ha dimostrato che la realtà era più complessa e nel XXI secolo la Cina è emersa, sotto la guida del Partito Comunista e con l’obiettivo del socialismo, come uno dei principali attori nella disputa per l’egemonia capitalista, basata sulla produzione e sulla circolazione nel sistema mondiale. Si tratta di un’avanzata della Cina in concomitanza con il declino dell’“Occidente”, degli Stati Uniti, dell’Europa e persino del Giappone (che si trova ancora in Oriente) nella produzione e nella circolazione di beni, servizi e capitali. Ciò è stato evidente durante la crisi statunitense del 2001 e ancor più tra il 2007 e il 2009.

Da allora, il rallentamento della crescita nei principali Paesi capitalisti sviluppati è diventato evidente. Un processo evidenziato dagli indicatori dell’economia mondiale per l’evoluzione delle economie emergenti, in particolare della Cina.

Il processo di “globalizzazione” o “mondializzazione” operato nei quarant’anni tra il 1980 e il 2020 dalle politiche dei principali Stati nazionali del capitalismo globale, basate sulla logica delle organizzazioni internazionali, sta scricchiolando di fronte alle politiche protezionistiche e alle “sanzioni unilaterali” portate avanti dagli Stati Uniti sotto i governi di Donald Trump dal 2016.

La “restaurazione conservatrice” ha imposto la strategia globale del capitalismo sotto l’etichetta di “liberalizzazione”. Le sue conseguenze si sono manifestate come un’accelerazione del processo di universalizzazione del regime del capitale. L’esperimento “neoliberista” nel “cono sud” dell’America latina, dal 1973 si è trasformato nella politica dei principali Stati del capitalismo mondiale e si è imposto come programma delle organizzazioni internazionali, a tutto vantaggio dell’internazionalizzazione della produzione e della trans-nazionalizzazione del capitale.

Questo ha raggiunto il suo limite con la crisi del 2007/09 e da allora si sono susseguiti i tentativi di un “progetto politico” per superare la crisi, favorendo la visibilità di progetti politici di estrema destra, screditati dalla fine del fascismo o del nazismo intorno al 1945. Naturalmente, la sconfitta del “socialismo” intorno al 1991 non ha riguardato solo i Paesi che hanno raccolto l’eredità dell’epoca delle rivoluzioni, ma anche la tradizione socialdemocratica o riformista, annidata nelle politiche economiche keynesiane di intervento statale. Il comunismo e il “desarrollismo” sembravano essere stati messi in discussione, senza soluzioni ai problemi socio-economici che si sono dimostrati evidenti nella grande recessione del 2009.

Il malcontento sociale è cresciuto in assenza di “soluzioni” a un programma storico di miglioramento delle condizioni di vita, che il socialismo augurava fin dai tempi di Marx ed Engels, in particolare dal 1917 e ancor più dopo il 1945. Queste condizioni sono state contestate dallo “Stato sociale benefattore”, principalmente europeo, compreso il desarrollismo dispiegato nel Sud arretrato e dipendente negli anni ’60 e ’70.

Né la sinistra, né la socialdemocrazia o altre forme “centriste” o “desarrollistas” potevano fornire risposte a una popolazione che stava perdendo reddito, diritti storicamente conquistati e sicurezza sociale per mano di un programma di espansione della mercantilizzazione, alimentato dalla manipolazione dei media e delle reti sociali che hanno accresciuto il loro ruolo grazie all’innovazione tecnologica.

Mi riferisco ai cambiamenti nel capitalismo, espressi come nuovi impulsi alla disuguaglianza, guidati dal rallentamento dell’economia, dall’ascesa della Cina e di altre economie emergenti, che hanno contestato l’appropriazione del valore e del plusvalore globale, oltre alla pandemia COVID19 che ha esacerbato il rallentamento con una forte frenata (deliberata) nel 2020.

La ricchezza è diventata ancora più concentrata, basata su nuovi meccanismi di sfruttamento, sia attraverso la gestione della forza lavoro subordinata a nuove piattaforme e al lavoro a domicilio, sia attraverso la crescente automazione e robotizzazione della produzione e l’innovazione tecnologica applicata al commercio e alla finanza. Mi riferisco al commercio elettronico, alle valute digitali e alla digitalizzazione dell’economia nel suo complesso, associata soprattutto ai principali Paesi che si contendono l’egemonia, come gli Stati Uniti e la Cina.

Trump e il suo progetto

Questo è il contesto in cui entra Donald Trump nel governo degli Stati Uniti nel 2016 e ora nel 2025. 

Si tratta di un tentativo politico di intervenire nella difesa del capitalismo sotto l’egemonia statunitense, che richiede una strategia di dominio all’interno del Paese e nel resto del mondo, soprattutto in quello che Washington considera il proprio terreno: l’America Latina e i Caraibi.

La strategia è complessa, sia all’interno degli Stati Uniti che nei confronti della regione e del mondo. Se guardiamo all’interno, la differenza tra la prima amministrazione e la seconda è il maggiore spazio di manovra fornito dall’omogeneizzazione di ultradestra del gabinetto e della squadra di governo, oltre al raggiungimento di maggioranze legislative ed alla connivenza di un potere giudiziario organizzato a suo favore fin dalla prima amministrazione.

Si tratta di un pacchetto di potere nella struttura dello Stato che consente una particolare lettura della democrazia liberale. Non meno importante, è il gesto autoritario di una presidenza che ha imposto la logica più aggressiva di riduzione della spesa pubblica e di ridimensionamento di uffici e dipartimenti pubblici attraverso il DOGE (Department of Government Efficiency), guidato da Elon Musk. 

È un potere associato al consenso dei principali proprietari di aziende tecnologiche, che hanno circondato l’“unto” nella cerimonia di insediamento. Per citare solo alcuni tra i magnati della tecnologia, oltre a Elon Musk (TESLA, SPACEX, X), possiamo citare Mark Zuckerberg (Facebook, META), Jeff Bezos (AMAZON), Tim Cook (APPLE), Sundar Pichai (GOOGLE), un esempio della frazione di capitale concentrato che sta scommettendo sulla politica del secondo mandato di Trump.

La riduzione della spesa pubblica, che Musk gestisce, è una richiesta del capitale concentrato che nasce dalla critica dello Stato sociale, del keynesismo e dei “fallimenti del mercato” difesi dai neoclassici, e che gli ultraliberisti, i “libertari” o gli ultra-destri assumono come bandiera in materia economica. La richiesta mira a riappropriarsi del plusvalore ottenuto con le rivendicazioni conquistate dalle lotte operaie e popolari e concretizzatosi in un ampliamento dei diritti sociali, per garantire cibo, istruzione, salute e sicurezza sociale in generale.

Non è meno importante che Trump basi il suo “potere” su un consenso sociale allargato a settori svantaggiati, che non hanno visto migliorare le loro condizioni di vita, né con i Democratici, né con i Repubblicani. Ricordiamo che Trump è nato come un extra-partito, un outsider che ha conquistato il dominio del Partito Repubblicano dall’esterno. Fa parte della crisi politica degli Stati Uniti, del discredito dei partiti tradizionali, del sistema bipartitico di alternanza nella gestione del potere imperialista.

Trump ha conquistato il consenso dei settori sociali svantaggiati, ed anche di leader sindacali che hanno comprato il suo discorso della reindustrializzazione basato sulla politica dei “dazi per tutti”, al di là di rinvii o sospensioni, con la sola esclusione della Cina e dei suoi tradizionali “nemici”. Trump, come Reagan a suo tempo, disputa il consenso sociale per riprendere il ruolo degli USA nel capitalismo mondiale, da cui il Make America Great Again (MAGA) e la proposta di rilanciare una strategia industriale chiaramente impossibile, ma che attira la volontà della popolazione colpita dalla fuga dei capitali nell’ultimo mezzo secolo, per effetto della globalizzazione.

È un tentativo di disciplinare dal basso e dall’alto una dinamica che contraddice le aspirazioni degli sfruttati e degli impoveriti, ma che non crede alle risposte tradizionali e immagina soluzioni del progetto di Trump e dei suoi subordinati che avanzano contro i diritti e i modi di funzionamento storici della politica tradizionale degli Stati Uniti.

Le forme autoritarie possono scontentare alcuni settori del potere economico e politico, ma l’obiettivo di favorire il tasso di profitto è al di sopra di tutto. In gioco c’è la capacità di serrare i ranghi dal basso e dall’alto per sostenere il progetto Trump, che trascende la sua amministrazione e si presume sia storico, come la svolta che Reagan ha rappresentato per il neoliberismo negli anni ’80 del secolo scorso.

Il disciplinamento si gioca a livello planetario e questo è il motivo del duro scontro con la Cina, che oggi ha un formato tariffario, ma che si proietta in tutti i settori, soprattutto in quello militare. È in gioco il dominio del capitalismo. Da qui la durezza con i suoi partner storici, gli europei e il Giappone, nucleo del G7 e base essenziale del G20. Dal 2008, il G20 ha affermato che gli Stati Uniti e le potenze occidentali, compreso il Giappone, dovevano ampliare il consenso subordinato della Cina e di altri Paesi emergenti, come India, Brasile, Messico e Argentina.

La politica estera di Trump chiede “subordinazione” e gioca tutte le carte possibili, a prescindere dalla reale possibilità di realizzarla. Ecco perché non si vergogna di chiedere che il Canada (socio e vicino) diventi il 51° Stato dell’Unione; o l’offerta di acquistare la Groenlandia al di là della volontà dei suoi abitanti, dei suoi governanti o del legame storico con la Danimarca.

Va in questo senso, la spacconata nei confronti della regione latino-americana e caraibica. In primo luogo, enfatizzando e aggravando il blocco genocida su Cuba, riaffermando le “sanzioni” su Venezuela e Nicaragua e chiedendo la massima azione da parte di vari Paesi della regione.

Al Messico, suo vicino e alleato strutturale dopo gli accordi di libero scambio che hanno reso il Paese azteco uno dei principali esportatori mondiali, proprio per la natura dell’industria di assemblaggio definita dal capitale statunitense che sfrutta la manodopera a basso costo, esige il controllo delle frontiere, attraverso la militarizzazione.

La motivazione è l’impossibile contenimento della migrazione, il tutto con il messaggio della lotta al narcotraffico. Sostengo sia impossibile perché gli Stati Uniti non possono organizzare importanti aree di lavoro senza la popolazione migrante, proveniente dal Messico e, attraverso quel territorio, da altri Paesi della regione.

Trump si spinge addirittura a sostenere il cambiamento del nome del tradizionale Golfo del Messico, una porzione sostanziale della disputa territoriale sui beni comuni, in particolare sugli idrocarburi. Ricordiamo che gli Stati Uniti sono il principale consumatore e produttore di petrolio, soprattutto di idrocarburi non tradizionali, che però hanno vita breve a causa dell’esaurimento dei loro bacini. Il petrolio è una risorsa strategica richiesta dalle aziende statunitensi. Vale la pena ricordare che il Venezuela possiede le maggiori riserve petrolifere accertate al mondo.

Panama e il canale fanno parte delle richieste dichiarate da Trump, soprattutto per il ruolo della Cina e delle sue strutture portuali, che in queste circostanze sono state cedute a società statunitensi. La Cina è uno dei principali motori del commercio nella regione e non c’è dubbio che Trump intenda frenare l’espansione della Cina nella regione, non solo nel commercio, ma anche negli investimenti produttivi e nella finanza.

È il caso dell’Argentina, che negli ultimi anni ha fatto ricorso a uno swap negoziato con la People’s Bank of China per risolvere la mancanza di valuta estera nella gestione del governo. Il Segretario al Tesoro statunitense, Scott Bessent, in una visita lampo a Buenos Aires, ha esplicitato il sostegno dell’amministrazione Trump all’amico Javier Milei, suggerendo di cancellare il credito recentemente rinnovato con Pechino, in scadenza nel 2026, per continuare la partnership strategica tra Stati Uniti e Argentina. Vale la pena ricordare che dietro questa alleanza ci sono gli innumerevoli beni comuni di cui il Paese dispone e che le transnazionali statunitensi richiedono.

Il Perù ha inaugurato il porto di Chancay alla fine del 2024, un progetto gigantesco che favorisce il commercio regionale con l’Asia. Si tratta di un’impresa in cui la Cina detiene una partecipazione di maggioranza e che va a discapito della strategia statunitense. Allo stesso modo, gli accordi sul litio tra Bolivia e Russia non sono visti di buon occhio dall’amministrazione Trump.

Gli esempi citati sono solo alcuni dei problemi che l’amministrazione Trump sta sollevando per contestare la crescente presenza della Cina e dei suoi alleati nella regione latino-americana e caraibica.

È necessaria un’alternativa

Il problema non è Trump, l’ultradestra e i loro partner complici nella regione e nel mondo, ma l’assenza di un’alternativa politica. 

La debacle del “socialismo” di 35 anni fa ha incoraggiato il “capitale concentrato transnazionalizzato” e le destre mondiali, tra cui Donald Trump e i suoi soci privilegiati in Sud America, Javier Milei (Argentina), Nayib Bukele (El Salvador), Daniel Noboa (Ecuador), tra i principali governanti usciti dalle elezioni. Espressione della crisi politica derivante dalla mancanza di soluzioni alle richieste di una maggioranza impoverita nei Paesi della regione.

Il FMI riferisce che la regione crescerà intorno al 2% nel 2025, quando la media mondiale sarà del 2,8%. È vero che le economie avanzate cresceranno dell’1,4%, la zona euro dello 0,8% e gli Stati Uniti dell’1,8%, tutti al di sotto della media e persino della scarsa crescita regionale. Si tratta di risultati ben lontani da quelli dei Paesi emergenti che si aggirano intorno al 3,7%, della Cina al 4% o dell’India al 6,2%.

L’Argentina si distingue con una proiezione del 5,5%, basata su un ampio piano di aggiustamento nei confronti della popolazione impoverita e sull’avanzamento delle riforme reazionarie. Con un’espansione che, secondo i dati ufficiali, per ora si basa sul settore finanziario, con il 30% a febbraio, ultimo dato ufficiale, per un mese che è cresciuto al 5,7%, con performance inferiori alla media nei settori più dinamici dell’occupazione, come l’industria e l’edilizia. 

La CEPAL definisce quanto accaduto tra il 2012 e il 2022 come il decennio perduto nella lotta alla povertà. Una qualifica che la scarsa crescita successiva non cambia.

L’amministrazione Trump è una minaccia per il mondo e soprattutto per la regione. Una politica che aggrava la crisi ambientale stimolando l’estrattivismo petrolifero e minerario e il saccheggio dei beni comuni della regione, ma anche inducendo un discorso di odio e di emarginazione contro i flussi migratori dal sud del continente verso gli Stati Uniti.

Nei primi anni del secolo, le lotte popolari nella regione latino-americana e caraibica hanno generato aspettative di cambiamento politico, concretizzate in governi che criticavano discorsivamente l’eredità della liberalizzazione degli ultimi decenni del XX secolo. Anni in cui si rivalutava il potenziale di costruzione di un rinnovato progetto della “patria grande”, che aveva ispirato le lotte emancipatrici all’inizio del XIX secolo, anche in nome del socialismo del nuovo secolo.

La controffensiva delle classi dominanti e l’incapacità trasformatrice di questi processi hanno limitato le possibilità di trasformazione strutturale in una prospettiva anticapitalista e hanno permesso vittorie elettorali dell’ultradestra, come nel caso del Brasile, oltre a quelli già citati, sulla base di inediti meccanismi di destabilizzazione delle democrazie effettivamente esistenti.

Al di là del riapparire di processi critici nei confronti della liberalizzazione, come nei casi di Messico, Uruguay, Colombia e persino del Cile, la regione è al centro dell’offensiva dell’amministrazione Trump, per consolidare un territorio da cui espandere la propria disputa globale, non solo contro la Cina, ma anche per subordinare il sistema mondiale a una nuova dinamica di sfruttamento e saccheggio.

(Traduzione di Marco Consolo)


*Julio C. Gambina è dottore in Scienze Sociali presso l’UBA, Argentina. Fa parte della Giunta Direttiva della Società latino-americana e caraibica di economia politica e pensiero critico, SEPLA. È membro della Direzione della Corriente Política de Izquierda, CPI. Presiede la Fundación de Investigaciones Sociales y Políticas, FISYP.

Print Friendly, PDF & Email