Smascherare le complicità nel genocidio
Paolo Ferrero
In questo numero della rivista pubblichiamo il Rapporto della Relatrice Speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967. La relatrice speciale, come sappiamo è Francesca Albanese.
Questo rapporto, di cui si è molto parlato, si intitola “Dall’economica dell’occupazione all’economia del genocidio” ed illustra i modi e percorsi con cui molte aziende e colossi internazionali hanno aiutato Israele, in particolar modo dopo il 1967, nella guerra ai palestinesi e nella loro deportazione forzata dai territori in cui abitavano. Nel dossier si fanno i nomi di 48 corporation tra cui spicca l’italianissima Leonardo.
Sono produttori di armi, di macchine movimento terra, aziende tecnologiche, imprese edili e di costruzione, industrie estrattive e di servizi, banche, fondi pensione, assicurazioni, università e associazioni di beneficenza. Per sviluppare i loro affari danno il loro indispensabile sostegno al colonialismo israeliano e hanno permesso allo stato di Israele di violare i diritti umani e occupare terre palestinesi nel corso dei decenni, e oggi di compiere il genocidio del popolo palestinese a Gaza e di porre le condizioni per la pulizia etnica nella striscia come nel resto dei territori palestinesi.
Mentre scriviamo si è raggiunto un accordo sul cessate il fuoco a Gaza. Non è un accordo di pace ma certo un primo segno positivo. Si tratta di un risultato di cui siamo felici e che è stato possibile in primo luogo grazie alla resistenza del popolo palestinese che non ha ceduto a i ricatti e, pagando un prezzo umano indicibile, ha resistito nei suoi territori, determinando la modifica dell’orientamento dei paesi arabi e mussulmani. Parimenti le mobilitazioni dei popoli del mondo e segnatamente nei paesi occidentali hanno modificato l’orientamento delle opinioni pubbliche, in particolare quella degli strati giovanili e questo ha spinto i governi occidentali a modificare la loro posizione al fine di non pagare costi eccessivi sul piano del consenso. Quindi la resistenza palestinese e le mobilitazioni popolari hanno determinato una modifica degli orientamenti di molti governi a partire da quello statunitense e questo ha portato al cessate il fuoco. Questa tregua non risolve certo i problemi del popolo palestinese e la situazione resta assai instabile, esposta ai colpi di coda del governo israeliano. Per questo riteniamo necessario pubblicare il rapporto di Francesca Albanese: non solo perché rimanga agli atti e possa essere letto per comprendere i meccanismi economici che sono stati posti in essere da Israele dal 1967 a oggi, ma perché riteniamo che – purtroppo – la libera autodeterminazione del popolo palestinese è lungi dal realizzarsi e la mobilitazione popolare debba continuare ed allargarsi.
Un rapporto importante e famoso
Capire che cosa è successo sul piano della complicità economica con il genocidio è un punto decisivo per indirizzare la nostra azione politica e culturale futura. Invitiamo quindi tutte e tutti voi a leggere il rapporto e a farlo conoscere: si tratta di un documento breve, di agevole lettura, che squarcia un velo sulla banalità del male, su come la legge del profitto sia indifferente agli effetti che produce e quindi ai destini dell’umanità. Da questo rapporto emerge con plastica chiarezza come la logica del sistema capitalistico, fondata sulla ricerca del profitto, sia incompatibile con la civiltà in quanto trova proprio nella situazione limite del genocidio la sua piena espressione. Questo rapporto, come un romanzo distopico, è un atto d’accusa contro l’aspetto barbarico non solo di Israele ma del complesso delle società capitalistiche in cui viviamo.
Poche volte un atto istituzionale delle Nazioni Unite ha avuto tanta rilevanza e ha provocato tante reazioni come questo. Il motivo è semplice: il rapporto svela la barbarie insita nella normalità degli affari e lo fa in modo chiaro, documentato, comprensibile a chiunque. Che un atto ufficiale abbia queste caratteristiche è fatto rarissimo e solo la moralità, l’intelligenza e la determinazione di Francesca Albanese ha fatto sì che questo fosse possibile.
L’assalto degli USA alla legalità internazionale
Non a caso la nostra Francesca Albanese è stata oggetto di attacchi furibondi tra cui spicca quello del governo degli USA che l’ha inserita nella “lista nera” gestita dall’Ofac, la Sdn List, “Specially Designated Nationals and Blocked Persons List”. In questa lista – redatta dall’ufficio del Dipartimento del Tesoro Usa che controlla gli asset stranieri – vengono iscritti individui e entità soggetti a sanzioni economiche e restrizioni imposte dal governo Usa, come il blocco dei beni e il divieto di effettuare transazioni con loro.
In pratica il governo USA, dietro la scusa di combattere terroristi e colpevoli di riciclaggio, usa il suo potere finanziario contro Francesca Albanese così come lo sta usando da oltre 60 anni contro Cuba.
Come ha spiegato la stessa Francesca Albanese, in una conferenza stampa nei giorni scorsi a Roma: “Io non ricevo donazioni, ho uno stipendio per il mio lavoro, ma al momento non ho nemmeno la possibilità di aprire un conto bancario o avere una carta di credito. Di conseguenza non posso fare neppure cose banali come affittare un’auto”. Di più: a rischiare è anche la figlia di Albanese, cittadina americana, a cui è impedito avere relazioni economiche con la madre, fosse anche fare un acquisto per lei.
La nostra connazionale non è l’unica ad essere incappata nell’aggressione statunitense, che è più vasta e ha l’obiettivo di impedire il funzionamento della Corte penale internazionale che ha osato giudicare Israele. Le sanzioni originano dall’Ordine Esecutivo n.14203 emesso da Donald Trump il 6 febbraio 2025, in cui il quest’ultimo si lamenta dei procedimenti presi dalla Corte Penale Internazionale (CPI) nei confronti di Stati Uniti e Israele, affermando che “entrambi sono democrazie fiorenti con forze armate che rispettano rigorosamente le leggi di guerra”. Su questa base Trump stabilisce – con questo provvedimento che ha valore di legge – che: “qualsiasi tentativo da parte della CPI di indagare, arrestare, detenere o perseguire persone protette costituisca una minaccia insolita e straordinaria alla sicurezza nazionale e alla politica estera degli Stati Uniti, e con la presente dichiaro uno stato di emergenza nazionale per affrontare tale minaccia”. Su questa base, “gli Stati Uniti imporranno sanzioni concrete e significative a coloro che sono responsabili delle violazioni della CPI, che potranno includere il blocco di beni e proprietà, nonché la sospensione dell’ingresso negli Stati Uniti per funzionari, dipendenti e agenti della CPI, insieme ai loro familiari stretti”
Da questa normativa origina il sanzionamento al Procuratore Capo della CPI Karim Khan e – successivamente – quello di altri 8 magistrati della Corte Penale Internazionale: Solomy Balungi Bossa (Uganda), Luz del Carmen Ibáñez Carranza (Perù), Reine Adelaide Sophie Alapini-Gansou (Benin), Beti Hohler (Slovenia) Nicolas Guillou (Francia), Giudice Kimberly Prost (Canada), Nazhat Shameem Khan (Figi) e Mame Mandiaye Niang (Senegal).
L’imperialismo non tollera vincoli
Nel provvedimento a Francesca Albanese, si sostiene che le sono state applicate le sanzioni previste per la CPI perché, nella sua qualità di Relatrice speciale dell’ONU, ”si è impegnata direttamente con la Corte penale internazionale (CPI) negli sforzi per indagare, arrestare, detenere o perseguire cittadini degli Stati Uniti o di Israele”, ma soprattutto perché “di recente ha intensificato questo sforzo scrivendo lettere minatorie a decine di entità in tutto il mondo, tra cui importanti aziende americane nei settori della finanza, della tecnologia, della difesa, dell’energia e dell’ospitalità, avanzando accuse estreme e infondate e raccomandando alla CPI di proseguire le indagini e le azioni penali nei confronti di queste aziende e dei loro dirigenti”.
Questo punto della motivazione è particolarmente importante: la colpa di Albanese non è solo di lesa maestà nei confronti degli USA e di Israele, ma è quella di aver messo sotto osservazione e accusa il sistema economico che lucra sul genocidio. Questo è il tratto veramente inaccettabile del rapporto Albanese e spiega anche perché sia diventata immediatamente oggetto di attacchi da parte di tutto il sistema informativo mainstream, e anche del governo italiano che del presidente USA (chiunque sia) è servo fedele. Che addirittura il Presidente della Repubblica Mattarella non abbia sentito il dovere civico, morale e costituzionale di spendere una parola a difesa di una connazionale posta sotto sanzioni da parte degli USA, accusata di aver svolto con scienza e coscienza un lavoro di responsabilità per conto delle Nazioni Unite, la dice lunga su come il sistema economico e finanziario sia il vero padrone delle democrazie occidentali a partire da quella italiana.
L’importanza del rapporto Albanese consiste proprio nell’aver fatto uscire il tema del genocidio dalla sola sfera morale evidenziandone il pieno intreccio con gli interessi materiali ed economici. Che il giorno successivo all’annuncio della tregua il titolo della Leonardo sia crollato del 4.65%, evidenzia plasticamente l’intreccio intriso di sangue che caratterizza il sistema capitalistico in cui viviamo.
Il rapporto Albanese è quindi una documentata denuncia della complicità del settore economico-finanziario col genocidio di Gaza compiuto dallo Stato di Israele. Compito nostro è disvelare anche le altre complicità che hanno reso possibile questa pagina vergognosa della storia dell’umanità scritta dall’attitudine criminale dello stato israeliano.
Le complicità politiche.
Sono quelle più note. É noto a tutti gli USA bloccano in Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite qualunque risoluzione obblighi Israele a rispettare la legalità internazionale. Gli USA, spalleggiati da Ucraina e una manciata di nazioni occidentali, determinano nei fatti un doppio standard di legalità internazionale in cui a Israele è permesso di fare, senza pagare fio, quello che non viene permesso a nessun altro stato al mondo.
Le stesse nazioni europee che, in queste ultime settimane, si sono pronunciate per il riconoscimento dello stato di Palestina, in larga parte hanno una rete di relazioni con Israele tale da rendere quella presa di posizione poco più che un paravento per mettersi al riparo delle critiche dei movimenti di lotta. Pensiamo solo a come, nel settore sportivo, Israele continui ad essere invitata alle manifestazioni internazionali, e come sia regolarmente invitata agli eventi dell’Unione Europea; di come sia stretto il reticolo di relazioni con l’accademia, di quanti stati abbiano affidato la gestione dei propri dati sensibili ad enti israeliani e così via. Israele è quindi parte integrante del tessuto di relazioni occidentali, a prescindere dalle dichiarazioni di questo o di quel governo di presa di distanza dalla sua politica.
Le ragioni di questo sostegno politico sono varie e certamente il fatto che Israele sia una sorta di avamposto militare e logistico per l’esercito statunitense nell’area mediorientale è un punto assai rilevante. Inoltre Israele ha rappresentato un potente fattore di destabilizzazione dell’area e ha svolto molte operazioni che non potevano essere svolte direttamente dagli Stati Uniti. Molte delle ragioni del sostegno occidentale ad Israele sono quindi racchiuse nel ruolo militare e geopolitico che Israele svolge nell’area mediorientale per conto degli Usa e non solo.
A questo riguardo è opportuno sottolineare come lo stato di Israele, al di là della retorica sulla sua forza, stia in piedi unicamente perché è mantenuto e foraggiato dagli altri paesi occidentali. Senza le armi di Stati Uniti, Germania e Italia, l’esercito israeliano non sarebbe in grado di fare nulla. Questo significa che il genocidio a Gaza sarebbe stato possibile interromperlo in qualunque momento se solo le nazioni occidentali lo avessero voluto. Questa dipendenza israeliana dalle forniture militari occidentali è emersa in modo plastico nei 12 giorni di conflitto con l’Iran: appena Israele ha dovuto confrontarsi con uno stato, invece che con una popolazione inerme, le cose hanno preso una brutta piega, e la partita è stata chiusa unicamente in virtù dell’intervento diretto degli Stati Uniti.
Ma anche sul piano economico in senso stretto la situazione non è migliore: la bilancia commerciale di Israele è in deficit strutturale e solo massicce importazioni permettono alla nazione il suo standard di consumi. Importazioni che vengono finanziate attraverso massicci trasferimenti di capitali dall’estero.
Israele, con la sua politica di apartheid all’interno, genocida nei confronti della popolazione di Gaza, occupante nei confronti della Cisgiordania e terrorista nei confronti dei paesi confinanti, è quindi sostenuta e mantenuta a tutto tondo e volutamente dai paesi occidentali.
Le complicità morali ed ideologiche
Quanto sopra riportato non spiega però fino in fondo la politica delle elites occidentali di accondiscendente complicità, quando non di subalternità nei confronti di Israele. Il ruolo militare, economico e geopolitico di Israele non è in grado di spiegare completamente la centralità di questo paese nella definizione delle politiche occidentali e l’impunità di cui gode.
Così come, negli USA, vi è il grande peso della lobby israeliana, formata da ricchissimi uomini d’affari, in piccola parte ebrei e in larga parte cristiani sionisti o atei. Una lobby reazionaria che sostiene Israele condividendone le politiche. Ovviamente il peso elettorale di questa lobby è grande – è difficile diventare Presidente degli USA in opposizione alla lobby israeliana – ma anche questo non è sufficiente a spiegare le scelte politiche delle amministrazioni statunitensi.
C’è dell’altro, ed è la parte che vorrei provare a affrontare qui di seguito, andando oltre le determinazioni economico-militari e gli interessi elettorali per cercare di capire perché le élite politiche occidentali a trazione statunitense, nei decenni del liberismo, hanno progressivamente imposto Israele come punto di riferimento imprescindibile. Delimito questo ruolo israeliano agli ultimi decenni perché mi pare evidente che così non era nei primi decenni dopo la Seconda Guerra mondiale.
Io penso che il motivo di fondo sia il seguente: Israele ha progressivamente assunto il ruolo di mito fondatore della civiltà occidentale e ha iniziato ad avere un ruolo rilevante nella definizione dell’immaginario occidentale, nella sua narrazione. Si tratta di un processo di vera e propria costruzione simbolica che è durato decenni ed è stato prodotto attorno all’asse atlantico, che unisce le elites statunitensi e quelle Europee. L’importanza e la centralità di Israele per le classi dominanti occidentali vanno quindi al di là del suo peso militare o geopolitico, e si situano in una sorta di fondamento meta religioso, una sorta di “supplemento d’anima” dell’occidente. Sono certo che il genocidio compiuto da Israele abbia profondamene minato la sua autorevolezza tra larga parte dell’opinione pubblica mondiale ma l’eventuale siluramento di Netanyahu potrebbe aprire la strada ad un nuovo rilancio del suo ruolo. Visto che il tema non viene mai affrontato e sovente nemmeno riconosciuto vi dedicherò uno grande spazio nell’equilibrio di questo mio editoriale e me ne scuso con i lettori.
Israele nella narrazione occidentale
A me pare che l’importanza di Israele nella narrazione capitalistica occidentale emerga dalla concatenazione di tre fattori.
In primo luogo, il rappresentare il simbolo concreto, materiale, storico della nascita della civiltà giudaico-cristiana. In una fase in cui l’occidente capitalistico si ripresenta come civiltà “superiore” in inevitabile conflitto con i popoli e gli stati che abitano le lande desolate esterne al “giardino fiorito”, Israele assurge al ruolo di pietra miliare della nostra origine. Una sorta di tempio laico, di icona che ci dice da dove veniamo e certifica la nostra parentela con il “popolo eletto”. La sacralità dei “luoghi santi” restituiti al pieno dominio del popolo eletto parla del fatto che “Dio è con noi” in modo molto più efficace di quell’insopportabile Gesù Cristo che non glorifica i ricchi e i potenti e contesta l’ordine costituito. Israele è quindi presentato come il punto di origine della nostra storia e nel contempo simbolo della nostra civiltà. Un simbolo posto sulla linea della frontiera, esposto all’aggressione degli infedeli e quindi bisognoso di difendersi ed essere difeso in continuazione. Israele non è uno stato come un altro, ma è la testimonianza vivente del fondamento della nostra civiltà superiore.
In secondo luogo questo Israele, così importante per la nostra identità di occidente, è fondato su una base inattaccabile, su una roccia robusta: l’Olocausto del popolo ebraico. L’Olocausto viene usato dai sionisti come la giustificazione che legittima lo stato di Israele – che si arroga il diritto di autonominarsi rappresentante di tutti gli ebrei – di fare qualunque cosa agli altri. Visto che ogni contenzioso tra lo stato di Israele e “gli altri” può essere la premessa per un nuovo Olocausto, Israele – in quanto autonominato rappresentante del popolo di ebraico – è legittimato a fare qualunque cosa per difendersi. Israele non è quindi uno stato come gli altri, ma è presentato come lo stato che rappresenta coloro che hanno subito torti così grandi da essere esentati dal rispetto delle normali regole. In nome di oltre 6 milioni di ebrei morti nei campi di concentramento, gli israeliani si arrogano quindi il diritto di uccidere chiunque, di compiere un genocidio ai danni del popolo palestinese, di praticare l’apartheid, la pulizia etnica, il furto dei territori, la tortura e così via.
In terzo luogo, la condizione di indicibile ingiustizia dell’Olocausto viene utilizzata per trasformare gli israeliani in giusti per definizione e ha determinato la natura “speciale” di Israele. Questo fa sì che le ingiustizie subite dagli ebrei nel corso della storia permettano agli israeliani di commettere qualunque ingiustizia senza remore morali. La totale assenza di remore morali, la certezza di essere nel giusto anche quando si tortura, si affama, si uccidono deliberatamente i bambini, deriva dall’introiezione di questa grande narrazione in cui si è buoni per definizione, per appartenenza a uno stato che si è autodefinito ebraico e non per meriti o comportamenti.
L’importanza attribuita ad Israele è quindi data dal rappresentare il fondamento della nostra civiltà, dal rappresentarne l’essenza della superiorità in quanto fondata sull’aver subito l’Olocausto e – conseguentemente – dall’essere libera dall’etica, dalla morale, dalla necessità di giustificare i propri comportamenti che sono in sé legittimi in quanto agiti da chi ha tanto sofferto.
L’uso capitalistico-occidentale di Israele
Questi caratteri sono così importanti perché la rappresentazione mitica di Israele in realtà serve a definire i caratteri fondamentali del modo in cui l’occidente capitalistico vede e presenta se stesso. Sostenere l’intoccabilità di Israele serve a sostenere l’intoccabilità, la sacralità e la superiorità di noi occidentali in quanto sodali di Israele. Il ruolo intoccabile di Israele serve a rendere intoccabile l’occidente. Non solo: il fatto che l’occidente abbia eletto Israele a proprio rappresentante – la sentinella sulla frontiera che ci separa dai barbari – trasforma il ruolo di quest’ultima nella garanzia che l’occidente sia affettivamente quello che dice di essere. L’occidente, che è la civiltà superiore in un “necessario” scontro con le altre civiltà, si è redento a partire dalla difesa di Israele che rappresenta chi ha subito l’Olocausto. Conseguentemente neanche l’occidente ha vincoli morali perché, proprio a partire dalla sua rigenerazione, deve compiere la sua missione civilizzatrice nel mondo intero: in questo quadro, torturare a Guantanamo in nome della libertà e della democrazia diventa la cosa più logica del mondo.
Penso quindi che la criminale impunità di cui gode Israele si fondi su convenienze militari, geopolitiche ed elettorali ma anche sul fatto di essere stata eletta dalle élite capitalistiche occidentali a garante della superiorità della nostra civiltà nel mondo.
Questa interpretazione potrebbe essere criticata come idealista, ma penso si tratti di una critica infondata. Come spiegava il filosofo Marxista Louis Althusser, l’ideologia è una forza materiale, agisce, modifica coscienze e incide sui rapporti di forza reali. Le ideologie sono in ultima istanza prodotte dai rapporti sociali ma retroagiscono sugli stessi, non sono un inutile orpello ma un punto rilevante della dialettica sociale e le cattive ideologie fanno danni rilevanti come abbiamo visto nel ‘900 col nazismo. Il materialismo storico è un metodo dialettico e non meccanico, altrimenti diventa economicismo e non aiuta a capire le dinamiche reali del capitalismo. La costruzione degli immaginari attorno a cui organizzare la comune appartenenza sociale è un punto decisivo per garantire il funzionamento dei rapporti sociali capitalistici. L’accettazione dello sfruttamento come della guerra sarebbe impensabile senza la costruzione di formidabili apparati ideologici che rendono “normali” e persino “giusti” fatti e comportamenti altrimenti totalmente privi di senso. Marx ci dice che l’ideologia dominante è sempre quella della classe dominante e la riproduzione di questa ideologia costituisce buona parte del lavoro dell’apparato di dominio capitalistico. Specularmente, la decostruzione dell’apparato ideologico capitalistico è un punto decisivo della nostra azione politica.
Israele ha svolto e probabilmente svolge ancora un ruolo nel legittimare e cementare l’ideologia reazionaria che informa le classi dominanti occidentali e questo ne spiega l’importanza strategica.
Decostruire l’ideologia che ha reso possibile il genocidio
Dopo aver demistificato le complicità economiche, politiche e geopolitiche, dobbiamo quindi demistificare le complicità ideologiche e morali che hanno reso possibile il genocidio del popolo palestinese da parte dello stato di Israele.
Penso che il punto fondamentale sia il tema dell’Olocausto.
Il popolo ebraico ha subito il tentativo di sterminio integrale da parte dei nazifascisti, e abbiamo chiamato questo Olocausto. Non è l’unico tentativo di sterminio che i nazisti hanno posto in essere – pensiamo al Samudaripen dei rom, alla persecuzione degli omosessuali, degli slavi o dei comunisti – ma certo è quello più rilevante. Per questo motivo, abbiamo operato per trasformare l’Olocausto in un tabù, per porlo definitivamente fuori dalla storia. L’insegnamento che emerge dall’Olocausto è stato per decenni il “Mai più. Per nessuno!”, e contemporaneamente la messa al bando del nazisfascismo, cioè delle ideologie che avevano teorizzato lo sterminio del popolo ebraico. Si tratta di un passaggio fondamentale del secondo dopoguerra: nella storia moderna dell’umanità esiste un prima e un dopo le camere a gas e l’Olocausto segna un passaggio che non può essere eluso o relativizzato pena l’essere condannati a ripetere quella situazione disumana.
É del tutto evidente che il sionismo ha completamente rovesciato questo insegnamento: il “Mai più. Per nessuno!” è diventato un “Mai più per noi”. A sua volta, il “mai più per noi” ha sdoganato qualsiasi comportamento: per evitare ogni rischio Israele può fare agli altri ogni cosa, compreso il genocidio del popolo palestinese. L’insegnamento universalistico dell’Olocausto, che deve segnare un nuovo inizio nella storia dell’umanità, in cui non vi siano più genocidi e in cui vengano messe al bando le ideologie antiumane, è stato rovesciato dai sionisti in una giustificazione di ogni nefandezza da loro commessa in quanto eredi delle vittime dell’Olocausto.
Gli oltre sei milioni di ebrei morti nei campi di concentramento, dopo essere stati trucidati dai nazisti vengono oggi usati dai sionisti, senza che possano ribellarsi, per legittimare altri massacri, genocidi e catene di odio senza fine. É difficile pensare ad una cosa più barbara e blasfema di questo.
Il sionismo ha anche prodotto un secondo rovesciamento di senso, ed è quello di aver definito Israele come stato ebraico, come stato che rappresenta gli ebrei. Questa palese falsità – visto che moltissimi ebrei non abitano in Israele e soprattutto non si riconoscono in quello stato e nelle sue politiche – serve a produrre una identificazione del tutto arbitraria tra popolo ebraico e stato di Israele. Da un lato, ammantando lo stato di Israele di una santità che non lo caratterizza in alcun modo, e in secondo luogo producendo quella vera e propria campagna di mistificazione fatta a livello planetario che tende a far coincidere ebraismo e sionismo, e quindi antisionismo con antisemitismo.
Smascherare e denunciare alla radice queste operazioni ideologiche fatte dai sionisti e dai loro sodali, che identificano lo stato di Israele con il popolo ebraico e che giustificano in nome dell’Olocausto ogni porcheria compiuta dallo stato di Israele, è una priorità: occorre denunciare il carattere falso e blasfemo di questa narrazione. Che gli oltre sei milioni di morti ebrei nei campi di concentramento possano essere utilizzati, a ottant’anni di distanza, per giustificare massacri e genocidi, significa uccidere nuovamente quelle persone, la cui stessa morte viene privata di ogni insegnamento, di ogni significato per l’umanità. Dal “Mai più. Per nessuno!” alla legittimazione preventiva di ogni barbarie. Difficile pensare ad una manipolazione ideologica più disgustosa e blasfema.
“Se questo è un uomo” ci ha insegnato Primo Levi, e al suo insegnamento universalistico vogliamo restare fedeli nel rispetto di chi ha così pesantemente sofferto.
Concludendo
Confido che queste pagine, gli articoli che seguono e soprattutto il rapporto di Francesca Albanese possano dare un contributo alla demistificazione delle complicità di cui ha goduto Israele nel compiere il genocidio a Gaza. Capire le ragioni – economiche, militari, geopolitiche, elettorali ma anche ideologiche e morali – per cui un abominio come quello a cui abbiamo assistito sia stato reso possibile dalle complicità occidentali costituisce la premessa per lottare efficacemente contro una sua ripetizione. Mai più per nessuno è l’unico punto di partenza possibile per una umanità degna di questo nome. Per questo dedico questo numero della rivista a tutti quelle ragazze e quei ragazzi, quelle donne e quegli uomini che sono scesi in piazza per la prima volta nella loro vita nelle mobilitazioni contro il genocidio. Perché in quella loro scelta vi è il principio di speranza che può realizzare la nostra umanità.