L’America retro-futura

Piero Pagliani*

In una lettera inviata al compositore e musicologo Francesco Florimo il 5 gennaio 1871, Giuseppe Verdi diede un famoso consiglio: “Tornate all’antico: sarà un progresso”. 

Posso scommettere che Donald Trump non conosce questa citazione e tuttavia il suo operare sembra guidato da un’inesatta interpretazione del suggerimento di Verdi: una sorta di nostalgia per l’America che fu, da trasportare in un futuro che non riesce a capire e a immaginare se non in forma mitica. Possiamo definire il trumpismo come l’anelito imperiale a un “retro-futuro” [1].

Il retro-futurismo è diverso dall’ideologia politica suprematista ed eccezionalista dei neo-liberal-con, ovvero il grumo di potere bipartisan che lega i neoconservatori e i liberal guidati dal Democratic National Committee. I neo-liberal-con anelano infatti a un perenne mantenimento del presente nel futuro. E infatti per decenni non hanno fatto che ripetere le stesse identiche mosse: gonfiare bolle finanziarie a dismisura e avere una postura aggressiva con tutto il mondo basata sulla forza militare, senza mostrare una particolare nostalgia per l’America che fu. Per il motivo preciso che l’America a cui Trump e i suoi elettori confusamente e disordinatamente guardano, non è quella che ha alimentato gli smisurati interessi, incentrati attorno al settore “FIRE” (Finance, Insurance, Real Estate= finanza, assicurazioni, immobiliarismo) di cui i neo-liberal-con sono i referenti politici.

Ripetere le stesse mosse sperando che il risultato cambi per Einstein era prova di stupidità. E i risultati della politica neo-liberal-con sono stati progressivamente sempre più negativi fino ad arrivare alla  catastrofe dello scontro militare con la Russia per interposta Ucraina.

Di questo ha preso atto il Trump collettivo, cioè quell’insieme di interessi e di gruppi di potere (ben rappresentati all’Inauguration Day) che hanno capito che occorreva voltare pagina. 

Trump vuole spostare il conflitto sul piano economico sognando l’America che fu 

Il retro-futuro non è un’esclusiva del trumpismo.

Il retro-futuro pervade chi, anche a sinistra, in un modo o nell’altro, per una ragione o per l’altra, non riesce a staccare il suo sguardo dai “trenta anni d’oro” (in realtà venti) del capitalismo keynesiano-fordista, quelli che seguirono la Seconda Guerra Mondiale, quelli della Ricostruzione e della lotta di classe dell’operaio-massa che strappava successi nei punti di estrazione materiale del profitto (e della rendita) e che spinse verso l’alto le sue organizzazioni sia storiche sia eterodosse. Un periodo la cui conclusione fu segnalata dal Nixon shock del 1971 e poi decretata da Reagan e dalla Thatcher (più precisamente a partire dal Volcker shock del 1979, penultimo anno dell’amministrazione Carter, che portò alla fine della stagflazione e alla più alta disoccupazione negli Usa dalla Grande Depressione) [2].

Il Nixon shock (inintenzionalmente) e il Volcker shock (coscientemente) diedero l’avvio alla prevalenza della combinazione finanziarizzazione-globalizzazione nei processi di accumulazione occidentali.

Quando Giuseppe Verdi affermava che tornare all’antico sarebbe stato un progresso non spingeva però a ripetere nel futuro le cose del passato ma era un “ragionevolissimo discorso sull’importanza della conoscenza, della tecnica, della storia, sulla consapevolezza del passato per poter progredire” [3]. 

L’antidoto al “tutti coloro che dimenticano il loro passato sono condannati a riviverlo” del grande Primo Levi (e di George Santayana). Chi invece, come nel caso che discutiamo, è incagliato nel proprio passato è destinato a vivere in una fantasia che nel suo scontro con la realtà può solo generare contraddizioni.

Il passato va criticato e superato dialetticamente (Aufhebung). Un superamento politico che implica che “dobbiamo essere più aderenti al presente, che noi stessi abbiamo contribuito a creare, avendo coscienza del passato e del suo continuarsi (e rivivere)” (Gramsci, Quaderno I) [4].

Già al suo primo ingresso alla Casa Bianca avevo scritto che quella di Donald Trump sarebbe stata una “presidenza modernariato” [5]. Il suo secondo mandato riprende quella falsa prospettiva retro-futurista in una situazione nuova, completamente rivoluzionata in ogni parametro e ogni dimensione dalla risposta russa alla provocazione Nato in Ucraina [6].

Donald Trump è sgradevole e affetto da un narcisismo fuori misura che si intreccia col narcisismo imperiale della nazione che rappresenta. Ma riesce a leggere i tempi, anche se non li sa interpretare e inciamperà nei suoi propri passi.

Il retro-futurismo trumpiano non intaccherà gli interessi dell’alta finanza, ma sogna di ritornare a una America potenza manifatturiera (desiderio anche dei diseredati della “Rust belt”, la cintura della ruggine lasciata dalla deindustrializzazione) nonostante la finanziarizzazione. Cosa impossibile.

Nel suo primo mandato Trump fu stretto in una camicia di forza neo-liberal-con. Dovette sopravvivere al “Russiagate” (che finì in un nulla di fatto ma servì a impedire che Trump si liberasse dalla camicia di forza) e sopravvisse mostrando che non c’era nessuno più russofobico di lui. Inondò l’Ucraina di armi offensive, si scatenò nelle sanzioni e sequestrò quasi tutti i consolati russi. Ora ama dire che quella in Ucraina è “la guerra di Biden” (e i Russi, esperti nella tradizionale danza kabuki diplomatica, fanno finta di credergli), ma i fatti non lo assolvono.

Oggi si è in parte liberato da quei vincoli (ha imbarcato neocon imbarazzanti come Marco Rubio ma ha messo in una posizione chiave Tulsi Gabbard, di tutt’altra lega, e i negoziati con l’Ucraina e l’Iran sono condotti dal volenteroso Steve Witkoff e non dal detestabile generale Keith Kellogg come aveva inizialmente concordato con Rubio). Pensa quindi di poter governare non solo il proprio Paese, ma il mondo intero [7]. In che modo? Non già mitigando il conflitto ma spostandolo dal piano militare a quello economico e dalla Russia alla Cina

Un’America divorziata dalla realtà

Il Trump collettivo ha un urgente bisogno di riallacciare rapporti normali con la Russia e Donald Trump su questo gioca una parte importante della sua credibilità personale. Avendo abbandonato il fallimentare “piano A” neo-libeal-con senza aver pronto un vero “piano B” (perché non possono averlo), gli Usa fanno però fatica ad uscire dai bias analitici che facevano supporre una rapida sconfitta della Russia. L’eccezionalismo si è incrostato agli organi decisionali e burocratici statunitensi e ciò si fa sentire in ogni decisione. 

Corrotti dal “sistema percettivo” della finanziarizzazione, gli Stati Uniti e al suo seguito l’Europa hanno perso il contatto con la realtà. Vivono in una bolla mentale ed economica che le isola dal resto del mondo con cui sono entrate in collisione [8]. La capacità di comprensione è stata deviata dal reale al virtuale, un virtuale deprivato di ogni dimensione comunitaria e sociale e quindi etica. Gli individui, nelle intenzioni delle neo-signorie che ci governano e dei loro clerici, devono essere disciolti in una società atomizzata illudendoli che si possano autodefinire in ogni dimensione dell’esistere umano e che ciò sia la più pura espressione della libertà, una nozione che invece è determinabile solo nella “densità sociale” di una comunità: “Solo nella comunità con altri ciascun individuo ha i mezzi per sviluppare in tutti i sensi le sue disposizioni; solo nella comunità diventa dunque possibile la libertà personale”. Così Marx ed Engels ne L’Ideologia Tedesca. E ancora: “La società non consiste di individui, bensì esprime la somma delle relazioni, dei rapporti in cui questi individui stanno l’uno rispetto all’altro” (Marx, Grundrisse). Per prendere in prestito un’espressione matematica, possiamo dire che ognuno di noi è definito da un “fascio di relazioni” sociali.

Prima di ogni altra cosa – e ciò ha distolto l’attenzione della sinistra dal resto – Donald Trump ha iniziato a “picconare” proprio questo aspetto dell’ideologia neo-liberal-con, con i suoi attacchi al “progressismo” delle varie teorie “woke” e il ritorno a “valori tradizionali” non precisati (e imprecisabili) ma indicati con gesticolare magico nel passato di un’America “grande”. In questo luogo mitico è localizzato il riferimento retro-futurista dell’ “again” dello slogan trumpiano.  

Avendo le teorie “woke” superato molti limiti di ragionevolezza ed essendo utilizzate in modo spregiudicato per varie finalità personali in ambiti privilegiati (a partire dall’accademia e lo show business), la loro demolizione (che provocherà danni a chi esse si vantano di proteggere e invece hanno  indebolito, se non altro per sovra-esposizione), è necessaria per cementare il consenso trumpiano.  Ma le teorie “woke” sono parte integrante del soft power dell’eccezionalismo statunitense. Privato di questa copertura, l’imperialismo statunitense, oggi Trump, ha bisogno di risultati concreti, reali, materiali, in politica interna e in quella estera. E nell’intreccio dei due piani quella estera prevale. Ciò è tipico del capitalismo per il quale ogni giurisdizione nazionale, per quanto ampia, è limitativa.

Stesso suprematismo e stessi errori in forma nuova

Gli Usa in versione Trump stanno ripetendo sul piano economico gli stessi errori che gli Usa in versione Biden hanno commesso sul piano militare. Come tutti sanno, all’inizio dell’Operazione Militare Speciale in Ucraina, tre anni fa, gli Usa e gli UK erano sicurissimi che in tre o quattro mesi Putin avrebbe dovuto chiedere pietà a Zelensky. I Russi dovevano cannibalizzare i microchip delle loro lavatrici e degli autovelox svedesi, prima dell’estate 2022 la Russia non avrebbe avuto più munizioni, missili e proiettili d’artiglieria e le sanzioni l’avrebbero messa in ginocchio. Inoltre la Russia era ormai isolata dal resto del mondo. Niente di tutto ciò. Anzi, la Federazione Russa è ora una potenza economica di prim’ordine, autosufficiente in molti settori, prima potenza militare del mondo e la sua influenza si allarga ogni giorno di più.

L’errore di prospettiva degli strateghi anglo-americani era dovuto alla doppia bolla, mentale ed economica, che non gli permetteva di fare conti corretti. Il grosso del PIL statunitense è dato da finanza e servizi, solo il 18% è dovuto alla manifattura; non è difficile capire che ciò fa deviare, proprio a livello di abito mentale, da calcoli relativi al mondo materiale a calcoli relativi a un mondo fittizio omogeneo all’ideologia del suprematismo eccezionalista [9].

Archiviata in prospettiva la questione ucraina (ma la strada ad oggi, prima settimana di maggio, è ancora lunga) o messa tra parentesi (mentre scrivo non so se la riottosa e guerrafondaia Europa riuscirà a ritrascinare gli Usa nella guerra), Trump ha dunque trasportato l’atteggiamento aggressivo dei neo-liberal-con sul piano economico con l’attacco tariffario, innanzitutto contro la Cina. In questo caso l’errore, analogo al precedente, è pensare che la Cina e gli altri Paesi non abbiano alternativa agli Usa. Probabilmente gli Europei, semplici vassalli, non ce l’hanno. Ma il resto del mondo che osserva senza pregiudizi la sconfitta degli Usa e della Nato intera in Ucraina sono sempre più propensi a cercare un’alternativa ai ricatti e agli abbracci mortali americani. E la Cina è un polo irresistibile di attrazione. Fornisce risorse, capitali, mercati e sicurezza a livello planetario

Non solo, ma la Cina dà il “cattivissimo” esempio che i poveri non devono rimanere necessariamente poveri. Non per nulla fin dal lontano 2000, nel famoso rapporto Rebuilding America’s Defensenses del Project for a New American Century, la Cina era vista come il nemico strategico (all’epoca la Russia sembrava fuori gioco) e l’anno ora in corso chiudeva la finestra utile per attaccarla militarmente. Non deve quindi sorprendere che qualche generale statunitense recentemente abbia previsto la guerra con la Cina per l’anno venturo (e la UE, corriva, sta battendo da tempo il chiodo propagandistico contro la “minaccia cinese”).

Così come la guerra cinetica contro la Russia non è sostenibile e a questo punto nemmeno una contro la Cina (il che non vuol dire che sia da escludere), non lo sono nemmeno i dazi.

Sono però serviti a gettare scompiglio e a disunire la UE. 

Come si è detto, Trump non scalfirà l’alta finanza e, anzi, spera che le tariffe possano sostituite l’imposta sul reddito dei più ricchi – mentre incideranno sui consumatori – e privatizzerà i servizi i cui costi graveranno sempre di più sulle aziende statunitensi [10]. E la stessa cosa succederà in Europa col risultato che le sue imprese si troveranno a fronteggiare tariffe più alte dei profitti, impoverendosi, e venendo costrette a chiudere o a delocalizzarsi.

D’altra parte se il Dollaro si svaluterà per favorire le esportazioni anche le multinazionali statunitensi saranno incentivate a investire nelle filiali dove la valuta sarà apprezzata rispetto alla moneta americana [11]. La domanda è allora: “Se si continuerà su questo piano inclinato, quando verrà raggiunto il punto di rottura politico in Europa? Quando negli Stati Uniti?”.

Il segreto disvelato: commercio e moneta si basano sulla forza

Le politiche tariffarie e il sistema del Dollaro sono stati legati esplicitamente da Trump alla nozione di “sicurezza nazionale”, togliendo al commercio e alla moneta l’aura di oggettività e impersonalità così cara all’ideologia neoliberista e rivelando il loro carattere discrezionale legato alla forza.

Ciò porta la gran parte dei Paesi non occidentali a incanalare altrove il loro commercio e a considerare insicura la moneta statunitense, ciò che ne mina la stabilità. Che l’insicurezza del Dollaro, e la de-dollarizzazione come riduzione del rischio o addirittura come meccanismo tecnico obbligato, sia conseguenza del legame Dollaro-sicurezza nazionale, non è un paradosso ma una contraddizione reale.

Possiamo apprezzarla alla luce dell’interconnessione dei cinque monopoli che secondo Samir Amin concorrono alla posizione di egemonia di una potenza [12]: 

1) Il monopolio della forza. Ma l’Operazione Militare Speciale in Ucraina l’ha visibilmente sottratto agli Stati Uniti.

2) Il monopolio finanziario. Quanto può durare con la de-dollarizzazione?

3) Il controllo delle fonti energetiche e delle risorse. Ma esso dipende dal monopolio della forza e da quello finanziario.

4) Il monopolio tecnologico. Ma la Cina ha surclassato gli Usa nel numero di brevetti e sta progredendo in ogni settore tecnologico [13].

5) Il monopolio politico-ideologico. L’appeal culturale statunitense è ancora notevole e tutto sommato –  ne è testimone l’Impero Romano – questa dimensione ha una viscosità speciale, una durata che può andare oltre alle sue basi materiali. Tuttavia il predominio culturale statunitense è legato con vari fili alla stagione della finanziarizzazione-globalizzazione neoliberista.

La guerra dei dazi sta facendo emergere ciò che studiosi come Giovanni Arrighi dicevano da decenni: non solo che lo scontro sarà lungo, ma anche che gli Usa non hanno mai creduto al libero scambio ma solo alla libera impresa. Tutti i bei vestiti dell’ideologia neoliberista si stanno strappando uno dopo l’altro e il re è nudo.


*Piero Pagliani, da sempre militante di sinistra, laureato in Filosofia si occupa di Logica Matematica. Autore di libri e articoli scientifici, collabora con istituti di ricerca internazionali nel campo del machine learning e del data mining.

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