La crisi americana. Vecchie ambizioni imperiali e nuove debolezza.

Alessandro Volpi*

Declino

Nel 2024, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, la spesa federale per gli armamenti, pari al 2,9% del Pil, è stata inferiore a quella per il servizio del debito federale, costituita dal costo degli interessi e dalla restituzione dei titoli in scadenza, pari al 3,1%. In sintesi, gli Stati Uniti spendono di più per gestire il loro colossale debito che ormai ha superato i 37 mila miliardi di dollari rispetto a quanto spendono in armi; un dato nuovo, appunto, perché per anni la spesa per le armi è stata pari al doppio di quella del servizio del debito. Nel 2025 i dati sono ancora peggiori: dal 20 gennaio a metà aprile il debito Usa è passato dal 103% al 123%, con un deficit che è sostanzialmente raddoppiato al 6,3%. Questo significa che il Tesoro Usa deve trovare, nel corso del 2025, un collocamento per altri 2000 miliardi di dollari di debito e la copertura di 500 miliardi di interessi che si aggiungono ai 1000 miliardi che già paga ogni anno. Si tratta di cifre enormi, difficili da reperire in presenza di un indebolimento della fiducia nel dollaro, che va ben oltre il mero recupero di competitività con la svalutazione, e di un vero e proprio conflitto con i grandi fondi del risparmio gestito. 

Una simile condizione suggerisce due considerazioni. La prima, elementare. Gli Stati Uniti hanno ormai un limite molto forte alla spesa per gli armamenti perché indebitarsi per finanziare tale spesa è diventato troppo costoso. La seconda. Quel gigantesco debito, che sta correndo e costando molto, è solo per il 15% nelle mani della Federal Reserve, mentre dipende per quasi il 40% dai grandi fondi gestori del risparmio, a cui arriva attraverso acquisti diretti o attraverso banche, assicurazioni e famiglie. Un altro 10% è in possesso dei vari dipartimenti del governo, a diverso titolo, e una percentuale analoga risulta posseduta da soggetti diversi. Il debito posseduto fuori dagli Stati Uniti è ormai limitato al 25%, con un 3% nei paradisi fiscali. Del 25% estero, i principali possessori sono Giappone, Canada, Francia e Taiwan, con la Cina in costante ritirata. La politica internazionale di Trump deve fare i conti, necessariamente, con questi numeri rappresentati da un debito enorme capace di fermare la spesa militare e molto dipendente dai grandi fondi che sono quindi difficilmente sostituibili. In tale ottica, quindi, i dazi sono quasi obbligati per Trump anche per incrementare le entrate fiscali americane, ma scontano il rischio di far saltare un equilibrio fragilissimo, destinato a passare proprio dai fondi.

Se invece di considerare i fondamentali economici e di tener presente i limiti attuali del sistema produttivo e finanziario Usa, Trump, al di là delle continue giravolte in materia commerciale, decidesse davvero di avviare una insostenibile autarchia, puntando a sostituire le merci importate dal resto del mondo, a cominciare da quelle cinesi, canadesi e messicane, con produzioni americane per cercare un impossibile consenso interno dei “lavoratori” contro i consumatori e riuscisse nell’intento di suscitare una reazione europea in termini di riduzione dei flussi di capitale non più attratti dalle Borse Usa, allora la sua amministrazione sarebbe davvero in grado di generare una delle più profonde crisi del capitalismo. Particolarmente rilevante in tal senso è l’idea che i dazi costituiscano la vera premessa della “liberazione” degli Stati Uniti da una complessiva sudditanza mondiale e che dunque occorra ristabilire una surreale reciprocità, a partire da settori strategici per gli stessi Usa, come l’automotive, impossibili da “reinternalizzare” in toto.

L’attesa conferenza stampa di Trump per celebrare la giornata della liberazione americana, tenuta il 2 aprile, ha confermato questi timori. E’ stata in larga parte dedicata a fotografare la colossale perdita di ricchezza subita dagli Stati Uniti per effetto di due fattori costituiti dagli errori delle amministrazioni democratiche, che hanno scelto la deindustrializzazione del paese, e dall’aggressività dei partner commerciali americani, impegnati nel applicare pesantissimi dazi e misure non tariffarie nei confronti degli Stati Uniti, senza grandi differenze tra “amici” e “nemici”. Ai partner commerciali il presidente ha anche rinfacciato le tante svalutazioni competitive contro il dollaro e atteggiamenti di grande scorrettezza, usando un linguaggio tutt’altro che diplomatico. Una situazione così critica non poteva essere più tollerata e la strada scelta da Trump è stata quella di introdurre dazi reciproci dimezzati, calcolati sulla base di una regola davvero bizzarra. Il presidente degli Stati Uniti e il suo Dipartimento al Commercio hanno deciso che l’Unione Europea applica dazi nei confronti del loro paese del 39%. Trump e Lutnick sono arrivati a tale esito dividendo l’avanzo commerciale europeo verso gli Usa, pari a 235,6 miliardi di dollari, per il totale delle importazioni americane dall’Europa, pari a 605,8 miliardi. Dopo aver fatto questo fantastico calcolo, che genera appunto, un dazio del 39%, il presidente e il suo ministro, bontà loro, hanno applicato all’Europa un dazio del 20%. Si è trattato di una scelta “metodologica” decisamente  pesante che colpisce la Cina con dazi del 34%, il Giappone con il 24%, l’India con il 26%, la Corea del Sud con il 25 e l’Indonesia con il 32%. Dall’insieme di queste misure Trump si aspetta un forte incremento delle entrate fiscali, con un gettito dai dazi fino a 6 mila miliardi di dollari in pochi anni, necessari per fronteggiare il costo degli interessi e il deficit federale, e un’altrettanto marcata reindustrializzazione con il ritorno delle fabbriche e delle produzioni negli Stati Uniti. 

Il tono trionfalistico utilizzato dal presidente è sembrato però davvero eccessivo viste le incertezze che questo tipo di misure avrebbero portato con sé, come del resto hanno subito dimostrato le scomposte e pesanti reazioni dei listini di Borsa. Alla luce dei dazi sembra profilarsi una vera e propria guerra commerciale con un paese decisamente strategico per la tenuta Usa come la Cina, le cui importazioni negli Stati Uniti hanno raffreddato l’inflazione e il cui utilizzo del dollaro è la condizione proprio per finanziare il gigantesco debito federale. La replica cinese ai dazi di Trump infatti è stata immediata con l’introduzione di dazi del 34%, e poi dell’84, sulle merci Usa e con l’ulteriore restrizione delle esportazioni verso gli Stati Uniti di materie prime di estremo rilevo per la produzione americana. L’effetto di queste misure è stato repentino: il presidente della Fed, Jerome Powell, ha subito dichiarato che è molto probabile un aumento dell’inflazione a stelle e strisce e dunque i tassi resteranno alti con buona pace delle pressioni in senso contrario di Trump, solerte nell’accusare Powell di “fare politica”. Powell, del resto, ha ben chiaro che una riduzione dei tassi determinerebbe un minor rendimento dei titoli di Stato Usa e di conseguenza una limitazione del cosiddetto “Carry trade – l’indebitamento di investitori esteri nei loro paesi per trasferire poi i capitali nel debito Usa perché più remunerativo – fondamentale per la tenuta del dollaro. La Cina ha generato così uno scontro durissimo all’interno dell’economia americana fra il presidente e la Federal Reserve. 

Guerre doganali

Alla luce di ciò il segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Scott Bessent, ha sostenuto l’opportunità di attenuare le tensioni commerciali con la Cina. Mi sembra inevitabile che l’amministrazione Trump riveda le ipotesi di una “guerra dei dazi” con l’ex impero celeste. C’è un dato che più di ogni altro sconsiglia, infatti, Trump di perseguire tale strada. Il debito federale degli Stati Uniti è cresciuto dal 2020 al 2024 di 2300 miliardi di dollari ogni anno: una volume di titoli enorme che ha bisogno di compratori per non svalutarsi e per non pagare interessi stellari, il cui ammontare è già pari a circa 1000 miliardi di dollari e con il recentissimo rialzo dei rendimenti conoscerà un ulteriore aumento non distante dai 500 miliardi di dollari. Dunque, per non fallire gli Stati Uniti hanno bisogno della fiducia dei risparmiatori mondiali che viene veicolata dai grandi fondi e dalle grandi banche, di cui i fondi sono azionisti di riferimento. Tale fiducia non può reggere ad uno scontro frontale tra Stati Uniti e Cina perché la tenuta del dollaro, la moneta in cui è denominato il debito Usa, dipende dal suo utilizzo da parte della stessa Cina nei propri scambi mondiali. In questo senso, la perdita di valore del debito americano e la sua maggiore onerosità per il Tesoro degli Stati Uniti non dipendono certo dalla vendita di tale debito da parte della Cina, che ormai ha meno di 750 miliardi di dollari di debito Usa su un totale di quasi 37 mila miliardi, ma dalla forza che la Cina ha assunto negli scambi internazionali. La potenza economica cinese a livello globale è così rilevante che un suo eventuale conflitto commerciale con gli Stati Uniti spaventa a tal punto la grande finanza da indurla a vendere il debito americano per la paura di un suo crollo generato proprio da un simile scontro. Se poi si riducessero anche le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti per effetto dei dazi, la dollarizzazione sarebbe ulteriormente messa a repentaglio e il debito Usa accelererebbe il proprio declino. A ciò bisogna aggiungere che le più generali tensioni finanziarie indotte da una guerra dei dazi fra Cina e Usa stanno determinando il crollo di numerosi titoli considerati sicuri come quelli delle big tech e stanno obbligando i possessori di tali titoli a vendere titoli di Stato Usa per coprire le perdite. In estrema sintesi, la svalutazione del debito Usa non dipende dalla sua vendita da parte dei cinesi ma da una ben più generale dipendenza dell’intera economia degli Stati Uniti dalla Cina.

Ma il peso della Cina non si è fermato qui. L’introduzione dei dazi americani verso l’ex impero celeste ha convinto gli investitori  che molte delle merci cinesi saranno dirottate verso il mercato europeo generando una decisa concorrenza, difficilmente aggirabile, e, di conseguenza, hanno scelto, all’indomani della giornata della “liberazione”, di scommettere sul ribasso dei listini del Vecchio Continente a cui non sembra bastare, come vero elemento di stabilizzazione, neppure la liquidità promessa delle “politiche” del riarmo. Trump ha messo i dazi, l’Europa sta costruendo la bolla del riarmo, ma le carte sembra darle, davvero, solo la Cina contro cui faticano persino le Big Three e che ha dichiarato di volere rispondere agli attacchi di Trump, “fino alla fine”.

Usa vs Europa

In simili condizioni, sarà inevitabile, anche dopo le rimodulazioni daziarie e i tentativi di “mediazione” guidati dall’Italia in maniera alquanto discutibile, un peggioramento delle relazioni americane con l’Europa, rispetto alla quale non è stata fatta alcuna distinzione fra i singoli Stati e si è introdotta solo una, iniziale, parziale selezione nei prodotti da colpire. Un simile peggioramento colpirà duramente l’Italia che insieme alla Germania costituisce l’80% del surplus commerciale europeo, per quanto l’astruso calcolo dei dazi fatto dall’amministrazione americana ha considerato, appunto, l’intera Europa e non i singoli paesi, favorendo in qualche modo Italia e Germania. Del resto, mentre Trump continuava ad insultare gli europei e le Borse del Vecchio Continente sono state affondate dalle prospettive di una crisi di interi settori gravati dai dazi e dall’inflazione energetica prossima ventura, la Commissione ha proposto al presidente americano di eliminare i propri dazi in materia di produzioni industriali. In maniera paradossale, la presidente Von der Leyen vuole trasformare l’Europa in un arsenale per difendersi dalle più incredibili invasioni ma di fronte alla vera guerra dei dazi ha proposto di aprire le porte alle produzioni americane anche se costano di più e fanno concorrenza sleale a quelle europee, appesantite già dai prezzi dell’energia americani. In pratica Trump sembra riuscire a sfasciare solo chi si arrende e gli europei lo stanno facendo in maniera sistematica in nome di una incomprensibile prudenza, corretta solo in parte dalla minaccia di avere sempre pacchetti di misure ritorsive pronte sul tavolo. 

Dovrebbe essere chiaro che l’attacco di Trump al Vecchio Continente è assai articolato e si muove su almeno quattro fronti. Il primo sono, appunto, i dazi che già prima del 2 aprile avevano raggiunto livelli assai alti. L’irrefrenabile Trump in pochi mesi infatti ha introdotto dazi per 1400 miliardi di dollari, contro i totali 380 miliardi della sua precedente amministrazione, e ha minacciato la “fottuta” Europa di inasprire i successivi dazi al 20%, poi ridotti temporaneamente ad un non chiarissimo 10%, se la Commissione e i vari paesi continueranno a cercare di far pagare le tasse ai colossi big tech per i ricavi che fanno in Europa. Nel caso italiano, l’azione delle autorità giudiziarie che si sono mosse in tal senso hanno consentito allo Stato italiano di recuperare in meno di tre anni quasi 2,5 miliardi di euro proprio dai colossi big tech, a fronte di un versamento fiscale inferiore ai 250 milioni di euro. Il secondo fronte è costituito dall’acquisto da parte dei capitali americani, a cominciare dai grandi fondi, di partecipazioni azionarie sempre rilevanti in società europee. Il terzo è rintracciabile nel continuo trasferimento del risparmio gestito degli europei verso fondi e banche Usa. Il quarto si traduce nell’attrazione di catene di produzione europee negli Stati Uniti per effetto di tassazioni di favore.

Il 2024, inoltre, è stato l’anno record per le importazioni di gas liquido naturale dagli Stati Uniti verso l’Europa e verso l’Italia e la Germania in particolare. Ormai oltre il 50% del GLN importato nel Vecchio continente viene dagli Stati Uniti che hanno sostituito le forniture di gas naturale e stanno praticando prezzi particolarmente alti, frutto delle speculazioni finanziarie operate, in primis, dai grandi fondi americani. Alle spalle delle compagnie energetiche americane, possedute dalle Big Three, si colloca il GLN proveniente da Norvegia e dalla Russia. Nel secondo caso, è evidente il contrasto con le sanzioni che in pratica si traducono soltanto in un aumento dei prezzi dello stesso Gas, con palesi benefici per la Russia e altrettanto chiari danni per l’Europa. La vicenda norvegese è ancora più interessante: le società energetiche di quel paese sono di proprietà dello Stato che fissa i prezzi di vendita in base ai prezzi speculativi e introita incassi record. Quest’ anno ha toccato il livello massimo di 221 miliardi di dollari che ha indirizzato in larghissima parte in titoli americani, in particolare quelli big tech, dove gli azionisti principali, oltre allo stesso fondo sovrano, sono BlackRock, Vanguard e State Street. Solo per inciso vale la pena ricordare che l’intero monte degli attivi del Fondo norvegese è di 1750 miliardi di dollari. In sintesi, la dipendenza europea dal GLN fa la fortuna delle società energetiche americane, dei fondi Usa, del governo Russo e del Fondo norvegese che contribuisce, a sua volta, ad alimentare la bolla finanziaria americana.

Incertezze

Più in generale le dimensioni dell’azione commerciale trumpiana costituiscono un dato di grande destabilizzazione dell’economia internazionale, in grado di mettere sotto pressione in primis proprio gli Stati Uniti, dove è assai difficile che arrivino in tempi brevi i mega investimenti annunciati dallo stesso Trump mentre è probabile l’acuirsi della diffidenze e delle paure nei confronti di un paese che non è nelle condizioni di scatenare un conflitto tanto profondo. Il giorno della liberazione rischia, in tale ottica, di essere una data assai funesta per la presidenza Trump che sembra scommettere su una prosecuzione degli scambi con il resto del mondo nonostante gli aggravi daziari: una scommessa in realtà davvero improbabile a meno che non si dimostri un grande bluff per aprire nuovi negoziati. In una guerra commerciale l’esito finale può essere davvero quello del declino definitivo del dollaro come valuta internazionale e, in questo senso, le posizioni di Trump finiscono per suffragare le parole rivolte agli investitori da Larry Fink, che immaginano il dollaro sostituito ai Bitcoin.

I dazi di Trump infatti hanno accelerato ulteriormente l’esplosione della bolla finanziaria che ha tenuto insieme negli ultimi anni l’economia americana, e il capitalismo finanziario. Non a caso i titoli maggiormente travolti sono stati quelli delle Big tech, da Apple ad Amazon e Invidia. Non si tratta di una caduta spinta solo dal fatto che una parte delle produzioni di tali società passano per zone colpite dai dazi, ma della più generale, e profonda, sfiducia che gli Stati Uniti, dominati dai monopoli finanziari, siano in grado di tenere in vita il capitalismo. Il paradosso è che la fine del dollaro è stata vaticinata da Larry Fink, il signore dei grandi fondi, impegnati ora nel non rimanere schiacciati dallo scoppio della bolla, cercando rifugio nell’Europa del riarmo e negli immaterialissimi Bitcoin, e determinata dal presidente Trump che vorrebbe reindustrializzare l’America per ridurre proprio l’eccessiva dipendenza dall’estero, e dalla sola finanza. Big Three e Trump stanno costruendo, in modo diametralmente diverso, la fine della centralità americana, aprendo una fase storica per molti versi ignota perché privata, assai probabilmente, della forma economica che ha dominato per qualche secolo l’Occidente

Non a caso dunque il giorno della “liberazione” americana annunciato da Trump ha generato un gigantesco disastro sui mercati finanziari a cui hanno contribuito anche le dichiarazioni di Larry Fink, le dure reazioni cinesi e l’evidente insufficienza, in termini di rilancio economico, del Piano di riarmo europeo. La bolla sta sgonfiandosi rapidamente perché sembra non sia più possibile un’uscita pilotata dal dollaro, senza alcuna rete di ricaduta che non può essere ancora rappresentata dallo Yuan e tanto meno dal Bitcoin. L’euro, per come sta muovendosi l’Europa, è fuori gioco. In questo senso, l’evidente conflitto tra Trump e le Big Three impedisce persino a queste ultime di gestire la almeno parziale tenuta del capitalismo finanziario. Larry Fink che preconizza la fine del dollaro e Trump che lo affossa con i dazi hanno tolto il perno su cui poggiava il grande gioco finanziario costruito dall’Occidente con la globalizzazione. Non esistono più titoli sicuri, almeno in questa fase, e il riarmo, pensato per finalità finanziarie, alimenta un clima da guerra vera che non è conciliabile con le speculazioni “governate”. Nel frattempo i sistemi produttivi sembrano pensare che l’unica strada per fronteggiare i dazi sia produrre a costi ancora più bassi, con una caduta ulteriore dei salari e dei costi ambientali, e di conseguenza con una pesante contrazione dei redditi globali e con una gravissima polarizzazione. In estrema sintesi, i dazi Usa non battono la globalizzazione ma la rendono ancora più aggressiva per poter vendere ancora almeno una parte delle produzioni negli Stati Uniti, che miglioreranno, forse, i propri conti pubblici, ma non riusciranno nell’intento di tornare ad essere un’economia reale.

Equilibrismi
Gli Stati Uniti hanno retto l’urto del mondo emergente, che hanno costruito, commettendo infiniti errori, con la globalizzazione, attraverso una combinazione di dominio finanziario, presenza militare e, soprattutto, con una narrazione liberale e democratica in grado di egemonizzare non solo le destre, ma anche gran parte delle sinistre occidentali. Questo modello ha generato una gigantesca bolla finanziaria che sorregge il Pil a stelle e strisce, ha attratto capitali da tutto il mondo, ha fatto sì che il dollaro fosse considerato la valuta più stabile, ha reso “accettabili” da una parte influente dell’opinione pubblica internazionale le peggiori guerre e ha mantenuto un equilibrio indispensabile con la Cina. In altre parole, pur non essendo più la più grande potenza economica e pur vivendo profonde contraddizioni interne, gli Stati Uniti hanno garantito la vita del capitalismo. L’arrivo di  Trump, con il suo radicalismo, ha messo subito in tensione la finanza con l’appoggio a figure come Musk, pretendendo un esplicito vassallaggio dei super ricchi big tech, ha dichiarato apertamente che il capitalismo è totalmente di destra, ha rotto l’artificio retorico del capitalismo liberale e ha definito un sistema di relazioni internazionali costruito sui dazi e sulla ricerca di un primato fatto di costanti minacce certamente in grado di generare una profonda instabilità in un sistema, come accennato, già molto complesso. Un paese con debito di 37 mila miliardi di dollari, con una posizione finanziaria netta negativa di 24 mila miliardi, con un disavanzo di 3000 miliardi e con una borsa dove le società valgono almeno tre-quattro volte il loro valore reale non può permettersi di essere guidato da un presidente convinto di poter fare del tutto a meno sia del fariseismo tipico del capitalismo sia della liturgia democratica, nell’ambito di una visione dove l’Europa è il peggior nemico proprio perché troppo incline ad un illuminismo delle diversità e la Cina continua ad essere il più angosciante competitore. Peraltro, un paese che non è certo in grado di sostenere il costo di nuove guerre che minacciano radicalmente la tenuta stessa della dollarizzazione.


*Alessandro Volpi insegna Storia contemporanea e Storia della globalizzazione presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. I suoi ultimi lavoro sono: “Nelle mani dei Fondi. Il controllo invisibile della grande finanza”, Milano, Altreconomia, 2025; “I Padroni del mondo. Come i fondi finanziari stanno distruggendo il mercato e la democrazia”, Roma-Bari, Laterza, 2024

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