Roberto Finelli, Marco Gatto, Il dominio dell’esteriore. Filosofia e critica della catastrofe, Rogas edizioni, Roma, 2024
L’intelligenza artificiale si presenta come un prisma le cui facce rimandano a una serie di problemi e potenzialità. Con la solita dovizia di particolari ne ha scritto recentemente Vincenzo Comito, mettendo a fuoco le minacce che l’ulteriore sviluppo dell’IA potrebbero portare alla sopravvivenza del genere umano, gli enormi costi d’investimento a essa legati, le linee di sviluppo in parte alternative legate alla sfera USA e a quella cinese, i possibili problemi ecologici, i potenziali grandi problemi che le nuove tecnologie possono portare sul fronte del lavoro.
Su un terreno diverso, quello dell’approccio filosofico critico e ideologico, si pone invece il lavoro di Roberto Finelli e Marco Gatto Il dominio dell’esteriore. Filosofia e critica della catastrofe. Ciò che preoccupa i due autori è una vera e propria crisi verticale della mente, che caratterizza il nostro tempo e che ha evidenti legami con la crescita dell’infosfera di cui l’IA sta diventando parte sempre più importante. Ciò che va perduta è la capacità di riflessione, la capacità interiore di collegare ciò che si conosce con ciò che si sente. Le tecnologie informatiche e della rivoluzione digitale non seguono uno sviluppo possibile e fecondo quali strumenti a disposizione dell’umanità. Infatti siamo di fronte alla celebrazione dell’intelligenza artificiale come mente che sarebbe in grado di sostituire e superare quella umana, mentre si sviluppa una potente ideologia dell’infosfera, per cui tutto il mondo sarebbe unificato in un flusso continuo di scambi, calcoli e accumulazione di informazioni. Siccome l’IA non ha bisogno di un corpo per pensare e si presenta semplicemente come mente calcolante ed elaborante, si è venuta costruendo la precisa idea che pure il cervello umano funzioni come un computer ricevendo input, rilanciando output e assumendo la conoscenza come ampia associazione di dati da cui ricavare risultati validi secondo probabilità statistiche. Bastano queste considerazioni per vedere come ci si trovi effettivamente di fronte a un salto di qualità antropologico, perché la mente umana viene semplicemente pensata all’interno di un ecosistema di flussi informativi, di bits, di calcoli, statistiche e algoritmi che ne prefigurano la completa esteriorizzazione.
Finelli e Gatto sottopongono a una critica stringente questa deriva, ribadendo la natura strumentale al servizio dell’umano dei mezzi tecnici e respingendo l’idea per la quale l’intera realtà sarebbe costruita da codici, numeri e automatismi a cui bisognerebbe delegare persino giudizi etici e politici. Se la mente umana è andata svuotandosi, superficializzandosi in relazione all’esperienza non è stato per caso. D’altro canto risulta del tutto evidente lo stato di crisi indotto da tale perdita nella vita di tutti i giorni nel momento in cui le persone, giovani e meno giovani, sentono il bisogno irrefrenabile di compulsare i dispositivi digitali.
É lo sviluppo capitalistico che, attraverso la sua logica di astrazione, è arrivato non più solo a una scissione/separazione tra forza lavoro e mezzi di produzione, ma all’interno della medesima tra corpo e mente. É un varco enorme, ancora più profondo di quello costruito dai vari dispositivi ideologici e culturali ben descritti da Dardot e Laval nella loro capacità di prefigurare un capitale in grado di ottenere senza neanche chiedere. Di fronte alla colonizzazione delle vite che il capitalismo di natura digitale è in grado di portare avanti, gli autori non si abbandonano alla fine della mente non esteriore, quella verticale, che sa connettersi al proprio corpo, nell’interiorità critica. In qualche modo, e giustamente, segnalano la necessità di non rassegnarsi da una parte all’atrofia generalizzata della mente e dall’altra all’idea che la struttura ontologica del mondo sia sostanzialmente fatta d’informazione. In primo piano deve tornare il concetto di interpretazione, perché ogni informazione deve essere interpretata in base a delle finalità, a delle motivazioni di soggetti individuali e collettivi. Con l’IA abbiamo e avremo una quantità sempre più grande di informazioni, ma ciò che manca è il senso di quelle espressioni. Raccogliere sempre più informazioni con una mente che si fa vieppiù estesa e orizzontale, lascia sul terreno la bruciante necessità di una dimensione verticale di senso, di interpretazione. L’indicazione degli autori per provare a uscire in avanti da questa crisi è quella di lavorare su un terreno di nuovo umanesimo, facendo attenzione a non cadere in “un generico appello all’humanitas del genere umano”. Se quello che serve è la costruzione di un progetto “critico ed emancipativo riguardo alla condizione del presente”, bisogna che esso dedichi la giusta attenzione “all’imperativo di una riattivazione di massa della verticalizzazione della mente”. Una bella sfida, possibile, per una soggettività politica critica al lavoro per l’alternativa.
Roberto Cabrino