Socialsciovinismo sovranista, Unione Europea, Stati Uniti
Stefano G. Azzarà*
Se il sovranismo e il socialsciovinismo sovranista hanno avuto successo in questi anni, è perché si installano su contraddizioni reali. Perché denunciano delle frizioni autentiche e perché si sforzano di individuare le ragioni della crisi, anche se indicano le ragioni sbagliate, e perché individuano un responsabile – un nemico – verosimile, anche se si tratta del nemico sbagliato. Esiste certamente un problema di impauperimento di larghi strati di popolazione in Italia, ma questo impauperimento non avviene prioritariamente per via di un trasferimento di ricchezza verso altri paesi e meno che mai per via di un suo consumo da parte dei migranti, bensì avviene a fronte di un pari o addirittura superiore intollerabile arricchimento di altri, e assai più ristretti, strati di popolazione: è in atto una gigantesca sottrazione di ricchezza agli italiani da parte di altri italiani e tale sottrazione è stata certamente favorita dai processi di finanziarizzazione del capitale ma non è stata generata da essi né indotta da centrali sovranazionali ma è la diretta conseguenza dei rapporti specifici di produzione presenti nel paese.
Allo stesso modo, esiste certamente un problema di sovranità nazionale per il nostro paese. È vero che l’Italia è uno Stato a sovranità limitata ed è altrettanto vero che il suo sviluppo sin dal primo dopoguerra è stato fortemente condizionato anche dall’esterno. L’Italia è infatti una semicolonia degli Stati Uniti e Washington decide le politiche del nostro paese e dirime le sue vicende interne sin dal 1945, tanto più che lo controlla sul piano militare avendolo occupato con le sue basi e con le sue installazioni nucleari.
A fronte di questo stato di subordinazione intollerabile, il populismo-sovranismo e non di meno il socialsciovinismo individuano invece il primo di tutti i nemici nell’Unione Europea, considerata come il centro propulsore stesso del neoliberalismo. L’Europa costituirebbe cioè di per sé un meccanismo micidiale di compressione del costo del lavoro e sarebbe in immediata e totale contraddizione con la Costituzione nazionale e dunque con la democrazia stessa, della quale mette in atto un costante smantellamento. L’Europa sarebbe inoltre uno strumento di dominazione dei popoli da parte della Germania, la quale realizzerebbe oggi in forme diverse il sogno del Quarto Reich. La violazione della sovranità nazionale da parte di Berlino e di Bruxelles è la premessa per la distruzione della cultura, delle tradizioni, della religione e dell’identità italiana, ottenuta attraverso la diffusione sistematica dell’immigrazione ma anche dell’omosessualità, del femminismo, delle teorie gender, della rivendicazione dei diritti civili. E tutto ciò sarebbe funzionale al definitivo trionfo del neocapitalismo o turbocapitalismo finanziario globale, il quale nel prendere possesso del paese – estrema conseguenza della teoria dell’esercito industriale di riserva che converge con il Piano Kalergi – ne sostituisce addirittura la popolazione.
L’UNIONE EUROPEA ESPRESSIONE DELLA RISCOSSA PROPRIETARIA
Siamo di fronte a una gigantesca incomprensione. In realtà, è chiaro che l’Unione Europa vede il dispiegarsi di una solidissima egemonia borghese e che le sue politiche e persino già le sue strutture e i principi inscritti nei trattati sono espressione di rapporti di forza squilibrati: su questo esiste un’ampia letteratura sorta anche questa volta in tempo reale, una letteratura che ha denunciato i rischi del processo di convergenza europea quando questo processo doveva ancora iniziare e che ne ha accompagnato il decorso in chiave critica senza indulgenze “euromani” ma senza per questo immaginare catastrofiche fuoriuscite dall’Unione e dall’euro. Quale sia la natura della UE è dunque ben noto ma meno noto è che sarebbe stupefacente il contrario, vista la sua genesi e l’epoca nella quale essa è sorta.
Le costituzioni nazionali europee sono nate al termine della Seconda guerra mondiale dopo la vittoria sul nazifascismo e più in generale al termine di una lunga rivoluzione democratica internazionale che è iniziata nel 1914 e ha visto esplodere al proprio interno la stessa rivoluzione d’Ottobre: di quel periodo quelle costituzioni riflettevano inevitabilmente le priorità e i valori, e persino gli Stati Uniti per una certa fase – pensiamo al discorso sulle Quattro Libertà di Roosevelt – avevano dovuto prendere atto della nuova centralità delle classi subalterne riconoscendo loro diritti economici e sociali che mai in precedenza avevano avuto sul suolo americano. Cade in quella fase, non a caso, anche l’accelerazione del processo di decolonizzazione che ha posto fine all’ordinamento eurocentrico o occidentocentrico della Terra. L’Unione Europea, tutto al contrario, nasce in una fase completamente diversa e cioè nasce dalla sconfitta del primo tentativo di costruzione di ordinamenti socialisti in Europa e all’esordio di un’imponente fase di restaurazione, intrecciata a una rivoluzione passiva, che era espressione della riscossa proprietaria; una fase che si esprime anche attraverso una potente spinta di ricolonizzazione del mondo. Poteva questa Unione, nata in tali condizioni, manifestare un segno di classe diverso da quello che effettivamente manifesta? Poteva il suo statuto essere solidale con il senso delle vecchie costituzioni nazionali europee? È del tutto normale che le regole e le procedure dello spazio comunitario siano state plasmate in ossequio all’ideologia neoliberale e a rapporti di forza oltremodo squilibrati che hanno lasciato campo libero agli interessi proprietari in nome della sovranità esclusiva del mercato. Ed è altrettanto normale che in queste condizioni le concentrazioni proprietarie più forti e quelle dei paesi più forti, i Paesi con una struttura produttiva che era già da sempre più solida, come la Germania, riescano a prevalere nel gioco della concorrenza in un contesto di libero scambio che è in realtà tutt’altro che libero, visto che sconta profonde differenze tra i paesi coinvolti.
Esiste però un altro luogo in Occidente dove i rapporti di forza siano diversi da quelli presenti in Europa e l’organizzazione della vita sociale sia di conseguenza più favorevole alle classi subalterne? Sono – soprattutto – diversi questi rapporti di forza e queste relazioni tra le classi all’interno dei singoli paesi dell’Unione, ragion per cui è legittimo considerare la configurazione di quest’ultima come più arretrata rispetto a un assetto nazionale precedente o a un assetto di ri-nazionalizzazione che potenzialmente potrebbe sostituirla? E l’Unione stessa è soltanto la sede di una spoliazione e di un processo di colonizzazione dei Paesi più deboli ad opera dei Paesi più forti, per il tramite del loro apparato industriale e con la complicità delle burocrazie comunitarie, oppure è essa stessa soggetta a un egemonismo che se da un lato si configura come una feroce competizione per la conquista dei mercati dall’altro si esprime sul terreno culturale nella forma di un’offensiva ideologica spesso irresistibile?
LA SUBALTERNITA’ ALL’EGEMONIA AMERICANA
Questa configurazione proprietaria della UE, al contrario di quanto ritengono molti sovranisti, non è l’espressione di un nuovo stadio originale di sviluppo totalitario del capitalismo che da Bruxelles si espanderebbe in ogni luogo ma è semmai la conseguenza del trionfo dell’egemonia statunitense e cioè la propaggine di un complesso ideologico che nasce a Washington e a Chicago ed è dunque essa stessa l’espressione di una subordinazione, di uno stato di aggressione e di una conseguente subalternità. Essa è la conseguenza dell’esito della Guerra Fredda, che ha lasciato il liberalismo senza avversari. Libero di agire senza contrasti grazie alla vittoria americana, il liberalismo ha perduto le connotazioni democratiche acquisite in due secoli di conflitto politico-sociale delle classi dominanti con le classi popolari e con i popoli colonizzati, orpelli ormai inutili, ed è, si può dire, tornato a se stesso. Esso ha potuto recuperare il proprio programma puro. Ciò a cui assistiamo non è dunque un complotto degli Illuminati per sovvertire le particolarità nazionali al fine di creare un impero globale nel quale meglio esercitare il proprio dominio ma il normalissimo ritorno del liberalismo alle proprie classiche posizioni predemocratiche in assenza di una significativa opposizione ed è al tempo stesso la conseguenza di una lunga fase di dispiegamento incontrastato dell’imperialismo statunitense. In questa dinamica, sin dalla sua genesi l’Unione Europea è stata investita dall’egemonia del modello sociale americano e l’ha assorbita in profondità negli anni fino ad abbandonare il proprio modello di sviluppo, il quale a sua volta non era una sua caratteristica naturale ma la conseguenza degli specifici rapporti di forza che erano risultati dalla storia e dalla geopolitica del continente: egemonizzata dagli Stati Uniti, la stessa Europa ha finito così per modellare le proprie regole sulla base del consensus di Washington.
È anzitutto l’Europa ad essere oggetto di pratiche di egemonismo, in maniera diversa ma alla stessa stregua delle altre aree del mondo; e nella misura in cui esiste un egemonismo intraeuropeo e un primato del capitale tedesco esso è la conseguenza da un lato della normale competizione capitalistica, dall’altro di una competizione la cui assenza di regole – soprattutto di regole improntate all’equità sociale e a standard di compensazione tra Paesi e aree dell’Unione – è il portato di un ambiente internazionale le cui caratteristiche sono state definite altrove e altrove sono state rese universali. Si tratta di un rapporto di subordinazione che presuppone una diversità di fondo, tuttavia, e che non è privo di attriti e contraddizioni, visto che più volte sulle questioni strategiche le divergenze tra Stati Uniti e Unione Europea non hanno mancato di rendersi palesi, come in occasione dei numerosi interventi militari americani, sulla questione climatica, sulla questione del commercio internazionale e così via; e si sono resi palesi a tal punto che è rimasto emblematico il tentativo americano di distinguere una “nuova Europa” fanaticamente atlantica da una “vecchia Europa” pericolosamente indisciplinata e mai abbastanza pronta ad allinearsi ai Diktat che di volta in volta le vengono presentati. Non è molto ma è già qualcosa. Sarebbe stato minore il dispiegamento dell’egemonia neoliberale se non ci fosse stata l’Unione Europea, oppure i singoli Stati nazionali le sarebbero stati ancora più esposti e condizionati? Ha senso, nel momento in cui si denuncia la natura neoliberale della UE, impegnarsi a rimuovere proprio quegli attriti e quelle contraddizioni che, per quanto in misura insufficiente e sempre più ridotta, continuano a distinguere l’architettura e le politiche del continente da quelle degli Stati Uniti? Non bisognerebbe piuttosto, per contrastare il neoliberalismo e per aprire una strada al suo superamento già su un terreno culturale e di visioni del mondo, impegnarsi per liberare l’Europa e il mondo intero dal condizionamento statunitense, sforzarsi di difendere la sovranità continentale europea da quell’imperialismo che tiene sotto scacco ogni sovranità in quanto tale e dunque quella dell’ex Terzo Mondo come quella di una parte dello stesso Primo Mondo?
IL SOCIALSCIOVINISMO SOVRANISTA: UNA FINTA ALTERNATIVA AL NEOLIBERISMO
Non c’è dubbio che l’Unione Europea debba essere radicalmente riformata in chiave sociale e che non vogliono prendere in considerazione, coloro che sono attentissimi ai vincoli e ai parametri di bilancio mentre nessun interesse hanno verso i vincoli ambientali o parametri legati all’istruzione o alla qualità della vita. Rinunciare a una loro radicale trasformazione e uscire dall’Unione Europea e dall’Euro, però, come vorrebbero i populisti-sovranisti, o ridurre l’Unione a una confederazione di paesi liberi di svalutare e di praticare tra loro una competizione ancora più feroce di quella attuale, non sarebbe soltanto una catastrofe economica. Ammesso che sia possibile, la rottura dell’Unione e l’arresto del processo di convergenza non indebolirebbe affatto l’espansione del neoliberalismo ma favorirebbe semmai ulteriormente il suo dispiegamento, il quale non avrebbe più nemmeno questo ostacolo o quantomeno questo concorrente da piegare al proprio modello. I singoli paesi europei, di conseguenza, non sarebbero affatto più liberi e più sovrani ma sarebbero ancor più sottomessi e dunque ancora più esposti a un modello sociale rispetto al quale l’Europa rappresenta comunque un freno, per quanto non sufficiente e sempre più fragile. Quel populismo-sovranismo ovvero quel socialsciovinismo che si impegna per la destrutturazione della UE, dunque, lungi dal rappresentare un baluardo della sovranità nazionale è in realtà un fiancheggiamento degli interessi globali statunitensi il cui successo costituirebbe l’ultima e definitiva forma di subordinazione e umiliazione nazionale del Paese prima del passaggio a un protettorato definito per vie formali.È chiaro che la strategia americana per il XXI secolo è cambiata parecchio nella successione dalla presidenza Obama a quella Trump e poi da Biden nuovamente a Trump. Nell’ambito della comune ideologia del Manifest Destiny, tale strategia è passata da una globalizzazione americana neoliberale improntata alle regole del “libero” scambio, e cioè un tipo di globalizzazione falsata dai rapporti di forza reali ma in qualche modo regolata e gestita da grandi istituzioni sovranazionali – la globalizzazione che ha finito per risvegliare la concorrenza della Cina e per urtare lo specifico “sovranismo” statunitense, riottoso di fronte a ogni autorità sovraordinata –, a una globalizzazione non meno americana e non meno neoliberista ma di stampo particolarista, basata sul protezionismo, sui dazi doganali usati come arma di pressione politica e sulla strategia degli accordi bilaterali. Il populismo-sovranismo è esattamente l’espressione di questo passaggio di fase, nel quale proprio i rapporti di forza reali che la retorica del libero scambio avrebbe dovuto coprire vengono fatti valere senza pudore come il diritto del più forte su ogni universalismo di facciata. In politica internazionale esso rappresenta perciò l’allineamento di un pezzo dei ceti dirigenti di ogni Paese alla nuova strategia americana. In politica interna è invece la base di massa delle contro-élites, le quali in nome del popolo vogliono scalzare le élites stabilite – o condizionarle o farsi cooptare da esse – al fine di mutare di segno le politiche nazionali secondo i nuovi rapporti di forza politico-sociali. Rapporti di forza che, avendo tali contro-élites già convinto le classi subalterne, le quali si sono collocate docilmente al loro seguito, non si annunciano certo come progressivi ma come ancora peggiori di quelli attuali e rispetto ai quali persino le vigenti e pessime regole comunitarie forniscono probabilmente maggiori garanzie.
*Insegna Storia della filosofia all’Università di Urbino. Il suo lavoro si concentra sulla comparazione delle grandi tradizioni filosofiche e politiche del XIX e XX secolo: conservatorismo, liberalismo, materialismo storico.