Perché le guerre in corso ?
Maurizio Lazzarato*
Non siamo mai usciti dalla grande crisi del debito privato che la finanza Usa ha scatenato e che ha successivamente fatto pagare al mondo intero. Nei miei lavori su quella crisi ipotizzavo che l’uscita più probabile sarebbe stata una guerra. Ci siamo dentro da tra anni: scontro armato ma anche militarizzazione degli strumenti economici (dollaro, debiti, dazi, tassi di interesse, ecc.) trasformati dagli Usa in armi contro alleati e non. Il livello dello scontro si è alzato sia tra grandi potenze economico-politiche, ma anche tra classi.
La causa principale delle guerre in corso (commerciali, dei capitali, degli eserciti, civili) si trova nel fallimento del modello economico e politico imperiale degli USA .
L’economia americana avrebbe dovuto dichiarare bancarotta da tempo, se per quest’ultima valessero le regole che valgono per gli altri paesi. Alla fine di aprile 2024 il debito pubblico totale era pari a 34.617 miliardi di dollari. Dodici mesi prima, tale somma era di 31.458 miliardi. In un anno il debito pubblico è aumentato di 3.160 miliardi di dollari, pari quasi al livello del debito pubblico della Germania, la quarta potenza economica mondiale. Ma è il suo esponenziale progredire che oggi è completamente incontrollato: un aumento di 1000 miliardi ogni cento giorni. Oggi, siamo già a 1000 miliardi ogni 60 giorni.
L’esposizione finanziaria netta negativa, che registra il disavanzo finanziario con l’estero, conferma il fallimento di Biden, che non è riuscito a invertire la tendenza, anzi. Il passivo finanziario con l’estero è salito a 26.2000 miliardi. Per avere un’idea dell’enormità di questa cifra: il governo Berlusconi è stato fatto cadere dall’Unione Europea per un passivo netto di 300 miliardi, sostituendolo con un “tecnico”, Mario Monti, che ha tagliato tutta la spesa sociale che poteva, puntando tutto sulle esportazioni .
Ma è l’accelerazione di questo passivo che lascia stupefatti: nell’ultimo trimestre è aumentato più di 2000 miliardi. Un altro esempio per avere un’idea dei numeri in gioco: Trump si vanta delle promesse di investimento degli Emirati Arabi Uniti, pari a circa 1500 miliardi in 10 anni, cifra enorme ma che l’economia Usa “mangia” in un trimestre.
Il segretario del commercio Howard Lutnick, ha dichiarato: “Occorre risettare e ridefinire i rapporti degli Usa sia nei confronti degli alleati che nei confronti dei nemici. L’idea che tutti i paesi del mondo possono accumulare eccedenze commerciali e acquisire con il ricavato i nostri asset, è insostenibile. Nel 1980 eravamo investitori netti, possedevano cioè più asset del resto del mondo. Oggi gli stranieri posseggono 18.000 miliardi di assets in più rispetto a noi (in realtà sono 26.000 miliardi!). Sono diventati creditori netti. La situazione continua a peggiorare di anno in anno e alla fine non saremo più proprietari del nostro paese che apparterrà al resto del mondo”.
Anche il sistema finanziario è al limite. Il capitale finanziario non produce merci, ma bolle che si gonfiano tutte negli Usa e sono destinate a scoppiare a danno del resto del mondo. La finanza americana succhia valore (capitali) da tutto il mondo, lo investe in asset costruendo una bolla, che presto o tardi si sgonfierà, obbligando le popolazioni del pianeta all’austerità e ai sacrifici per pagare i suoi fallimenti: prima la bolla di internet, poi la bolla dei subprime che ha causato una delle più grandi crisi finanziarie della storia del capitalismo, aprendo le porte alla guerra. Hanno tentato anche la bolla del capitalismo green che non è mai decollata e infine la bolla, incomparabilmente più grande, delle imprese high tech. Per tamponare le falle dei disastro dei debiti privati scaricati sui debiti pubblici la Federal Reserve e la banca europea hanno inondato i mercati di liquidità che invece di “sgocciolare” nell’economia reale, è servita ad alimentare la bolla high tech e lo sviluppo dei fondi di investimento, noti come i “Big Three”, Vanguard, BlackRock e State Street (il più grande monopolio della storia del capitalismo, gestisce 50.000 miliardi di dollari, azionista di riferimento in tutte le più importanti imprese quotate in borsa). Ora anche questa bolla si sta sgonfiando. La pacchia volge al termine. La bolla ha raggiunto il suo limite e i valori scendono con il rischio concreto di un crollo. Se aggiungiamo l’incertezza che le politiche di Trump, rappresentante di una finanza che non è quella dei fondi di investimento, introducono in un sistema che questi ultimi erano riusciti a stabilizzare con il concorso dei democratici, comprendiamo le paure dei “mercati”.
Se c’è una nazione che vive a scrocco del mondo intero, questa sono gli USA. Il resto del mondo paga i suoi debiti (le folli spese dell’american way of life – di cui, evidentemente, solo una parte degli americani ne beneficia – al suo enorme apparato militare) in due modi principali. Attraverso il dollaro, la “merce” più scambiata del mondo, gli USA esercitano un signoraggio sull’intero pianeta, perché la sua moneta nazionale funziona come moneta degli scambi internazionali, consentendogli di indebitarsi come nessun altro paese. Dopo la crisi del 2008, gli USA hanno trovato un altro sistema per scaricare i costi del debito sugli altri, attraverso una riorganizzazione della finanza. I capitali (soprattutto degli alleati e, tra questi, principalmente l’Europa), sono trasferiti negli USA per pagare i crescenti tassi d’interesse sul debito, grazie ai fondi di investimento.
La guerra economica (commerciale e dei capitali)
La “guerra” alla Cina rappresenta la vera continuità delle amministrazioni statunitensi, considerata, almeno a partire da Obama, il nemico strategico del “mondo libero e democratico”. L’Occidente dell’uomo bianco, dopo la sconfitta subita dalla Russia in Ucraina, continua il suo violento declino dichiarando la guerra “commerciale”, velocemente trasformatasi in guerra dei capitali, alla Cina, ai BRICS e al sud globale. Le barriere doganali introdotte da Trump colpiranno non solo i paesi a cui sono imposte, ma forse, in modo ancora più radicale, le classi popolari degli Usa. Lo scontro tra classi sociali dentro gli Usa è destinato ad aumentare.
Per cercare di salvare l’economia americana e l’egemonia dell’Impero, Trump è obbligato a combattere una guerra dei due fronti, interno e esterno, e il più problematico rischia di essere il primo. Il capitalismo nei periodi di crisi sistemica come questo, deve gerarchizzare il potere e la divisione del lavoro tra potenze economico-politiche sul mercato mondiale; deve contemporaneamente riconfigurare le classi al suo interno, sia il proletariato che le classi dirigenti. E non può farlo che tramite la violenza e la forza. E’ la riproduzione dell’accumulazione originaria che si riproduce ogni volta che il capitale e lo Stato sono costretti a cambiare le modalità dell’accumulazione del capitale.
Lo scontro con i Brics
L’incertezza e anche la confusione che avvolgono le strategie di Trump trovano la sua ragione nella situazione inedita in cui si trova ad agire: i rapporti di forza sono radicalmente mutati nel mercato mondiale. E’ questo il principale risultato delle rivoluzioni del XX secolo (la sovietica incoraggiando il socialismo dei “popoli oppressi” ha aperto la strada alla rivoluzione cinese, vietnamita, alle rivoluzioni africane e sudamericane) che hanno attaccato la divisione coloniale su cui si fondava il dominio occidentale sin dalla conquista dell’America. Le rivoluzioni socialiste del XX secolo sono finite, ma i rapporti di forza tra nord e sud sono cambiati per sempre.
Il paragone con la prima crisi egemonica degli Usa a cavallo degli anni Sessanta e Settanta è molto significativo. E’ in questo periodo che viene decisa la globalizzazione : l’economia americana non riusciva già allora a tenere il passo con la competitività della Germania e del Giappone.
Ma la crisi più che economica era politica : gli Usa (e gli alleati europei) negli anni Sessanta avevano combattuto una guerra globale contro il sud e l’avevano persa. Erano stati attraversati da grandi lotte di classe che la Trilaterale definiva come “domanda fuori controllo dei ceti popolari” indirizzata allo Stato che lo obbligava a concessioni politiche e sociali (salari, welfare, ridistribuzione per quanto parziale del reddito). La delocalizzazione nel sud del mondo dell’industria americana è stata prima di tutto uno sbarazzarsi della lotta di classe e la volontà di tagliare l’erba sotto i piedi al movimento operaio e alla molteplicità dei movimenti che si erano sviluppati tra gli anni Sessanta e Settanta.
Nel 1973, Nixon non solo decise l’inconvertibilità del dollaro in oro, trasformandolo in moneta segno, tutta politica a disposizione degli yankees, ma impose barriere doganali del 10% per negoziare e imporre la volontà dell’Impero, proprio come Trump. Quattro mesi dopo tutti i vassalli occidentali accettano un apprezzamento dello loro valute. Per non dire niente del Giappone che, nel 1985, accetta di rivalutare lo yen, sempre per salvare la competitività Usa, facendo harakiri, perché da quel momento la sua economia non si è mai più risollevata. Il Giappone era la Cina dell’epoca dal punto di vista della produttività e dell’innovazione. Ma la Cina non è un paese occupato militarmente e asservito come il Giappone degli anni Ottanta.
Questa globalizzazione ha fallito, perché gli Usa sono in una situazione ancora più sfavorevole degli anni Settanta.
Anche se Trump crede ricattare il resto del mondo, perché gli Usa funzionano come “importatore di ultima istanza” di beni, la sua azione si dispiega in un mondo di rapporti di forza radicalmente mutato. All’inizio degli anni Settanta, l’Occidente deteneva l’essenziale della produzione mondiale e dell’invenzione tecnologica. Oggi la Cina e i Brics sono potenze industriali e tecnologiche, paragonabili all’Occidente e posseggono gran parte delle materie prime e energetiche, e non hanno nessun interesse a salvare la pelle dell’Imperialismo occidentale ripianando il suo passivo della bilancia dei pagamento, svalutando le loro moneta, distruggendo la loro economia, aprendo le porte alla finanza di Wall Street. Non sono servi dell’Impero come gli europei. Agli Usa non resta che spellare l’Europa sempre pronta al sacrificio, ma è troppo poco.
L’Occidente è condannato da Trump a un ulteriore isolamento, perché i Brics e il sud globale continueranno a sviluppare catene produttive e commerciali alternative, cercando una moneta di sostituzione al dollaro, incrementando brevetti, tecnologie, eccetera, come hanno fatto in occasione della guerra in Ucraina.
Guerra civile interna
Trump ha già adesso non pochi problemi in casa, per cui sta conducendo una guerra interna per definire e imporre una nuova classe dirigente e far pagare i deficit al proletariato statunitense.
Il crollo del listino dei valori borsistici impatta direttamente sulla vita di milioni di americani. I risultati negativi della borse, in un’economia finanziarizzata, incidono sulla vita delle classi medio/alte : negli USA, 1/3 dei loro redditi è legato alla performance della finanza. Wall Street è la loro INPS (l’istituzione che distribuisce le pensioni), il loro ministero della Sanità e il loro Welfare. Quando la Borsa va giù, perdono valore anche le capitalizzazioni per la pensione, per la salute, eccetera.
La strategia dei fondi, sostituire il welfare con l’investimento in titoli (tramite assicurazioni individuali) è andata molto avanti con Biden, alimentando la bolla americana fino a portarla al limite dello scoppio. Sgonfiarla è una necessità, ma come farlo senza intaccare pensioni, sanità, “welfare” finanziarizzato, eccetera, delle classi che hanno la possibilità di investire in borsa?
Trump ha le mani legate dalle politiche monopolistiche dei fondi che raccolgono il risparmio mondiale e che non condividono le sue scelte di industrializzazione, proprio come la Fed, che non obbedisce ai suoi ordini. Black-Rock e JP Morgan hanno attaccato direttamente la sua politica accusandolo di mettere sul lastrico milioni di risparmiatori, manifestando uno scontro sempre più violento all’interno dello oligarchie Usa.
La battaglia tra velleità “industriali” (Trump) e finanza “reale” (Fondi) è stato vinta da quest’ultima che in quattro / cinque giorni di caduta dei titoli (e di evoluzione dei tassi sui titoli sul debito) ha costretto il presidente a indietreggiare. I motivi per cui è stato eletto (riportare l’industria, il lavoro e l’impiego) sono difficilmente realizzabili. Anche perché il progetto di Trump è altamente contraddittorio : per industrializzare, ammesso e non concesso che ci sia ancora tempo per farlo, avrebbe bisogno di un grande Welfare che abbassi tutti i costi (educazione, comunicazioni, infrastrutture, ecc.) per le imprese. Invece lo sta distruggendo.
Il suo programma è incentrato su un’analisi che si può condividere e su una impossibilità per lui di realizzarlo : la produzione industriale è stata distrutta dalla finanziarizzazione, esportata nel sud globale con la conseguente perdita di milioni di posti di lavoro qualificati e ben pagati sostituiti da impieghi precari e mal pagati . La volontà di far tornare le imprese è praticamente impossibile materialmente e non si capisce come possa essere realizzata da una cricca di miliardari che si sono tutti arricchiti grazie alla finanza speculativa.
Con i dazi Trump vuol fare pagare i deficit alla classe operaia e alla popolazione per poter ridurre ulteriormente la tasse ai ricchi e alle imprese, incentivando una vera propria guerra civile di classe.
Negli Stati Uniti, quest’ultima, è sempre razziale, sin dalle origini della Repubblica. A partire dal New Deal, la guerra civile razziale è anche al centro della strutturazione del welfare perché ogni sua estensione rischia di far saltare le gerarchie di razza su cui è organizzata l’”unica vera democrazia” politica, secondo Hanna Arendt. Già ai tempi della “Great society” degli anni Sessanta, le politiche sociali avevano suscitato l’odio razziale dei bianchi, perché vi leggevano la riduzione delle differenze tra loro e neri. Anche il timidissimo Obamacare (e Obama stesso) aveva suscitato reazioni di questo genere. I “proletari” bianchi che stanno con Trump hanno reagito sentendosi e pensandosi “razza bianca”. La finanziarizzazione ha smussato le gerarchie razziali impoverendo i bianchi rendendoli sempre più vicini ai “neri”, scatenando nuove forme di fascismo e razzismo.
I tagli alle spese sociali che l’amministrazione sta programmando devono essere accompagnati dal ristabilimento di gerarchie razziali (e di genere). La riorganizzazione delle spese sociali è capitalistico-razziale e la reindustrializzazione sarà, se ci sarà, dominata dalla razza bianca. Se invece l’obiettivo è la continuazione della predazione finanziaria, il proletariato statunitense nel suo insieme sarà ridotto a “plebe”. Quando l’imperialismo Occidentale radicalizza la sua guerra per l’egemonia, la “razza bianca” è il soggetto che supporta il conflitto con il resto del mondo (vedi il genocidio suprematista in Palestina).
Come si vede le difficoltà esterne – i Brics – e interne – le “minoranze” razziali stanno diventando la maggioranza, la povertà, lo scontro tra oligarchie, ecc. – sono enormi e tutte politiche. Trump vuole l’industrializzazione, ma non vuole – o meglio non può – mollare la finanza e il dollaro che hanno causato la delocalizzazione della produzione. Vuole un dollaro deprezzato, ma che resti la moneta degli scambi mondiali. Vuole industrializzare e vuole la finanza che catturi capitali e li convogli negli Usa per pagare i deficit. In parole povere vuole la “botte piena e la moglie ubriaca”.
Se siamo immersi in un regime di guerra è perché le difficoltà economiche Usa e le contraddizioni che generano sembrano insormontabili e la guerra, come sempre, resta la miglior soluzione per i capitalisti e i loro Stati: far saltare il banco e “dio riconoscerà i suoi”. Però, per utilizzare lo stesso linguaggio di Trump, gli Usa non hanno più tutte le “carte in mano”, come le aveva ancora Nixon.
Il momento «leninista»
Le guerre interne e esterne che gli Usa sono costretti a condurre, sono una vera e propria mossa d’azzardo: se fallisce accelera notevolmente i tempi e potrebbe condurre:
- all’indebolimento del dollaro come moneta internazionale e quindi il venir meno del “privilegio esorbitante” di comprare merci in cambio di carta straccia (la più importante produzione “industriale” Usa è stata semplicemente, per decenni, stampare dollari);
- alla messa in discussione della finanziarizzazione che aveva garantito l’egemonia degli Usa e dell’Occidente;
- all’ulteriore sfilacciarsi della globalizzazione fondata sul dollaro e sulla finanza a comando Usa, con una spaccatura politica ancora accentuata con i Brics e il sud del mondo;
- La transizione ecologica si è rapidamente trasformata in una transizione verso un’economia di guerra di cui l’Europa, con il progetto di riarmarsi, vorrebbe essere l’avanguardia, portando a compimento la distruzione dello Stato sociale e intensificando la sua subordinazione agli USA
- il “crollo” possibile di questo tipo di capitalismo costruito su una gigantesca accumulazione finanziaria speculativa, sganciata dalla produzione reale di ricchezza e basata sull’ impoverimento generale e sull’ indebitamento infinito del proletariato
L’ “evento” Trump ha creato dei possibili che prima semplicemente non esistevano , aprendo un tempo carico di kairos, di occasioni da cogliere. Intervenire su questi possibili (il “crollo” di questo capitalismo, della finanziarizzazione ecc.) significa orientare, in funzione dello scopo voluto, la modificazione dei rapporti di forza, ora in movimento continuo. È in questo modo che ragionavano i rivoluzionari della prima metà del XX secolo: lo scoppio delle contraddizioni capitalistiche non è che la condizione per la presa del potere, il cui successo non è garantito da nessuna filosofia della storia, ma da una strategia politica e una lotta senza quartiere. Mao poteva dire, la “situazione è eccellente”, perché aveva un partito, un esercito una volontà soggettiva di rottura sistemica degli imperi coloniali che lo rendeva capace di cogliere il momento e di sfruttare le sue opportunità. Il capitalismo è profondamente cambiato da allora, ma ci porta sempre a questa accelerazione del tempo dove di deve decidere.
Il capitalismo finanziarizzato, sviluppando contraddizioni insanabili, può mutare, trasformarsi, solo ricorrendo alla violenza extra-economica della guerra (militare e economica), della guerra civile, del genocidio. Solo una volta che l’azione politico-militare ha stabilito un nuovo ordine, nuove regole, nuovi poteri (chi comanda e chi obbedisce) nel mercato mondiale, una nuova economia può vedere il giorno.
I pericoli che corrono sia gli Usa che il capitalismo sono stati messi in luce dagli stessi capitalisti. Qualche tempo fa, l’uomo della finanza mondiale, Larry Fink, a capo del fondo d’investimento più importante (12.000 miliardi di dollari), ha inviato une lettera ai suoi clienti/investitori dove preconizzava:
- che il debito pubblico e i debiti privati degli Usa sono insostenibili;
- la possibilità che, prossimamente, il dollaro possa non costituire più la moneta di scambio e di riserva internazionale. I bitcoin (moneta privata) potrebbero sostituirlo;
- un nuovo e positivo ruolo dell’Europa, in cui lo stesso fondo d’investimento sta agendo per costruire una bolla degli armamenti su cui convogliare il risparmio;
- l’estensione della democratizzazione della finanziarizzazione, ossia la “finanza per tutti”, perché Trump, con le sue politiche di guerra commerciale e dei capitali, con l’impossibile progetto di industrializzazione, rischia di distruggere i fondamenti stessi del capitalismo.
La fine possibile del capitalismo (contro l’ideologia irresponsabile del “è più probabile la fine del mondo) che preoccupa i nostri dirigenti, deve tornare dentro l’orbita percettiva, cognitiva e politica dei “movimenti”, perché il capitalismo non crollerà da solo, ma solo se una volontà organizzata lo distruggerà.
*Maurizio Lazzarato è un sociologo e filosofo italiano, residente a Parigi, Francia dopo aver lasciato l’Italia alla fine degli anni Settanta. Autore di numerosi libri, è stato uno dei membri fondatori della redazione della rivista Multitudes ed ha sviluppato la sua riflessione in particolare sul lavoro immateriale e sul debito.