A chi serve la cultura?

Flavio Domiziano Utzeri*

Nel 2022 in Italia si fa ancora fatica a capire quali siano i ruoli della cultura e delle sue lavoratrici nel grande gioco sociale che vivifica le nostre comunità. Fossimo davvero tutte personaggi di un gioco di ruolo staremmo giocando non solo senza obiettivi, ma pure con pochissime regole, contorte e senza che il grosso degli altri giocatori capisca perché siamo sedute lì con loro. Certo, qualche idea confusa, per esempio sulle bibliotecarie e sulle archeologhe magari circola, ma niente più di questo. Gli occhi sono puntati altrove la maggior parte del tempo, e quando ci si accorge di noi, del nostro lavoro e della cultura in senso lato difficilmente si riesce a mettere a fuoco la realtà del settore e troppo spesso lo si fa seguendo un lessico de facto reazionario.

Se poi a interessarsi del settore è la politica, è quasi sempre o per cercare una passerella elettorale fine a se stessa, che si esaurisce dunque nella passerella stessa, o per mantenere lo status quo imposto. Le politiche culturali del nostro paese sono fallimentari. Qualsiasi partito, movimento o parlamentare è di solito d’accordo con questa affermazione, sia perché si cerca istintivamente di proteggere quella parte della sconfinata cultura di un paese che è più simile a ciò che consideriamo “nostro” – e non si sarà mai dunque davvero soddisfatti –  sia perché oggettivamente troppi dei nostri spazi culturali cadono letteralmente a pezzi e il problema è difficilmente ignorabile. 

Diventa ignorabile solo se si fa parte di un certo partito, si è cresciuti a Ferrara e ci si chiama Dario Franceschini.

Al di là dei problemi oggettivi e al di là del racconto del settore fatto sui media, io credo manchi davvero un’idea condivisa di cultura e ciò ostacola ulteriormente l’uscita del dibattito dai pantani in cui è finito. Si discute ancora solo e soltanto di sostenibilità economica (“il petrolio d’Italia”) o di un non mai ben preciso “sviluppo culturale”, seguendo una linea di pensiero che vorrebbe la Cultura in grado, come per magia, di far migliorare le persone semplicemente grazie alla sua esistenza, come se il semplice ingresso in un museo potesse rendere le persone più acculturate, sagge e tutto sommato migliori. Anche da parte di chi rivendica con forza sostegno e fondi “alla Cultura” non sempre è molto chiaro il motivo profondo per cui lo fa, o crede nella menzogna della “Cultura come bacchetta magica”, che appunto eleva in automatico lo spirito di chi si associa ad essa.

Definire la cultura. Una questione squisitamente di classe

Si tratta dunque di una questione di primaria importanza, che determina le impostazioni delle politiche culturali- come poter infatti decidere coerentemente se non conosciamo nemmeno i confini dell’oggetto sui cui si dovrebbe legiferare? Che cos’è la cultura? Ma soprattutto: che cosa non è cultura?


A questi quesiti la ricerca ha dato delle risposte abbastanza soddisfacenti ma probabilmente non definitive. In breve, non esiste nulla che non sia di per sé un fatto culturale, o che esista scollegato dalle comunità che lo producono. Niente può essere realmente escluso dal computo, nemmeno i più reconditi processi mentali che usiamo nella nostra quotidianità per relazionarci con l’ambiente che ci circonda (a riguardo di questo argomento, fra i tanti, il prof. Remotti ha scritto dei meravigliosi saggi dal taglio divulgativo facilmente accessibili). Così come per le identità sociali, si tratta di un qualcosa che sfugge una definizione non totalizzante; lo sa bene chi cerca di mettere paletti e confini per ottenere una definizione che funzioni sempre. Maggiore lo sforzo, maggiore la confusione, e si rimane sempre con nulla in mano.


La società stessa è un prodotto culturale; in archeologia, infatti, spesso col termine “cultura” si definiscono oggetti che, nel discorso quotidiano, non esiteremmo a definire “società”, o “popoli”. Senza addentrarci troppo in questi spinosi e complessi temi, non esauribili in questa sede, sottolineo quali siano alcune delle conseguenze di questa impostazione sulla nostra esperienza. In primis, le categorie più usate nel mainstream (e non solo!) per raccontare l’importanza della cultura sono in realtà utili a farne sopravvivere un certo impianto ideologico. Non è il “bello”, il “meraviglioso” o “l’affascinante” suscitato da certe opere (e quindi anche, all’opposto, solo le opere dell’umanità che rientrano in queste categorie) a essere degne d’attenzione, ma è bensì la totalità di questi prodotti a meritarla, dal più bello al più brutto, e soprattutto non perché belli o brutti. Le proprietà, gli stimoli legati a queste categorie difficilmente riescono a costruire altro rispetto all’esperienza momentanea che contribuiscono a creare. L’ispirazione data da un’opera d’arte, per esempio, non è figlia dell’opera d’arte ma di chi ha quell’ispirazione. Cos’ha dunque da offrire la cultura? Perché è così facile essere curiosi di fronte a un fatto culturale e perché reagiamo spesso così veementemente? Le motivazioni sono certamente tante e spesso sono personali ma, un aspetto in particolare appare fondante e fertile e sottolinea quanto per una comunità sia importante l’investimento nei suoi spazi culturali e quindi nelle persone che questi spazi fanno vivere. 

La cultura è anzitutto problematica, e tale dovrebbe essere la nostra indagine al riguardo, a qualsiasi livello e qualsiasi età; problematica perché, soprattutto, frutto di scelte che difficilmente possiamo condividere e che raccontano di come siamo giunti a questo punto della nostra storia. Le scelte dei nostri antenati hanno prodotto “unità culturali” (meme) materiali e immateriali che ancora oggi pesano sulle nostre vite e che, al contempo, hanno creato e creano tutt’oggi relazioni e spazi dentro i quali volenti o nolenti siamo costretti a muoverci. Si tratta però anche di spazi che, specie se creati molto lontano nel tempo, consentono di specchiarsi e riflettere su se stessi, sulla propria comunità o ancora di coltivare idee buone a prendere decisioni più valide e informate per il nostro presente. A questo riguardo credo che gli archivi soprattutto possano essere un simbolo meraviglioso di tutto ciò. Cos’è un archivio, se non la raccolta di testimonianze documentarie delle scelte passate e delle nostre scoperte/rappresentazioni del mondo, messe a disposizione di chiunque intenda e sappia sfruttarle per poter migliorare la qualità delle proprie scelte? E non si tratta solo ed esclusivamente di preziosissimi documenti unici su- per dirne una- il Regno dei Longobardi a Torino, ma anche di cose banali ma fondamentali, come il catasto, o gli elenchi elettorali di un Comune. Ogni documento conservato in un archivio nasce da una infinita serie di relazioni passate, più o meno attuali, figlie dunque del proprio tempo, delle scelte fatte all’epoca, dei rapporti di forza e di potere, eccetera eccetera. Comprendere queste cose significa apprezzare l’importanza per qualsiasi Stato, ma in particolare per una repubblica democratica, di questi oggetti e dar loro il peso che meritano all’interno della nostra società. 

Glorificare la “Cultura” perché “è cultura” significa non averne compreso la portata e la natura, e può celare posizioni pericolosamente reazionare, costruitesi in decenni (anzi, secoli) di controllo da parte di élites e oligarchie appropriatesi di una sorta di esclusività. Il binomio cultura-liceo classico, per esempio, dovrebbe ancora suonare come qualcosa di pericoloso. Perché mai lo studio e la riflessione culturale dovrebbe essere celata dietro un certo percorso di studi, dietro migliaia di polverosi libri, università poco accessibili e spazi culturali (dai musei ai parchi archeologici) poco comprensibili e comunque sempre incompleti?

Gli spazi culturali e la loro narrazione

Precisiamo subito che non credo a complotti precisi o alleanze particolari, credo però nella facilità di certe scelte, le quali poi rafforzano un sistema costruitosi nel tempo per conservare i propri equilibri. Il discorso delle “meraviglie”, ad esempio, su una città come Napoli, o come Torino, scollegato dal tessuto sociale attuale e passato, che non mostra il percorso dietro le scelte che hanno costruito quei luoghi, non è intrinsecamente problematico ma, essendo l’unico presentato alla massa diventa parte integrante del problema. Non ponendosi come obiettivo il racconto e la problematizzazione delle scelte passate, ma insistendo solo sullo stupore e sulla bellezza (categoria, peraltro, di per sé mutevole) si finisce per rafforzare le strutture e le sovrastrutture già presenti: il primo passo, infatti, per poterle mettere in discussione è raccontarle, non nasconderle dietro una patina di splendore barocco o di fascino romano. Come anche nell’informazione, non sono tanto le bugie (presenti anch’esse) ma le mezze verità a costituire un pericolo o, forse meglio, un’ennesima occasione mancata. 

In tutto questo è probabile che giochi un ruolo non indifferente la prestazionalità in cui affoghiamo quotidianamente. I racconti e le opere presentate sono sempre “le più belle”, le “meraviglie”, “i segreti nascosti”, devono essere qualcosa di straordinario o eccezionale. Una società come la nostra, così permeata dal fallimento del sogno americano e ossessionata dai numeri delle finanze dello Stato potrebbe sembrare difficilmente interessata a discorsi forse più ordinari, ma rivoluzionari per il loro portato. 

Gli spazi culturali non sono luoghi miracolosi che innalzano lo spirito dei popoli, ma anzi sono parte integrante di qualsiasi sistema di potere e contribuiscono direttamente e indirettamente alla costruzione del discorso pubblico. La narrazione, ad esempio, fatta a Pompei, carente sotto molti punti di vista e spinta verso la sensazionalità ostacola la formazione di un pensiero critico riguardo alle comunità spazzate via dall’eruzione del Vesuvio, oppure sulle ricerche archeologiche (che hanno segnato un’era e cambiato sostanzialmente la faccia dell’Europa) oppure ancora sull’uso che oggi facciamo di quegli spazi e di quei reperti, in particolare i cadaveri ritrovati negli scavi. Per chi invece lavora in questi luoghi questi discorsi sono per fortuna all’ordine del giorno, e la sfida sta nel portarli all’attenzione di tutta la società per intero. Ma, prima di poter immaginare un discorso equilibrato e fertile su argomenti così spinosi, le questioni da risolvere nel settore sono purtroppo più urgenti e immediate e, come ormai dappertutto, hanno a che fare con i diritti di chi ci lavora e con la pianificazione a medio-lungo termine.

Lavorare in uno spazio culturale

Chi lavora nel settore culturale in questo paese lo fa con contratti da fame e immerso nella precarietà più bieca e soffocante che possiamo immaginare. Le caratteristiche sono più o meno le stesse riscontrabili in tutti settori, con delle particolarità inquietanti che sembra stiano piano piano tracimando; l’assenza di una regolamentazione e di un controllo forti, così come la complicità o l’impossibilità d’azione del Ministero hanno contribuito negli ultimi 30 anni a fare di questo settore un campo di prova di tutte le nefandezze che conosciamo bene tutte, dai co.co.co. fino alle finte partita IVA. Nel 1993 il Parlamento approvò all’unanimità la legge Ronchey, che è vista come cardine dell’attuale impostazione del settore. L’ingresso, prepotente e non regolamentato, dei capitali privati nella valorizzazione dei beni culturali ha dato inizio a un sistema per il quale la maggior parte degli oneri di spesa, dai restauri alla manutenzione ordinaria, viene sostenuta dalle casse pubbliche mentre quei servizi considerati “non essenziali”, come la caffetteria dei musei e il servizio di sbigliettazione, vengono invece regalati ai privati, che sperano di poter fare profitto. La realtà si dimostra rapidamente diversa: fare profitto direttamente dagli spazi culturali è difficile, perché la maggior parte di questi gestisce beni pubblici e, per continuare (o iniziare) a distribuire quei massicci stipendi che ci si poteva all’inizio aspettare, da qualche parte si deve tagliare. Non basta la spaventosa crescita dei visitatori dagli anni 0 a riempire le casse di questi. Cosa potrà dunque mai essere sacrificato all’altare del profitto? Ovviamente gli stipendi, le tutele sociali e poco altro. Ecco quindi spiegato, in parte, il florilegio di contratti da fame, presi ai livelli più bassi e applicati in un contesto di scarsissimo interesse da parte del pubblico, raramente a tempo indeterminato, e affiancati da stage, tirocini, Servizio Civile (che ha da tempo abbandonato ogni caratteristica propria ed è diventato un bacino immenso di forza lavoro sottopagata) e tutti quei meccanismi che ben conosciamo e che alimentano la precarietà nel mondo del lavoro in questo paese. In tutto ciò s’inserisce la competizione del volontariato, promosso instancabilmente dal Ministero a guida Franceschini e da associazioni come il FAI e il Touring Club, che muovono fondi nell’ordine dei milioni e coinvolgono migliaia di persone chiedendo loro di lavorare  gratis per aprire spazi culturali, spesso di notevole importanza, come le Scuderie del Quirinale a Roma, che sono diventate esclusiva del Touring Club. 

Un’altra particolarità è legata all’utilizzo delle “false partita IVA”, quel fenomeno per il quale si viene assunti nella pratica come dipendenti, assumendosi però tutti i rischi e pagando di tasca propria le tasse. Nel settore culturale il fenomeno è molto diffuso, in particolare in ambiti dove si cerca personale altamente qualificato e specializzato senza volerlo pagare. Due esempi lampanti sono gli scavi di archeologia pubblica, la cosiddetta “preventiva”, che dovrebbe offrire un servizio alla cittadinanza di primaria importanza, di tutela dei beni archeologici e di controllo del territorio dalle lunghe mani della speculazione edilizia. Si potrebbero riempire libri interi raccontando come il settore dell’edilizia abbia fagocitato queste pratiche, addomesticandole alle proprie dinamiche speculative. L’altro esempio sono le guide cooptate dai musei, in particolare dai grandi musei, che per risparmiare e far quadrare il proprio bilancio ricorrono a queste pratiche al limite della legalità.  

In conclusione, il futuro degli spazi culturali in questo paese è a forte rischio. Allo stato attuale le conquiste democratiche del Novecento sono messe a repentaglio dall’assenza di un piano strategico per attualizzare questi spazi, perché chi è al potere da vent’anni è complice di quella piccola parte della nostra società che attivamente si adopera per aumentare le barriere all’accesso, innalzando il prezzo dei biglietti, mortificando chi lavora, sottraendo dalla sfera pubblica del welfare questi luoghi. Questi spazi sono già oggi un campo di battaglia dove si combatte quotidianamente intorno a un’idea di giustizia sociale sempre più polarizzata, e che deve diventare all’ordine del giorno di chiunque si batta ancora per un mondo più equo, affinché i luoghi della cultura siano spazi dove redistribuiamo la ricchezza, non un mezzo regalato ai soliti paperoni per accumularla.  Unitevi alla lotta!


* Flavio D. Utzeri. Nato e cresciuto a Torino, archeologo libero professionista. Presidente di Mi Riconosci, associazione in prima linea nella costruzione di un settore culturale più giusto ed equo, a partire dai diritti di chi lavora. 


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