Dentro l’America in Crisi: Intervista ad Alessandro Portelli*

Alberto Deambrogio **

Su la Testa  Gli Stati Uniti da anni sono divisi come non mai e Trump sta accentuando questo fenomeno. Su cosa sono divisi e come?

Alessandro Portelli – Sul piano della divisione, non è una cosa nuova. Non ci dobbiamo dimenticare che gli Stati Uniti hanno combattuto al loro interno la più sanguinosa guerra civile della storia. Non c’è qualcosa di miracoloso nella loro formazione naturale che impedisca il formarsi di frazioni. Materialmente sono divisi in classi, nel senso che pochi ultra miliardari possiedono e controllano migliaia di volte la ricchezza dei lavoratori. Sono poi divisi tra nativi e migranti ed è ripresa con molta violenza la divisione fra bianchi e neri. E’ molto radicale, come peraltro da noi, la differenza fra l’ideologia dio patria e famiglia e un pensiero più democratico e più avanzato. Sul piano politico direi che la qualità della divisione deriva dal fatto che lo spostamento a destra del partito repubblicano ha fatto venir meno, in un lungo percorso di più di trent’anni iniziato con Clinton, ha fatto venire meno l’antico ethos bipartitico. Anche la dimensione del senso civico, per cui comunque il presidente è il presidente di tutti, anche di quelli che non l’hanno votato, non è più vera da almeno un paio di generazioni. Direi quindi che le linee di divisione sono molteplici e radicate nella storia…

S.l.T – Quali motivazioni interne ha la politica estera di Trump a tuo parere?

A.P. – Penso che abbia motivazioni di puro dominio. C’era un vecchio modo di avvicinarsi alla politica degli Stati Uniti, che era quello di distinguere fra impegno internazionale e isolazionismo. La politica di Trump ha spezzato questo binomio nel senso che pratica una politica assolutamente interventista sul piano internazionale, ma ispirata a un puro solipsismo di interessi nazionali. Quando lui dice che si vuol annettere il Canada e la Groenlandia e prendere le terre rare dell’Ucraina sicuramente non persegue una politica isolazionista. A differenza della politica imperiale precedente, che conosciamo, siamo di fronte a una politica di puro dominio della forza. Non è una politica che punta sul soft power, né su una rete di alleanze e di coinvolgimenti. In questo senso è una politica solipsistica, che però, appunto, non significa rifugiarsi all’interno dei propri confini come da tradizione, ma è una visione del mondo retta dal puro dominio.

S.l.T. – A chi ha parlato Trump nei suoi primi 100 giorni di governo? Chi lo ha votato approva oggi il suo operato o no?

A.P. – Siccome quelli che l’hanno votato sono una gamma molto ampia e diversificata direi: alcuni si è e altri no. Sicuramente c’è una componente che non se l’aspettava e quindi è rimasta disorientata. C’è una componente che a un certo punto comincerà ad accorgersi che la distruzione dell’apparato statale colpirà anche i propri interessi. Devo dire poi che c’è una componente forte di persone che hanno votato Trump per esprimere risentimento, vendetta. Questa ultima è oggi molto contenta del fatto che ai liberali con la puzza sotto al naso di Columbia, di Harvard possano pagarla. E’ altresì molto contenta perché gli immigrati che mettono in discussione con la loro stessa presenza l’idea che l’”America siamo noi” siano finalmente puniti. C’è dunque una componente di rabbia e vendetta che, per il momento almeno, non è messa in discussione dall’impatto materiale delle decisioni di Trump. Quello che emerge è l’assoluta inconsistenza della cultura democratica di questo paese. Gli USA sono venuti vantando se stessi come l’unica democrazia del mondo quando avevano la schiavitù, quando avevano il razzismo istituzionale, e così via. Quelli che hanno dato l’assalto al Campidoglio qualche anno fa erano convinti di essere i portatori della democrazia. C’è una componente di opinione pubblica degli Stati Uniti che non sa cosa vuol dire democrazia, che si rifà a una idea della forma tradizionale del sistema politico americano, senza sapere realmente in che cosa consiste la democrazia. Si trovano persone convinte che la Bibbia sia inclusa nella Costituzione, così come se ne incontrano altre che non hanno mai sentito parlare del Bill of Rights. C’è una assoluta debolezza della cultura democratica di quel paese come peraltro della nostra, solo che noi non siamo andati in giro vantandoci di essere la patria della democrazia. La situazione negli USA è stata aggravata negli ultimi anni da una crisi dell’istruzione, da un crollo dell’informazione. Questo comporta il fatto che per un sacco di gente non sia grave o problematico il fatto che Trump ignori completamente le decisioni dei tribunali, o che sia sistematicamente violato lo stato di diritto. Per molte persone non è in questo che consiste la “democrazia”. Questo è un elemento di cui dobbiamo tenere conto.

S.l.T.-  In queste ultime settimane negli Stati Uniti sono cresciuti lotte e fermenti sociali. Cosa ne pensi? 

A.P. –  Penso che si tratti di esperienze frammentarie, minoritarie e abbastanza disperate. Resto sempre convinto che Bernie Sanders fosse l’ultima speranza di salvare la democrazia negli Stati Uniti. In un paese di 250 milioni di persone ci saranno pure 50 milioni di persone che non sono d’accordo e su questo qualcosa ti costruisce. Ci sono anche delle figure nelle istituzioni che credono allo stato di diritto, alcuni magistrati. In questo momento tutto quello che manca completamente è una forma organizzata, un modo istituzionale di contrapporsi: il parlamento non esiste proprio, come peraltro non esiste in Italia, mentre il sistema giudiziario è proclamato come nemico della patria. Il partito Democratico è composto al suo interno anche da gente che ha gli stessi interessi di Trump. Il partito Democratico è retto da miliardari esattamente come è retto da miliardari il partito Repubblicano. Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez, sono un caso clamoroso e una eccezione rispetto a una politica che è stata interamente appropriata dai super ricchi. Prima che qualcosa si coaguli credo che dovrà passare del tempo. Spero ovviamente di avere torto.

S.l.T. –  Che rapporto intrattiene Trump con la lobby filoisraeliana? La politica di Trump continuerà a essere completamente appiattita sui valori di Netanyahu o no?

A. P. – Trump è notoriamente un antisemita, questo è fuori discussione. D’altra parte i migliori amici di Israele oggi sono antisemiti a partire da Orban o Vox. C’è un antisemitismo dei potenti che trova in Netanyahu e nell’attuale politica dello stato di Israele una proiezione dei propri interessi e, soprattutto, un’espressione pura dell’idea di dominio e di forza, che è esattamente quello che Trump sta cercando di generare come principio fondante delle relazioni nel mondo. Israele è l’esempio perfetto di uno stato che purtroppo si colloca dichiaratamente al di fuori della legge e del diritto, che non riconosce confini, che attacca le navi nelle acque internazionali intorno a Malta.  Questo è Israele: l’incarnazione del puro dominio, mentre a sua volta è vassallo del dominio americano. Ovviamente esiste una rappresentanza ufficiale, una presenza organica dell’ebraismo negli Stati Uniti che è schierata come buona parte delle comunità ufficiali a destra.  La componente ebraica che ha preso posizioni coraggiose e giuste negli Stati Uniti, come peraltro anche in Italia, è comunque forte e significativa. Gruppi come Jewish Voices for Peace e altri sono un piccolo fattore di speranza.

S.l.T. – Secondo te come riesce Trump a tenere insieme l’elettorato cosiddetto redneck e i multimiliardari? Forse che degli uni difende gli interessi e degli altri valori?

A.P. –  Io non userei il termine redneck perché è un insulto razziale, geografico. E’ come se noi dicessimo “i cafoni calabresi.” L’uso che fanno i media oggi di questo termine comunque mette insieme una componente forte di mondo del lavoro, soprattutto bianco, in nome di quello che dicevo prima, cioè in nome della rivalsa e della vendetta nei confronti di tutto quello che ha eroso il senso di essere, il cuore, il centro, l’unica identità praticabile. Al tempo stesso Trump è entrato comunque in quelle comunità, promettendo di fare loro interessi. Non dimentichiamoci che ci sono anche componenti del movimento sindacale che hanno approvato l’idea delle tariffe, l’idea dei dazi perché vogliono riportare tutto in patria, creare nuovi posti di lavoro. Molti di loro sanno che è un’illusione, ma sanno anche che i democratici non farebbero molto di più. Un’altra cosa è che la rabbia di classe negli Stati Uniti non si esprime tanto in termini di poveri contro i ricchi, ma in termini di gente comune contro i vip. I ricchi non sono percepiti come élite, perché esiste una mitologia per cui ognuno può diventare ricco, e comunque se sono ricchi se lo sono meritato: i ricchi sono quello che noi vorremmo, o dovremmo, essere. I veri bersagli sono i professori universitari, i giornalisti, gli insegnanti delle scuole, tra l’altro infinitamente sottopagati, sono i medici (pensiamo a tutta la battaglia contro i vaccini), sono gli scienziati, cioè sono tutti quelli che trasmettono una sensazione di superiorità culturale (e spesso la manifestano con forme di snobismo classi sta). Esiste una sorta di egualitarismo al ribasso per cui una parte dell’elettorato è felice che venga distrutta la National Science Foundation, è felice che venga abolito il ministero della pubblica istruzione. E, questa, una parte che non percepisce i propri interessi come contrapposti a quelli dei miliardari, ma percepisce la propria identità come minacciata da élites culturali.

S.l.T. – restiamo nell’ambito del variegato proletario multinazionale che risiede negli Stati Uniti. Che cosa sta succedendo dentro quest’area?

A.P. –   E’ difficile saperlo, anche perché, secondo me, non possiamo commettere l’errore clamoroso commesso dai democratici di ripartire il paese in categorie demografiche omogenee e separate le une dalle altre. Voglio dire che non è solo l’elettorato che è molteplice. Se guardiamo alle singole persone, quando uno dice le donne, oppure i latinos sa di fare generalizzazioni. Il mondo è pieno di donne, che magari sono cattoliche (o anziane) e quindi sono disinteressate al diritto all’aborto, ma hanno il marito disoccupato e quindi contano che Trump rilanci l’industria. Oppure ci sono donne che magari sono esse stesse disoccupate e contano di trovare lavoro con il rilancio dell’economia. O donne bianche che disprezzano le latine. Ho fatto questo esempio, quello delle donne, per riferirmi a un gruppo che poi sistematicamente vota più democratico ed è più civile e degli altri. Altro esempio: i neri. Ci sono dei neri che votano sistematicamente come noi vorremmo che votassero, però non è che un minatore afroamericano non sia sensibile al presidente che gli dice: io rilancerò le miniere e farò in modo che tu abbia lavoro. Una categoria usata in America, e che noi scimmiottiamo, è quella che tende a incasellare gli elettori così: hanno votato per Trump soprattutto persone senza laurea. Che cosa vuol dire senza laurea in un paese in cui andare all’università costa una quantità sterminata di soldi? Vuol dire che hanno votato in percentuale persone meno ricche e che invece di leggerlo in termini di reddito diciamo che hanno votato così gli ignoranti, e questo è esattamente il tipo di stigma che viene gettato intorno a questa gente. Io credo che ripetendo questa cosa, che chi vota per Trump è un cretino, ignorante, non facciamo che a rinforzare le loro le loro motivazioni. Votano male, votano a volte contro i propri stessi interessi, ma non è semplicemente perché sono ignoranti o stupidi. 

S.l.T. –  A prima vista sembra che l’amministrazione Trump stia mettendo in discussione gli elementi che caratterizzano la lunga durata del potere bipolare degli Stati Uniti, da Clinton a Bush a Biden. E’ vero secondo te e su cosa in particolare vi sono delle modifiche reali?

A.P. – E’ finita da almeno trent’anni l’illusione di una politica bipartitica: il centro non tiene, la sinistra è stata spazzata via. I democratici, che rappresentavano un centro-centro- centrodestra moderato sono disorientati e i repubblicani si sono spostati su una destra paranoica e radicale. Quando si sosteneva che in un sistema bipartitico alla fine tutti tendevano a convergere verso il centro si diceva una cosa non più vera. Oggi c’è una rincorsa a destra. C’è stata anche da noi e forse continua, nel senso che con la scomparsa della sinistra non c’è più un centro verso cui convergere, quindi si compete sul terreno di chi e più estremo. Una cosa che Trump ha capito e che i democratici continuano a non capire è che più che cercare di rendere la tua proposta politica accettabile ai moderati, anche ai moderati dall’altra parte, ciò che ti porta a vincere in un sistema maggioritario a forte astensionismo, è una strategia tesa a motivare e radicalizzare i tuoi. Mentre i democratici hanno mobilitato persino la figlia di Cheney, sono andati alla ricerca dei pochi repubblicani non interamente fascistizzati, cercando appunto di spostare qualche voto di centro dal campo repubblicano al quello democratico, i repubblicani sono andati alla ricerca del voto più estremo, più radicale. In questo lavorio sono stati favoriti dal tipo di sistema elettorale, dalla capacità di influenzare il voto attraverso la manipolazione dei distretti elettorali, dallo scoraggiare la gente ad andare a votare.  Questa politica di radicalizzazione delle estreme  ha funzionato quindi, ma non ci dimentichiamo che, per dire, negli anni 30 non c’era nessun consenso unanime o bipartitico attorno alla politica di Roosevelt. L’ opposizione repubblicana a Roosevelt era violentissima e durissima, quindi l’idea che abbiamo sempre avuto, quella di una politica bipartitica di consenso si è realizzata, lasciando perdere la guerra civile, spesso ma non sempre. Questa è una di quelle fasi in cui l’idea che siamo tutti d’accordo sui fondamentali è saltata, non siamo più d’accordo su niente.

S.l.T. – Se la ricetta di Trump non funzionasse e gli Stati Uniti non diventassero di nuovo great again come Trump dice, che cosa pensi che possa succedere? In particolare ci troveremmo di fronte a una sorta di “rivoluzione fascista” del XXI secolo dispiegata?A.P. –  Spero di no. D’altra parte questa spinta verso l’estrema destra è cominciata fuori dagli Stati Uniti. E’ cominciata in Italia con Berlusconi naturalmente, ma è passata in Brasile con Bolsonaro, in Argentina con Milei, in Ungheria con Orban, è passata per la per la Polonia per un certo periodo, è passata in India, mentre abbiamo Farage che vince le elezioni locali in Inghilterra. Abbiamo i neonazisti che sono primi nei sondaggi in Germania. Trump paradossalmente non è il motore iniziale di questa ondata a destra. Trump rappresenta la sua radicalizzazione ed estensione in grado di conquistare gli USA. C’è una frase che era di Cesare Pavese, che nel 1945 o 46 diceva: facciamo attenzione, gli Stati Uniti rischiano di darsi essi stessi a una forma di fascismo sia pure in nome delle loro migliori tradizioni. Ecco, questo è il rischio che si corre dappertutto, nel senso che potremo avere di nuovo il fascismo non con il fez in testa, ma l’essenza del fascismo e cioè il diritto del forte ad opprimere il debole, sta avanzando in tutto il mondo e Trump ne è diventato il principale portatore. Trump può dire tranquillamente: io deporto la gente non perché è lecito, legittimo, ma perché lo posso fare, io metto, tolgo le tariffe non perché è sensato, ma perché lo posso fare. Quindi in questo senso una politica degli autoritarismi e di democrature è perfettamente possibile. In Francia il Rassemblement National, in Italia la principale forza di governo, testimoniano una tendenza molto reale, un rischio possibile. Infine, che le politiche di Trump funzionino o meno va visto da molti punti di vista.  Se funzionerà l’economia è una cosa, se funzionerà la politica estera aggressiva è un’altra. Funzioneranno se manterranno al potere un’élite autoritaria di cui Trump è l’espressione principale. Non ci dimentichiamo che Trump onestamente, sinceramente, apertamente mira addirittura a farsi eleggere una terza volta.


*Alessandro Portelli è uno dei massimi teorici della storia orale. Impegnato nel recupero delle culture popolari e della memoria storica, ha insegnato letteratura angloamericana all’Università «La Sapienza» di Roma ed è presidente del Circolo Gianni Bosio. Ha scritto numerosi libri sugli Stati Uniti, il fascismo, la memoria, la critica musicale.

** Alberto Deambrogio è un operatore sociale. Ex consigliere regionale, è attualmente segretario regionale piemontese di Rifondazione Comunista.

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