Dove vanno gli Stati Uniti?
Valter Pomar*
Gli Stati Uniti esercitano una profonda influenza sull’intero continente americano. Non si tratta solo di un’influenza economica, sociale, politica e militare. C’è un’influenza culturale, che va dalla cultura politica in senso stretto, fino a innumerevoli altre dimensioni. Allo stesso tempo, la popolazione brasiliana, compresa l’élite, sa molto poco degli Stati Uniti. In effetti, l’ignoranza spiega parte dell’influenza straniera: solo l’ignoranza dei fatti ci permette di credere, ad esempio, che gli Stati Uniti siano un “modello” di democrazia. La miscela di egemonia e ignoranza rende molto più difficile comprendere ciò che sta accadendo negli Stati Uniti.
Un esempio: il 26 novembre 2008, la Direzione nazionale del Partito dei Lavoratori ha tenuto un affollato dibattito sulla crisi internazionale e i suoi effetti sul Brasile, con Guido Mantega e Marco Aurélio Garcia come relatori. Il dibattito aveva ribadito che la crisi internazionale è un prodotto diretto delle cosiddette politiche neoliberali, in particolare della deregolamentazione dei mercati finanziari. Aveva inoltre sottolineato che per affrontare la crisi è necessario adottare misure per rafforzare gli investimenti pubblici, il mercato interno, l’integrazione regionale e, in generale, il ruolo dello Stato nell’economia.
Ma allo stesso tempo, il dibattito ha mostrato che nel 2008 c’erano molte questioni controverse, sia aperte che da approfondire. Una di queste riguardava la profondità e la durata della crisi. Nel dibattito si è registrata la tendenza a enfatizzare i vantaggi comparativi dei “Paesi in via di sviluppo”, in particolare del Brasile, rispetto agli Stati Uniti e all’Europa. Questa tendenza ha portato a due fraintendimenti: da un lato, ha minimizzato gli effetti della crisi sulla “periferia”; dall’altro, non ha tenuto conto del fatto che i Paesi centrali avrebbero cercato di trasferire i costi della crisi sul “resto del mondo”.
LE ILLUSIONI SUL RIFORMISMO
Anche chi crede che l’imperialismo sia una “tigre di carta” dovrebbe prestare attenzione e difendersi adeguatamente da questo tentativo. Non l’abbiamo fatto correttamente e ciò che è successo è stato prima uno tsunami (termine che l’allora presidente brasiliana Dilma Rousseff ha usato per indicare l’uso della svalutazione del dollaro come arma geopolitica e geoeconomica) e poi il sostegno diretto degli Stati Uniti al colpo di Stato del 2016 e a ciò che ne è seguito.
Alle illusioni sul riformismo di Obama sono seguite, anni dopo, quelle sul riformismo di Biden. All’epoca, l’allora Presidente nazionale del PT, la compagna Gleisi Hoffmann, il 28 aprile 2021 disse addirittura che Biden avrebbe “rivoluzionato l’economia capitalista”. “Non avrei mai pensato che, dopo Franklin Delano Roosevelt, avrei ammirato un presidente americano: crescita dal basso verso l’alto! Questo è ciò di cui abbiamo bisogno per l’America Latina. Questo è ciò di cui abbiamo bisogno per il Brasile!”.
Biden è il cittadino che, in qualità di vicepresidente di Obama, ha favorito il colpo di Stato in Brasile. A parte questo, chi ha paragonato Biden a Franklin Delano Roosevelt ha semplicemente dimenticato che la salvezza dell’economia statunitense non è arrivata dal New Deal, ma dalle spese per la Seconda Guerra Mondiale. Dimenticano anche che, dopo quella guerra, l’economia statunitense è stata egemonizzata dal duo Wall Street/Pentagono, senza il cui rovesciamento è impossibile pensare a qualsiasi rivoluzione in quel Paese, neanche a una “rivoluzione del capitalismo”. Nel 2021, gli Stati Uniti erano e sono tuttora un’economia gestita dal grande capitale oligopolistico, finanziario e imperialista. Credere che usciranno da questa crisi con una “crescita dal basso”, qualunque cosa significhi, è un’illusione inaudita. Ma molte persone della sinistra brasiliana si sono imbarcate in questa illusione.
All’epoca, il vero Biden (non questo rivoluzionario che esisteva nella fantasia dell’allora nostra Presidente nazionale petista) scrisse quanto segue: “Man mano che le nostre scorte di vaccini cresceranno per soddisfare le nostre esigenze, e le stanno soddisfacendo, diventeranno un arsenale di vaccini per altri Paesi, proprio come l’America è un arsenale di democrazia per il mondo”. Un’altra frase di Biden: “I soldi degli americani saranno usati per comprare prodotti americani, fatti negli Stati Uniti. Questo è come dovrebbe essere e così sarà in questa amministrazione”. Terza frase: “Siamo pronti a decollare di nuovo, a guidare di nuovo il mondo”.
Obama e Trump hanno detto cose simili. È l’imperialismo che lotta per mantenere il suo potere. Di fronte a ciò, la classe dirigente colonizzata farà ciò che ha sempre fatto: sottomettersi e adattarsi. Come diceva Juraci Magalhães, ambasciatore brasiliano negli Stati Uniti sotto il dittatore Castello Branco: “Ciò che è buono per gli Stati Uniti, è buono per il Brasile”.
Ma la sinistra non dovrebbe pensarla così. Tra le altre ragioni, perché ci sono molte differenze fondamentali tra gli Stati Uniti e il Brasile. Gli Stati Uniti sono un Paese imperialista, il principale Paese capitalista del mondo, che tra l’altro ha una moneta che ha l’“esorbitante privilegio” di essere ancora la valuta principale nelle transazioni internazionali. Tutto ciò che rafforza gli Stati Uniti aumenterà la pressione sul Brasile. E nell’attuale situazione storica, ciò che gli Stati Uniti vogliono dal Brasile sono le esportazioni di beni primari.
Sebbene in Brasile ci siano grandi illusioni sugli Stati Uniti nel loro complesso, la sinistra ne ha di più sui Democratici. Come ha confessato di recente Celso Amorim, ex ministro degli Esteri delle amministrazioni Lula 1 e Lula 2 e ora consigliere per le relazioni internazionali del governo Lula 3, rispetto a Trump “i democratici erano più educati. Molti di loro sono nostri amici”.
L’amicizia a volte ci acceca. Non solo ci fa vedere aspetti positivi dove non ce ne sono, ma ci fa anche sottovalutare i nemici dei nostri amici. Questo spiega in parte ciò che sta accadendo ora con l’amministrazione Trump, che viene spesso presentata come quella di un uomo squilibrato che sta polarizzando e distruggendo gli Stati Uniti. A questo proposito, è incredibile vedere persone che si lamentano delle minacce di Trump contro la “democrazia bicentenaria”, semplicemente dimenticando che 200 anni fa i gringos dicevano già che “l’America è per gli americani”, che l’élite statunitense era schiavista e che stava promuovendo il genocidio degli indigeni.
Per quanto riguarda Trump, c’è anche del metodo nella follia. Vediamo: l’egemonia militare, monetaria e finanziaria ha bisogno di una base produttiva. E gli Stati Uniti stanno perdendo la loro leadership produttiva. Questo erode la base politica e ideologica dell’egemonia statunitense nel mondo, ma erode anche l’egemonia della classe dirigente statunitense all’interno del proprio Paese. La società statunitense è profondamente divisa e la sua classe dirigente è divisa anche su come rendere l’America Great Again.
All’interno delle regole del gioco (regole e gioco in gran parte creati dagli stessi Stati Uniti), gli Stati Uniti continueranno a perdere. Ribaltare la situazione è l’unica soluzione logica per gli Stati Uniti per cercare di riconquistare la propria egemonia. Naturalmente, questo potrebbe accelerarne la caduta. Ma “there is no alternative” (non c’è alternativa). In questo senso, c’è del metodo nell’apparente follia di Trump. C’è un metodo e un precedente: Nixon, 15 agosto 1971. Gli Stati Uniti stracciarono gli accordi di Bretton Woods, gran parte del mondo si inchinò e anni dopo le Stars & Stripes (stelle e strisce) trionfarono nella Guerra Fredda. Nixon è anche uno specchio, seppur rovesciato, dell’operazione che Trump sta cercando di portare a termine, per mettere un cuneo tra Cina e Russia.
Contro gli Stati Uniti, che stanno facendo a pezzi il multilateralismo e calpestando la globalizzazione, governi e partiti difendono urbi et orbi lo status quo ante. Ma l’apparenza nasconde l’essenza: nel mondo reale, chi sa e può sta adottando misure protezionistiche di vario tipo. Chi sa, ma non può, sta cercando di negoziare una riduzione dei danni con gli Stati Uniti. Ma c’è anche chi pensa di sapere: è il caso di una parte importante della classe dominante brasiliana, dei suoi dipendenti nel mondo delle idee e della politica professionale. In breve, queste persone pensano che il Brasile vincerà da entrambe le parti: venderà di più alla Cina e agli Stati Uniti.
Chiunque lo creda ha frainteso la profondità di ciò che sta accadendo. L’essenza dei termini “guerra commerciale” e “guerra tariffaria” sta nella parola “guerra”. Un Paese ricco e non protetto come il Brasile non beneficerà di questa guerra: sarà saccheggiato. Naturalmente, ci sarà un settore della comunità imprenditoriale che ne beneficerà: come in ogni guerra, i capitalisti avvoltoi vinceranno.
ESISTE UN’ALTERNATIVA?
Esiste un’alternativa? Certo! E il fatto che Lula e il PT siano alla Presidenza potrebbe essere decisivo. Ma solo se approfittiamo della finestra aperta dalla crisi per trasformare profondamente il Paese: sovranità alimentare, sovranità produttiva, sovranità energetica, sovranità digitale, sovranità militare, sovranità scientifico-tecnologica, sovranità ambientale. Tutto ciò che odiano la nostra classe dominante e il capitalismo realmente esistente nel nostro Paese. Tutto ciò che solo le classi lavoratrici e un orientamento socialista possono rendere possibile.
Quanto sono disposti il PT e il governo Lula a guidare una rivoluzione di questo tipo? Oggi, poco. Una parte importante della sinistra brasiliana è legata a una logica di pensiero tradizionale, secondo la quale bisogna difendere il “sistema” – in questo caso il multilateralismo – dall’attacco trumpista.
Non c’è dubbio che dobbiamo sconfiggere il trumpismo. Ma non c’è modo di far risorgere il multilateralismo come prodotto della globalizzazione guidata dagli Stati Uniti. Chi pensa di farlo attraverso l’accordo Mercosur-Unione Europea non si rende conto – o finge di non rendersene conto – che la premessa di questo “accordo neocoloniale” è quella di cristallizzare il Brasile come nazione esportatrice primaria. Il percorso del Brasile deve essere diverso: l’industrializzazione, e la velocità deve essere enorme.
È in questo contesto che va vista la battaglia contro “il cavernicolo” (Bolsonaro, ndt.) e l’estrema destra. Non si tratta solo di una battaglia in difesa delle libertà democratiche. È una disputa sul presente e sul futuro del Brasile. Bolsonaro, Tarcísio e simili sono i portavoce del settore più radicale dell’agrobusiness, del capitale finanziario e degli interessi imperialisti statunitensi. Dall’altra parte, ci sono settori della destra tradizionale che sono disposti a trovare un accordo con l’estrema destra intorno al progetto che li unisce: supersfruttamento della classe operaia, malessere sociale, democrazia limitata, dipendenza dall’esterno e sottosviluppo.
Il grande dilemma che la sinistra brasiliana, il PT e il governo devono affrontare è come sconfiggere il neofascismo, senza capitolare di fronte al capitale finanziario e all’agrobusiness. Le scelte fatte finora non hanno risolto questo dilemma. Se non si interviene diversamente, potremmo vincere le elezioni presidenziali del 2026, ma con il rischio di vincere in condizioni peggiori di quelle del 2022. Questo ridurrebbe le possibilità di un quarto mandato di Lula migliore del terzo. E quindi ridurrebbe le possibilità di ulteriori vittorie elettorali.
Dobbiamo ammettere che non è un problema facile da risolvere. Ma nel mondo, nel continente e in Brasile non esistono difficoltà insormontabili. Le sfide e le minacce esistenziali sono già state affrontate e superate in passato, e possiamo fare lo stesso oggi e in futuro. Ma per farlo, dobbiamo offrire un’alternativa sistemica alla crisi sistemica. La profonda crisi che stiamo vivendo è un’ulteriore prova che il capitalismo minaccia la sopravvivenza dell’umanità e spinge una parte significativa della popolazione mondiale alla sofferenza fisica e mentale. La soluzione sistemica alla crisi risiede nel socialismo. La sinistra brasiliana deve tornare a parlarne, anche perché credere che sia possibile costruire un futuro migliore è essenziale per fare del Brasile un Paese sovrano, con benessere sociale, libertà democratiche e sviluppo. Dobbiamo parlare di nuovo di socialismo e, soprattutto, dobbiamo tornare a lottare per il socialismo.
Ma dobbiamo anche tornare a parlare di imperialismo e combattere di nuovo l’imperialismo. Da questo punto di vista, Trump è come Bush: provoca meno dubbi e illusioni. E genera risposte migliori. Ne è un esempio la scelta di Lula di commemorare a Mosca l’80° anniversario della vittoria contro il nazifascismo.
I media, che in Brasile fungono da portavoce della classe dominante, hanno reagito violentemente alla scelta di Lula. Uno dei più importanti quotidiani del Paese, l’ Estado de S. Paulo, ha affermato in un editoriale che “Lula sta conducendo una politica estera guidata non dagli interessi dello Stato, ma dalle perversioni ideologiche e dalla sua ambizione di essere celebrato come una star del terzo mondo. È stato così nella folle mediazione nucleare con l’Iran nel 2010. È così nella sistematica contemporaneità di dittature come Cuba, Venezuela e Nicaragua”.
Questa lettura deve deludere molto gli amici del governo e della sinistra brasiliana che hanno festeggiato tre recenti decisioni del governo, ovvero il ritiro dell’ambasciatore brasiliano dal Nicaragua, il mancato riconoscimento dei risultati delle elezioni venezuelane e la mancata accettazione dell’ingresso del Venezuela nei BRICS. Alla fine, quello che l’Estado de S. Paulo sta dicendo è che non basta inginocchiarsi, bisogna pregare e molto!
Ovviamente è in gioco anche l’elezione presidenziale del 2026. Secondo l’Estado de S. Paulo, andando a Mosca Lula avrebbe gettato “un’altra palata di calce sull’”ampio fronte democratico“ che lo ha eletto nel 2022”. Tutto questo perché il Brasile, secondo l’Estadão, si sta allontanando dai “centri democratici e riformisti del mondo” per avvicinarsi “all’oscura costellazione di regimi autoritari del nuovo asse del caos”.
Ma se esiste un asse del caos in questo mondo del 2025, la sua capitale è Washington e la sua succursale è Bruxelles.
Essere a Mosca il 9 maggio 2025 è stato un successo per Lula e per la politica estera brasiliana. E poi andare a Pechino per un incontro tra la CELAC e la Cina è un altro successo. La grande domanda è se questi due successi saranno seguiti da uno sforzo concentrato per ricostruire l’integrazione regionale latinoamericana e caraibica.
Traduzione di Marco Consolo
*Valter Pomar è direttore della cooperazione internazionale della Fondazione Perseu Abramo e membro della Direzione nazionale del Partito dei lavoratori (PT) del Brasile. Professore presso l’Università Federale di ABC (Brasile).