Le parole del genocidio. Negli scritti di Francesca Albanese
Valentina Pazè*
Qualcuno non trova ancora le parole per dirlo. Altri le scoprono ora, al risveglio da un lungo sonno durato quasi due anni. Le parole sono: genocidio, apartheid, occupazione, colonialismo, pogrom. Ciò che sta subendo il popolo palestinese assediato e bombardato, disperso tra le macerie di Gaza, i check point e gli spazi segregati della Cisgiordania.
Di rischio terribilmente concreto di genocidio parlava Francesca Albanese fin dal novembre 2023, quando i morti erano “solo” alcune migliaia, esistevano ancora ospedali in funzione a Gaza, il blocco israeliano non aveva ancora dispiegato i suoi effetti mortali in termini di fame e carestia. Ma l’entità del baratro che si stava spalancando era già evidente ponendo attenzione al linguaggio disumanizzante, e apertamente “genocidario”, di esponenti di spicco del governo israeliano, come il ministro della difesa Gallant (quello dei gazawi “animali umani”) o il Presidente della Repubblica Herzog (quello del “non ci sono civili innocenti a Gaza”).
Sarebbe poi giunta la clamorosa sentenza della Corte Internazionale di Giustizia, massimo organo giurisdizionale del pianeta, nel gennaio 2024, a sostenere che sì, era “plausibile” che Israele stesse violando la Convenzione del ‘48 per la prevenzione e repressione del crimine di genocidio. E a ordinare a Netanyahu di fermarsi e a tutti gli Stati membri dell’ONU di interrompere la complicità con un regime che stava violando tutte le regole del diritto internazionale umanitario. Di lì in poi è stato un susseguirsi ininterrotto di dichiarazioni da parte di organizzazioni dei diritti umani, intellettuali, società scientifiche prestigiose come, da ultimo, l’International Association of Genocide Studies (agosto 2025) che, dissipando ogni dubbio, e abbandonando ogni prudenza, ha dichiarato di fronte al mondo l’enormità dello sterminio in corso, ricorrendo all’infamante parola con la “G”. Genocidio, per l’appunto.
Eppure, dopo due anni, siamo ancora qui. I gazawi sotto le bombe e stretti nella morsa della fame e di una carestia interamente provocata da scelte politiche. E i grandi del mondo che, dopo la pantomima dei riconoscimenti simbolici dello Stato palestinese, si inchinano al finto piano di pace di Trump: “un insulto a ogni principio del diritto internazionale” e un “diktat coloniale, che ci riporta al peggio mai elaborato dall’Occidente”. Ma per fortuna ci sono anche tante, tantissime persone, tra cui molti giovani e giovanissimi, che si sono svegliate, scendono in piazza, scioperano, scelgono di non tacere e di non distogliere lo sguardo. Se il mondo si è risvegliato dal suo sonno, il merito è certo della flotilla, riuscita a infrangere il muro del silenzio e dell’omertà dei grandi media. Ma lo è anche, non poco, di Francesca Albanese, che per avere denunciato coraggiosamente e fin dall’inizio i crimini israeliani, nelle vesti di Relatrice speciale dell’ONU sui territori palestinesi occupati, è oggi sottoposta a sanzioni personali da parte di Trump.
Osserva Albanese nel suo ultimo libro: “Molti […] continuano a parlare di quello che sta succedendo a Gaza come di un ‘conflitto’. O, peggio ancora, di un conflitto iniziato il 7 ottobre 2023. In questa lettura c’è tutta la superficialità di chi inizia un libro a metà, ignorandone tante pagine che custodiscono vivide tracce di sangue e di dolore: una storia che in realtà affonda le sue radici ben più lontano e continua ad essere ignorata”. Alla ricostruzione delle pagine mancanti di quel libro Francesca Albanese ha contribuito sia con i suoi documentatissimi Rapporti redatti nelle vesti di Relatrice speciale (l’ultimo dal titolo eloquente: Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio), sia con volumi come J’accuse (2023) e Quando il mondo dorme (2025), in cui il contesto entro cui è maturata la “soluzione finale” della questione palestinese, a cui stiamo ora assistendo, viene illustrato con il rigore di sempre, ma con un linguaggio meno tecnico, pienamente accessibile ai non addetti ai lavori.
LE PAROLE-CHIAVE
In J’accuse, Francesca Albanese si concentra su sette parole-chiave, a ciascuna delle quali dedica un capitolo: Terrorismo, Disumanizzazione, Occupazione, Colonialismo, Apartheid, Democrazia, Carceralità. Se il terrorismo consiste nel servirsi del terrore come arma politica, colpendo indiscriminatamente la popolazione civile, l’attentato del 7 ottobre è certamente qualificabile come un atto terroristico, condannato dal diritto internazionale. Ma – ricorda Albanese – ciò non significa che la resistenza palestinese, anche armata, sia di per sé un illecito. “Per il diritto internazionale umanitario, i paramilitari di Hamas sono combattenti nel contesto di un tentativo dichiarato di porre fine all’occupazione militare del loro territorio”. Ad attentati terroristici, inoltre, un paese civile non risponde abbandonandosi, a sua volta, alla logica dello sparare nel mucchio, che non distingue tra militari e civili. “Anche in Europa ci sono stati attacchi contro la popolazione civile, si pensi al Bataclan di Parigi: la Francia, però, non ha bombardato interi quartieri, ammazzando chiunque per catturare e punire i colpevoli di una strage”.
Disumanizzazione è la seconda parola-chiave per comprendere l’orrore cui stiamo assistendo, e quello che abbiamo per lungo tempo ignorato. Solo la degradazione dell’altro a essere subumano, la sua “razzializzazione”, può spiegare la mancanza di empatia della stragrande dell’opinione pubblica israeliana per le sofferenze dei palestinesi. Oggi, come ieri. Perché il blocco disumano e illegale di Gaza – ci ricorda Albanese – dura dal 2007. Da allora i gazawi vivono in una prigione a cielo aperto, invisibile agli occhi dell’israeliano medio, dove nulla entra né esce senza il volere dell’occupante. Ciò significa che i giovani nati dopo il 2007 (più della metà dei residenti) “non sono mai usciti da Gaza, non sanno cosa sia un fiume o una montagna, non sanno che cosa sia un israeliano se non i soldati che gli sparano dalle torrette e dalle navi che controllano i tre chilometri di mare che gli sono concessi e che decidono al di là del muro che cosa i palestinesi di Gaza possono mangiare, desiderare, o fare […]”. Nel frattempo l’esercito israeliano ha bombardato la Striscia quattro volte: nel 2008, nel 2014, nel 2021, nel 2022. Per un totale di 6407 vittime palestinesi e 308 israeliane. Senza contare la repressione feroce della “grande marcia del ritorno”, nel 2018, con i cecchini che miravano alle gambe di manifestanti pacifici per provocare disabilità permanenti. Già questi fatti aiutano a cogliere il senso dell’affermazione del segretario generale dell’ONU Guterrez, quando sosteneva che gli attacchi di Hamas “non sono venuti dal nulla”.
Ma le realtà dell’occupazione e del colonialismo da quasi sessant’anni riguardano anche la Cisgiordania, dove l’esercito israeliano controlla tutti i punti di accesso e di uscita delle zone riservate ai palestinesi, la dogana israeliana può bloccare e sequestrare qualsiasi merce e trattiene illegalmente i dazi doganali che, in base agli accordi di Oslo, spetterebbero all’Autorità nazionale palestinese. Occupazione significa, inoltre, per i palestinesi, case abbattute perché costruite senza un permesso impossibile da ottenere, aggressioni dei coloni fanatici che bruciano ulivi, assaltano villaggi, minacciano e uccidono persone indifese, in nome della pretesa di estendere le enclaves abitate da soli ebrei. E significa l’imposizione di un vero e proprio regime di apartheid, basato sull’esistenza di sistemi giuridici differenziati a seconda dell’appartenenza etnico-religiosa: legge marziale per i palestinesi, per i quali è normale trascorrere mesi o anni in carcere in regime di detenzione ammnistrativa (senza accusa né processo), legge civile e garanzie processuali per i coloni.
Sotto la voce Carceralità, Albanese fa alcuni esempi che danno l’idea di ciò che significa vivere da palestinesi sotto il dominio israeliano: “l’assembramento di dieci o più persone ‘in cui viene pronunciato un discorso su un argomento politico o che può essere interpretato come politico’ porta alla reclusione fino a dieci anni. Numerose forme di partecipazione civica e politica, tra cui ‘sventolare una bandiera, esporre un simbolo […] mostrare uno slogan o qualsiasi altra azione simile che esprima chiaramente simpatia’ per una delle innumerevoli organizzazioni che Israele considera ‘ostili’ sono punite con dieci anni di reclusione. Essere semplicemente associati a un gruppo di cui fanno parte membri che commettono reati specifici (come possedere un’arma senza permesso) è punibile con l’ergastolo. Qualsiasi ‘azione o omissione che comporti danno, pregiudizio o pericolo’ per la ‘sicurezza della regione’ o anche solo il suo ‘disturbo’ è punito con l’ergastolo”. L’unica democrazia del Medio Oriente? Se la misura di una democrazia è la sua capacità di garantire il dissenso, c’è molto su cui riflettere. Israele è, oltretutto, dal 2018, “lo Stato nazione del popolo ebraico”, in cui l’unica lingua ufficiale è l’ebraico. E gli stessi palestinesi con cittadinanza israeliana sono vittime di molteplici discriminazioni. In Quando il mondo dorme, l’ultimo libro di Francesca Albanese, queste stesse vicende prendono le forme di racconti di vita vissuta, come quelle di Hind, “morta a sei anni per la colpa di essere palestinese”; Abu Hassan, straordinaria guida della Gerusalemme nascosta ai turisti che si affidano ai tour ufficiali; Alon, professore italo-israeliano di studi sull’olocausto, che difende Francesca dalle accuse di anti-semitismo rivoltele da Piero Fassino [!]; Ghassan, chirurgo che opera a Gaza nei primi mesi del genocidio, documentando la sistematica volontà di ostacolare il funzionamento di ospedali e presidi umanitari; la pittrice gazawi Malak, rifugiata a Londra, che continua a battersi per i diritti del suo popolo attraverso l’arte; Max, che fa parte di un’associazione che si occupa di affiancare i palestinesi in Cisgiordania, per proteggerli dalle violenze dei coloni… Voci preziose, che restituiscono vivacità e umanità ai figli di un popolo che da cent’anni resiste a una forma feroce di colonialismo di insediamento. E restituiscono qualche speranza anche a chi ha scelto di schierarsi dalla loro parte.
*Valentina Pazè insegna Filosofia politica all’Università di Torino.