Trump, lo jedi “cattivo” che vuole redimere l’America
Paolo Naso*
Che un presidente comunichi anche con le immagini, è considerazione banale e scontata. Che utilizzi le immagini per estremizzare la sua piattaforma politica e per drammatizzare ed esasperare i suoi atti di governo è una scelta comunicativa che merita qualche considerazione. Nei mesi scorsi la Casa Bianca ha pubblicato un post in cui il presidente si mostrava in versione jedi con sguardo truce e combattivo e impugnando la spada del “cattivo” di Star Wars. Con l’intelligenza artificiale si può fare questo e ben altro. Ma perché Trump ha scelto di identificarsi con il “cattivo” invece che con l’eroe positivo? Non abbiamo risposte certe ma possiamo fare solo supposizioni: il messaggio è rivoto ai liberal che descrivono Trump come il più pericoloso dei presidenti americani, quello che per ideologia e temperamento, può infliggere colpi durissimi e permanenti al sistema costituzionale. Insomma, egli accetta di buon grado l’etichetta di “cattivo” impostagli dai suoi detrattori per rassicurare il suo elettorato e ironizzare sulle futili critiche rivoltegli dai suoi oppositori. Il “Trump – jedi” è quello dei dazi e della mano di ferro contro i migranti, quello che in passato aveva pubblicamente definito Haiti, El Salvador e l’Africa – si perdoni il letteralismo della citazione – dei “posti di merda”. Insomma quello che “spacca” e che, quando necessario, sa usare la mano forte.
Di segno diverso tre autorappresentazioni più recenti: la prima, ancora in campagna elettorale, è quella in cui promuove l’acquisto della God Bless the USA Bible, un’edizione del testo sacro autografata dal presidente in persona e arricchita di un cd patriottico in cui uno dei suoi più creativi sostenitori canta il più famoso e il più popolare degli inni patriottici americani.
La seconda è quella leonardesca in cui, attorno a un moderno cenacolo improvvisato alla Casa Bianca, accoglie le benedizioni del Faith Office da egli stesso istituito per confortarlo e orientarlo nel corso del suo ministero presidenziale. “Trump-Gesù” è al centro, circondato da discepoli raccolti in cerchio e dalla prima di tutti loro, la predicatrice aula Withe: donna simbolo della Destra religiosa più radicale e più devota a una teologia intrisa di nazionalismo e conservatorismo, di aspirazioni alle benedizioni materiali più che a quelle spirituali. E, all’opposto, alfiere della lotta trumpiana contro ogni espressione LGBTQ+, ferocemente antiabortista, convinta interprete di quel “sionismo cristiano” che affida la soluzione della questione mediorientale all’ Armagheddon finale nel quale il Messia salverà i giusti e condannerà i peccatori.
Una terza, recente, autorappresentazione trumpiana è quello che mostra il presidente vestito da papa. Roba forte – deve aver pensato chi lo ha incoraggiato a produrre questa immagine – che scandalizzerà e farà parlare. E infatti così è accaduto. Ma alla fine si fa presto a buttarla in caciara e a precisare che era solo una birbonata per una risata tra amici. Monsignori e vescovi non avranno apprezzato, ma il “popolo”, quello del barbecue domenicale e del tifo da stadio potrebbe avere riso ed applaudito. Essendo ancora all’inizio del suo mandato, possiamo prevedere che nel tempo Trump diffonderà altre immagini che contribuiranno a consolidarne l’immagine di uomo che si prede il centro della scena, di super-eroe e di capo carismatico del MAGA (Make America Great Again, Facciamo di nuovo grande l’America!).
Di fronte a questa strategia comunicativa, è sin troppo facile ridurne gli eccessi all’ incontinenza senile o al bizzarro carattere del presidente. La tesi che proponiamo è che si tratti di una precisa strategia dell’eccesso, calcolata e perseguita con il preciso intento di sfasciare gli scaffali della cristalleria politica americana, lasciando libertà di movimento all’elefante imbizzarrito che oggi insulta Zelensky e domani lo difende; che se al mattino blandisce Putin, all’ora del tè lo minaccia militarmente; abbastanza sfrontato da sbattere in faccia al neoeletto premier canadese Mark Carney che il Canada potrebbe essere la 51esima stella della bandiera americana e così tracotante da piantare una bandiera a stelle e strisce sulla Groenlandia. La strategia dell’eccesso, in altre parole, non è un’iperbole retorica ma la cifra intenzionale di un estremismo retorico che riflette il radicalismo politico di questa Amministrazione. I segnali sono giunti forti e chiari sin dall’inauguration day e dal discorso pronunciato in quella occasione. Gli speech presidenziali dell’occasione, storicamente, erano un messaggio di pacificazione e di celebrazione della forza della democrazia americana che, nonostante il dibattito interno e le polarizzazioni della campagna elettorale, alla fine trova una sua ricomposizione di cui il Presidente eletto è garante.
Al contrario, il Trump furioso e verbalmente incontinente ha cominciato ad attaccare i suoi avversari, insultandoli e denunciandoli come imbelli e sovversivi, disegnando un’America distrutta dal liberalismo e dal “politicamente corretto” e annunciando un programma di restaurazione politica e di valori che ha lasciato interdetti milioni di americani. La percezione è che diritti ormai garantiti e consolidati oggi siano a rischio. A iniziare da quello al riconoscimento della propria sessualità, ma anche a quello di vivere in un paese meno inquinato e meno responsabile della crisi globale dell’ambiente. La “tolleranza zero” nei confronti dei migranti irregolari – stimati intorno ai 14 milioni di individui – era stata annunciata da tempo ma la fotografia con la quale, qualche giorno dopo il suo discorso inaugurale, il presidente ha voluto mostrare che cosa intenda per “deportazione di massa” è la prima, empia icona di una politica xenofobica e irrispettosa della dignità di uomini, donne, minori che per anni hanno lavorato “invisibili” nelle piantagioni ortofrutticole o negli uffici delle multinazionali. L’immagine della fila di migranti in catene, allineati mentre si imbarcano su un volo che li avrebbe risbattuti nell’inferno dal quale erano partiti, è la prima della nuova amministrazione Trump, sbattuta in faccia con la soddisfazione di chi rivendica il merito della coerenza: “ve lo avevo promesso e l’ho fatto”.
In effetti i “cento giorni” sono stati una corsa sulle montagne russe di una politica tronfia e rodomontesca che però – dobbiamo ammetterlo – ha catalizzato l’America. È stata necessaria la reazione negativa dei mercati mondiali alla politica neo-protezionistica dei dazi a suscitare qualche significativa reazione e a dare forza alle prime critiche che non venissero dai soliti noti dei movimenti libertari e dalle sparute fazioni democratiche che si riconoscono in Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez. Anche la promessa taumaturgica di risolvere “in un giorno” il conflitto tra Ucraina e Russia non ha avuto il successo che il Presidente aveva troppo tempestivamente annunciato. Quanto ai piani di pace per il Medio Oriente, la cinica ironia del “Gaza resort” nella cui piazza si immagina una blasfema statua d’oro del Presidente, non passerà alla storia come gli accordi di Camp David del 1979 ma ha avuto il merito di indicare la considerazione che Trump ha dei palestinesi e delle loro sofferenze. A oggi, inoltre, è difficile giudicare un successo la missione mediorientale di lungo termine dell’inviato Steve Witkoff che, smessi i panni dell’immobiliarista, ha indossato la feluca del diplomatico di alto rango. Non è detto che, alla luce del suo ruolo, il famoso video su Gaza Resort non contenga più di qualche elementi di concretezza.
Il “sionismo cristiano”
Ma a questo scenario da incubo, la strategia trumpiana ne suggerisce un’altra, per altro con essa compatibile. La formula è quella del “sionismo cristiano”. Un’anticipazione della concretezza di questa “teologia politica” si è già concretamente definita nel corso del primo mandato di Trump alla Casa Bianca quando il presidente decise di trasferire l’Ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme. Varrà la pena ricordare che la questione ha una specifica valenza politica legata alla reazione da parte dell’assoluta maggioranza degli Stati alla decisione unilaterale israeliana di stabilire Gerusalemme come “capitale eterna e indivisibile” dello Stato ebraico. Era il 1980 e, in un contesto geopolitico sideralmente diverso da quello attuale, questa gran parte della comunità internazionale ritenne che questa decisione violasse il diritto internazionale e varie dichiarazioni dell’ONU. Non ultima la 246 del 1967, successiva alla Guerra dei Sei Giorni che, come noto, consentì a Israele di occupare i territori della Cisgiordania, arrivando fino alla “Città santa”. In quella risoluzione, l’Assemblea generale dell’ONU dichiarava la “inammissibilità dell’acquisizione con la guerra di territori”. L’anno dopo il Consiglio di sicurezza chiedeva a Israele di abbandonare “tutte le misure” che tendevano alla “modifica dello status di Gerusalemme”, e cioè di una città sostanzialmente divisa in aree, alcune delle quali almeno idealmente e programmaticamente sotto il controllo palestinese.
In questa polemica si inserirono con forza gruppi di fondamentalisti cristiani di origine americana che, Bibbia alla mano, rivendicavano Gerusalemme come città interamente ebraica e quindi sotto il governo israeliano. L’assoluta maggioranza della comunità cristiana mondiale – dal Vaticano al Consiglio Ecumenico delle Chiese che raggruppa protestanti e ortodossi – ha sempre respinto questa impostazione esclusiva e lesiva dei diritti sia dei musulmani che delle chiese mediorientali. Gli argomenti erano insieme giuridici e teologici, e tendevano a contestare radicalmente un’interpretazione della Bibbia ridotta a manifesto di un aggressivo sionismo che punta all’acquisizione di territori palestinesi in cui sono sorte e si sono sviluppate storiche comunità cristiane.
La polemica si fece rovente nel 1980 quando, in seguito alla decisione della Knesset, numerose ambasciate – compresa quella USA – si traferirono a Tel Aviv, intendendo così segnalare il dissenso della comunità internazionale nei confronti di una decisione unilaterale del governo israeliano. In reazione a questa decisione, gruppi di fondamentalisti di matrice evangelical diedero vita a un nuovo, robusto network internazionale del “sionismo cristiano”. L’associazione più importante di questa lobby fu la International Christian Embassy che, a iniziare dal nome, volle esprimere il pieno sostegno di un’indefinita entità cristiana alla decisione israeliana di annettersi per intero la città di Gerusalemme. Sulla stessa onda è nata, più recentemente, un’altra associazione denominata Christians United for Israel (CUFI), immediatamente notata dalla Casa Bianca Trumpiana che nel 2017, nel corso del primo mandato del Tycoon, accolse con una ovazione il vicepresidente Mike Pence. Ad accoglierlo con tutti gli onori fu il rev. John Hagee, autore di un best seller sul “conto alla rovescia” che ci separa dall’apocalisse finale dello scontro – militarmente collocato in Israele, nella piana di Meghiddo – tra le forze del Bene e quelle del Male. Facile immaginare da chi siano composte le prime: cristiani coscienti ed ebrei, per altro poi destinati alla conversione a Cristo; storicamente più complessa l’identificazione delle seconde: i comunisti negli anni della guerra fredda; i musulami nei primi anni dopo l’11 settembre del 2001; una variegata banda LGBTQ+, laicista e globalista oggi. Questa corrente teologica organizza campagne finanziarie milionarie che sostengono finanziariamente gli insediamenti israeliani in Cisgiordania: già anni fa il quotidiano israeliano “Haaretz” stimava un flusso di oltre 65 milioni di dollari a sostegno dele colonie ebraiche nel West Bank . Al di là della sua capacità di mobilitazione politica, il sionismo cristiano non è una semplice propensione filoisraeliana o filoebraica di alcuni gruppi cristiani ma rimanda a una teologia fondamentalista che interpreta alcune pagine bibliche (i libri di Daniele e di Giosuè, l’Apocalisse, in primis) in chiave geopolitica, attribuendo loro il valore di una profezia carica di conseguenze sul piano degli assetti territoriali del Medio Oriente. Negli anni, queste teorie si sono diffuse anche grazie a volumi di teologia romanzata e a fiction di dubbio valore letterario ma molto efficaci nella costruzione di un consenso popolare all’idea di un “piano di Dio” per la redenzione dell’umanità che passa attraverso periodi di tribolazione e, infine, uno scontro finale tra le forze del Bene e quelle del Male . Il prodotto culturale e teologico “pop” che maggiore impatto ha avuto sul popolo del fondamentalismo apocalittico è stata la saga dei Left Behind: una serie di sedici bestseller firmati da Tim LaHaye e Jerry Jenkins, pubblicati tra il 1995 e il 2007.
Il genere letterario è il thriller apocalittico, confusa miscela di citazioni bibliche affastellate le une alle altre e di sapiente scrittura buona per la sceneggiatura televisiva o cinematografica, con un occhio all’attualità politica internazionale. Le tensioni geopolitiche che continuano ad attraversare il mondo e in particolare il quadrante mediorientale offrono continui spunti che questa letteratura legge in chiave teologica e millenaristica: dall’attentato di Hamas alla nascita di una nuova colonia ebraica in Cisgiordania, dall’uccisione di Rabin all’accordo tra USA e Arabia Saudita del 2020. Tutto fa parte del “piano di Dio” e tutto concorre a demonizzare le Nazioni Unite, l’Unione Europea, il dialogo interreligioso, tutti strumenti in mano all’Anticristo per conquistare il mondo e affermare il suo potere e imporre una finta pace che invece accredita il suo potere. L’esito finale di questo delirio fantasy infarcito di citazioni bibliche sarà lo scontro tra le forze del Bene e quelle del Male, sino al ritorno vittorioso del Messia che stabilirà il suo regno millenario di pace. E sarà quello il momento della conversione degli ebrei: politicamente sionista, questa teopolitica al fondo riproduce il classico schema antigiudaico che condanna gli ebrei al loro passato costringendoli, ne tempo messianico, a una conversione.
L’azione terroristica di Hamas del 7 ottobre 2023 ha restituito nuova linfa a queste visioni millenaristiche che, radicalizzate, tendono a spostare l’asse della politica esterea americana su posizioni sempre più filoisraeliane. La linea è quella di sempre: un sostegno indiscusso e indiscutibile a Israele, da una parte, e una ferma opposizione a qualsiasi richiesta palestinese perché le varie formazioni che si contendono la leadership non avrebbero altro obiettivo che l’annientamento di Israele e la creazione di uno stato islamico palestinese che va dal mare al Giordano. Tra i corollari di questa visione, la richiesta di un attacco militare contro l’Iran: “La giusta rabbia dell’America deve concentrarsi sull’Iran – ha recentemente dichiarato il già citato Hagee -. Lasciate che ve lo dica in un semplice discorso texano: l’America dovrebbe rimboccarsi le maniche e fare a pezzi l’Iran per quello che ha fatto a Israele. Colpiteli così duramente che i nostri nemici torneranno a temerci”. Gli fa eco il figlio Matt, erede del potente network del sionismo cristiano costruito dal padre: “Il Segretario di Stato non ci tirerà fuori da questa situazione…Dio dice a Ezechiele esattamente come difenderà Israele. Parla di far piovere fuoco, grandine e zolfo. È un assalto aereo celeste”.
Come rileva il “New York Times”, vi sono pochi dubbi che oggi il sostegno del movimento evangelical nordamericano sia una delle risorse più efficaci del soft power israeliano: oggi a sostegno del pugno duro di Netanyahu a Gaza ma anche di scelte più dure e radicali che potrebbero essere prese domani, da un governo di Gerusalemme ulteriormente sposta a destra. La forza di questa opzione – sottolinea la testata – è insieme politica e teologica, dal momento che il sostegno a Israele da parte dei cristiani conservatori costituisce la spina dorsale della posizione dei Repubblicani e si collega alla fede nelle profezie bibliche” .
È questo il tratto di lunga durata di una dinamica politico-religiosa che Donald Trump, nonostante il suo modesto standard morale e la sua dubbia eticità evangelica, sembra magistralmente in grado di interpretare.
*Paolo Naso ha insegnato Scienza politica alla Sapienza – Universtà di Roma. Collabora con varie istituzioni accademiche italiane e internazionali specializzate nel campo delle discipline socio-religiose. Per la Federazione delle chiese evangeliche in Italia ha diretto Mediterranean Hope – Programma Rifugiati e Migranti. Attualmente coordina il Consiglio per le relazioni con l’Islam istituito presso il Ministero dell’Interno.