Sconcerta e terrorizza: i primi 100 giorni di Trump
Elisabetta Grande*
Trump ha inaugurato la sua presidenza con una campagna all’insegna dello sconcerto e del terrore (cosiddetta shock- and- awe strategy): più di 100 ordini esecutivi in tre mesi (cui hanno fatto seguito più di 200 azioni giudiziarie), volti a rovesciare definitivamente quel capitalismo dal volto umano che un altro presidente, F.D. Roosevelt, quasi cent’anni prima aveva provato a mettere in piedi. Due presidenti, due riformatori, che già a partire dai primi 100 giorni della loro presidenza mirano a mutare il volto della società statunitense, secondo però direttrici opposte. In entrambi i casi sono 100 giorni di fuoco, condotti tuttavia in senso diametralmente opposto.
- Un capitalismo dal volto umano? F.D. Roosevelt
Al tempo di F.D. Roosevelt il capitalismo feroce della Gilded Age – come Mark Twain aveva definito il periodo di fine ’800-inizio ’900, caratterizzato a un tempo da un boom economico e da diseguaglianze estreme e arricchimento a dismisura dei robber barrons a discapito di tutti gli altri – era stato a malapena temperato qualche anno prima, durante la cosiddetta Progressive Era. L’uso dello Sherman Act, che colpiva i monopoli e le normative intervenute per limitare la cattura politica da parte del danaro delle élites (Tillman Act), o per prevedere una tassazione progressiva sui redditi e un’imposizione fiscale sulle successioni e sui capital gains, avevano, infatti, cercato di mitigare i tragici effetti sociali dell’ordine economico che si era imposto con la rivoluzione industriale. I veri nodi al pettine dovevano, però, arrivare con la Grande depressione.
Occorreva uscire dalla grande crisi del ’29, e le ricette di Herbert Hoover e di F.D. Roosevelt, che nel 1932 si contendevano la presidenza, si presentavano sul punto di segno opposto. Il primo avrebbe voluto ridurre l’ingerenza del governo di Washington al minimo, mentre per il secondo solo un massiccio intervento del governo federale avrebbe potuto salvare il paese. Vinse F.D. Roosevelt, e il suo New Deal cambiò il capitalismo statunitense, apportandovi quei correttivi sociali che lo avrebbero reso meno intollerabile.
Roosevelt assunse il suo incarico in un periodo di privazioni e disperazione. La Grande depressione aveva raggiunto il suo punto più profondo durante l’inverno della sua inaugurazione, nel marzo 1933. Il reddito nazionale totale stimato era diminuito della metà, e l’economia finanziaria era praticamente ferma, con le banche chiuse e i mercati congelati. Circa un quarto della forza lavoro nazionale — quasi 15 milioni di persone — era senza lavoro. Innumerevoli imprese erano fallite. La poca assistenza disponibile, sia da fonti pubbliche che private, era dolorosamente insufficiente.
“Ora è l’inverno del nostro discontento, il più gelido”, scrisse Merle Thorpe, direttore di “Nation’s Business” — allora la rivista nazionale della U.S. Chamber of Commerce — in un editoriale che catturava l’umore del paese alla vigilia dell’inaugurazione di Roosevelt. “Paura, a poco a poco diventata panico, perdita di fede in tutto, nei nostri simili, nelle istituzioni, private e pubbliche. Soprattutto, nessuna fiducia in noi stessi o nel futuro. Quasi tutti pronti a far affondare la nave, e nemmeno ‘donne e bambini prima di tutti’.”
Era questo il clima di disperazione che portò Roosevelt a dire alla nazione nel suo discorso di insediamento che “l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa: terrore senza nome, irrazionale, ingiustificato, che paralizza gli sforzi necessari a trasformare una ritirata in un avanzamento.” L’obiettivo di Roosevelt era quello di riuscire a dominare la forza distruttiva del capitalismo sfrenato, limitando da un canto la libertà delle imprese di massimizzare i profitti a danno dell’intera popolazione e provando dall’altro a redistribuire le risorse attraverso l’intervento dello stato sociale.
I primi 100 giorni furono decisivi per la riuscita del progetto: Roosevelt stesso si riferì a essi, in uno dei suoi famosi “discorsi al caminetto” alla nazione, indicandoli come “votati a far partire le ruote del treno del New Deal”. Partì in tal modo un’intensa attività di riforma, implementata non attraverso lo scippo della prerogativa della penna al Congresso tramite executive orders – come fa oggi Trump – ma attraverso vere e proprie leggi del Parlamento, sia pur da Roosevelt pensate e volute, nel rispetto delle competenze di ciascun potere.
Con le pensioni di vecchiaia, i sussidi di disoccupazione, il salario minimo garantito per legge, l’aiuto alle mamme single e un nuovo e penetrante controllo sul business nascevano, così, le agenzie amministrative federali, deputate ad amministrare i programmi di servizio sociale e a dare applicazione – anche in maniera creativa – alle norme volte a regolamentare le imprese a tutela della collettività. Il cosiddetto Stato amministrativo, era talmente cresciuto che, se alla fine dell’800 si contavano meno di 100.000 dipendenti federali, già alla fine del 1939 le corrispondenti unità erano arrivate a 900.000. Lyndon Johnson, con il suo piano di Great Society e i suoi nuovi programmi di welfare, così come in parte anche Nixon, aumentarono il numero delle agenzie amministrative federali e dei dipendenti del così detto deep state. Questi ultimi, non selezionati politicamente (tranne che ai vertici) secondo lo spoil system, ma assunti stabilmente sulla base del merito per garantire continuità ai governi presidenziali, si attestarono poi sull’attuale cifra di più di due milioni.
- Ribaltare Roosevelt: la nuova Gilded Age del capitalismo corporate senza freni
Anche i primi 100 giorni di Trump paiono essere decisivi, questa volta però per smontare definitivamente quel capitalismo dal volto umano messo in piedi da F.D. Roosevelt, che già a partire dagli anni ’80 ha via via perso pezzi di umanità.
Così come agli inizi del ‘900, anche i tempi attuali registrano tassi di disuguaglianza insopportabili all’interno della popolazione statunitense. Se dalla fine degli anni ’80 ad oggi la metà degli americani più poveri ha visto, infatti, decrescere la propria fetta di “ricchezza” nazionale dal 4 % al 2-2.5%, l’1% più ricco l’ha vista invece aumentare sconsideratamente, fino a detenere più ricchezza del 90% più povero. Nell’ultimo anno soltanto le 19 famiglie americane più ricche hanno accresciuto di 1000 miliardi il loro patrimonio, mentre i senza tetto sono per la prima volta aumentati addirittura del 18%. Sotto i colpi di un crescente potere economico corporate, il capitalismo è tornato a mostrare tutta la sua ferocia e l’avvento di chi, come Trump, della sua poca e residua umanità è intenzionato a cancellare ogni rimanente traccia non è che l’inevitabile risultato.
Trump è, infatti, certamente l’uomo di una base MAGA che, impoverita, si è rivolta a lui nella speranza che solo un “pazzo”, come ebbe a dire Joe Rogan prima delle elezioni dello scorso novembre, potesse invertire una rotta di concentrazione insostenibile di ricchezza nelle mani dei nuovi robber barrons – della finanza, della tecnologia civile, bellica e dello spazio – ai danni di tutti gli altri. Non è un caso, infatti, che nelle ultime presidenziali proprio il 50% più povero della popolazione americana – che secondo il New Urban Institute soffre di grave insicurezza economica– abbia spostato in maniera determinante il proprio voto dal partito democratico a quello repubblicano. Purtroppo per la base MAGA, Trump è però, anche e soprattutto, l’uomo delle grandi corporation, la cui cattura del sistema politico statunitense si è accentuata da quando, con Barack Obama nel 2008, è terminato il periodo dei finanziamenti pubblici delle campagne presidenziali ed è cominciato quello dei finanziamenti privati che – con la decisione Citizen United del 2010 della Corte Suprema – non ha più conosciuto limiti. Non si può mettere un tetto al finanziamento delle campagne elettorali da parte delle corporation, ha detto allora quella Corte, giacché ciò significherebbe limitare il free speech delle stesse, la cui parola passa per il danaro! I 16 miliardi spesi nella campagna del 2024, il 50% dei quali provenienti da un 1% dei donatori, sono il risultato di quella pronuncia e chiariscono con precisione chi decide le politiche statunitensi.
Sempre più antropomorfizzate, le corporation che oggi dettano la politica statunitense hanno acquisito diritti che gli individui non hanno. Si pensi al diritto di parola negato oggi, invece, a chiunque – studenti in testa – si indigni per la carneficina in atto a Gaza. Oppure si pensi al diritto di proprietà delle multinazionali che, in forza della decisione Kelo v. City of New London del 2005, prevale sul diritto di proprietà degli individui, o ancora a quello di professare la propria fede religiosa che, con la decisione Hobby Lobby del 2008, primeggia sul diritto degli individui a proteggersi da gravidanze non volute.
Grazie a Trump d’ora in poi le corporation acquisiranno anche il diritto di essere libere da ogni controllo pubblico, così come già nel 1971 voleva il giudice Lewis Powell, che col suo famigerato memorandum, aveva perorato con forza quell’idea. E ciò avverrà naturalmente ancora una volta a scapito dei bisogni della gente (che verranno negati, o invece sfruttati, in base ai calcoli di puro profitto di chi sarà ormai libero dai lacci e lacciuoli delle regolamentazioni) con buona pace dei più deboli che hanno votato il tycoon pensando ingenuamente di poter essere salvati da una cricca di miliardari. E’ questo lo scopo dello smantellamento del deep state, ossia dell’intero apparato amministrativo, che Trump con determinazione ha perseguito da subito, con l’aiuto di Elon Musk, di un inedito Dipartimento dell’efficienza del governo (DOGE) e con il profluvio di executive orders che ne hanno caratterizzato i primi 100 giorni di presidenza. “Ribaltare Roosevelt”, scrive Newt Gingrich, un tempo speaker della camera per i Repubblicani, nel suo Defeating Big Government Socialism: Saving America’s Future (2022), illustrando in buona sostanza il Project 2025 dell’Heritage Foundation, i cui maggiori esponenti sono ora parte del governo o del suo staff (per tutti si pensi a Karoline Leavitt o a Russ Vought). Si tratta di cancellare non soltanto la stragrande maggioranza degli aiuti di Stato ai tanti in difficoltà economica, ma soprattutto di eliminare qualsiasi capacità di mordere delle agenzie che hanno finora cercato di dare attuazione –anche con un certo grado di autonomia – a regolamentazioni volte a impedire gli eccessivi monopoli delle corporation e più in generale a porre dei limiti alle attività corporate pericolose o dannose per la collettività. E’ questo l’obiettivo che si nasconde dietro la così detta Unitary Executive Theory, in base alla quale un esecutivo che non risponda TUTTO politicamente al presidente sarebbe incostituzionale. Non più imparziali, non più espressione del Congresso che le aveva volute –autorizzandone gli stanziamenti necessari per operare, oggi bloccati da Trump – ma partigiane e ridotte drasticamente nel loro numero, le agenzie federali potranno così lavorare al servizio del Presidente, che le userà contro i suoi avversari politici e darà al business corporate la libertà di fare profitti esagerati sacrificando i bisogni collettivi.
E’ questo il nuovo regime autoritario che si è preannunciato con i primi 100 giorni di presidenza Trump. Pensare, però, che si tratti di un’inversione di rotta rispetto al quasi mezzo secolo passato sarebbe un grave errore di prospettiva, perché è in fondo l’ovvio risultato di un sistema che per molti aspetti di democratico non portava più che il solo nome.
*Elisabetta Grande insegna diritto comparato all’Università del Piemonte Orientale e da quasi quarant’anni studia il sistema giuridico statunitense. Ha pubblicato più di 180 fra articoli e libri accademici sul tema e collabora regolarmente con MicroMega e Volere la luna.