A proposito dell’organizzazione di Unione Popolare

Raul Mordenti *

1. Credo che il dibattito sulle forme organizzative da costruire per UP dovrebbe assumere come proprio l’orizzonte dell’occasione e della straordinaria possibilità rivoluzionaria. Credo che se questo dibattito non è ancora decollato in tutti questi mesi – lasciando UP in un desolante  silenzio – ciò sia in gran parte dovuto al fatto che si è guardato invece a tale problema come a una rituale necessità, fastidiosa e forse perfino pericolosa.

Partiamo, con il poeta, da “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”1, che sarebbe già un bel punto di partenza: (1) UP non deve essere un cartello elettorale, una sigla mediatica da spendere nel cielo della politique politicienne, e (2) UP non deve essere un altro partito, accanto a quelli già esistenti, che sono già troppi. 

A capire l’insensatezza della prima scelta (un cartello elettorale) dovrebbero bastare i risultati desolanti delle elezioni a cui ci siamo presentati. Ho cercato di argomentare altrove che (grazie alle leggi elettorali maggioritarie fascistoidi, alla integrale mediatizzazione della politica, al consolidato astensionismo di massa etc.) ci troviamo forse ormai in un regime post-democratico, e dunque il terreno elettorale sarà l’ultimo, non certo il primo, che la riscossa proletaria potrà praticare. La casa non si costruisce a partire dal tetto e qui c’è da ricostruire prima le fondamenta del radicamento sociale di massa, anzi prima ancora è da ricostruire il terreno stesso della politica, cioè della democrazia. 

A sconsigliare la seconda scelta (un nuovo partito) è sufficiente ricordare che le stesse forze fondatrici di UP hanno idee diversissime in merito alla forma-partito, e che nessuna di esse si deve sciogliere, anzi (sperando che a quelle forze se ne aggiungano molte altre) occorre che ciascuna sviluppi al massimo, anche nelle differenze, le potenzialità del proprio radicamento sociale.

 Tuttavia abbiamo anche elementi positivi su cui poter costruire: si tratta di valorizzarli nella costruzione di UP, cioè di cogliere il vento che può soffiare nelle nostre vele. 

2. Anzitutto esiste nelle masse popolari un’attesa forte, forse perfino ingenua, per l’unità della sinistra; ho detto che è un’attesa perfino ingenua perché confonde fra l’esigenza di unità della sinistra e la subalternità a forze che hanno nel loro programma e nella loro pratica l’obbedienza al capitale finanziario, le privatizzazioni, l’attacco al lavoro e al reddito, l’atlantismo e soprattutto la guerra (cioè le caratteristiche stesse della destra). Di questa incapacità di distinguere vivono opportunisticamente i “cespugli” a sinistra del PD, le sue correnti esterne. Così – in mancanza di un’adeguata iniziativa politica nostra – la sacrosanta esigenza popolare di unità si è rivolta paradossalmente contro di noi. A me sembra che la proposta politica di UP rappresenti l’inizio (solo l’inizio) di un processo unitario, e che non abbiamo valorizzato abbastanza il fatto che UP abbia già invertito la tendenza alla frammentazione, unendo intanto con Rifondazione Comunista, Dema, Potere al popolo, Risorgimento socialista e altre forze minori ma significative, per non dire delle tante singole personalità che hanno sostenuto generosamente la proposta di UP e che (davvero imperdonabilmente!) non siamo stati ancora capaci di valorizzare come meritano. Ritengo che per rendere credibile questo processo unitario dovremmo crederci di più anzitutto noi stessi, ricordandoci che l’unità proletaria è nel DNA della tradizione comunista che Rifondazione rappresenta.

Ma c’è un altro decisivo elemento positivo che si muove nelle masse e che noi dobbiamo saper intercettare e valorizzare: la cosiddetta società civile italiana non è affatto un deserto. Al contrario, pur in una situazione teorica tragica e in una situazione sociale drammatica, la società italiana pullula di attività e di iniziative che noi a volte neppure conosciamo2 e che comunque non siamo stati ancora capaci di incrociare: ci sono mille conflitti locali in difesa del lavoro o dell’ambiente; le nuove generazioni dimostrano una sensibilità straordinaria per la difesa del futuro del pianeta; si diffonde sempre più un nuovo femminismo decisivo per la costruzione di un nuovo paradigma rivoluzionario; il rifiuto della guerra (cioè, in concreto, il no all’invio delle armi e alle spese militari) è addirittura maggioritario nel nostro popolo senza che si sia riusciti ancora a strutturare un movimento per la pace autonomo e senza equivoci; settori vitali del mondo cattolico vivono la crescente contraddizione fra il magistero bergogliano e le compromissioni istituzionali col potere; sono assai presenti e in crescita i movimenti LGBTQ, così come il movimento di opposizione dal basso di lotta alle masso-mafie; esistono straordinarie esperienze di volontariato sociale specie a contrasto del razzismo, e questo elenco potrebbe continuare. 

3. Torniamo al problema dell’organizzazione di UP da cui siamo partiti: c’è qualcuno che può pensare davvero che tutto ciò debba prendere le forma del partito, anzi del partito novecentesco? C’è qualcuno che crede che si possa versare vino nuovo negli otri vecchi? La nostra proposta può essere chiedere a tutte queste cose vive di subordinarsi ai nostri Comitati Centrali o ai nostri Dipartimenti di Partito? Solo formulare queste domande dimostra quanto sia sciocca l’idea che il morto debba e possa riafferrare il vivo.

Ricordo peraltro che il modello di partito che abbiamo conosciuto e praticato, riconducibile al “modello tedesco” vincente del Novecento (cioè al binomio limitativo Partito/politica + Sindacato/economia), per quanto sia stato vincente e glorioso, è solo uno dei tanti modelli che il movimento rivoluzionario ha sperimentato nella sua lunga storia. Non erano organizzati in questa forma né la rivoluzione francese né la Commune, non sono mai stati organizzati in questa forma le rivoluzioni del Terzo Mondo e neppure le migliori esperienze pilota della sinistra europea a cui ci ispiriamo.

Per citare il recente passato, penso all’elaborazione del “partito sociale”3, aperto al mutualismo e al federalismo, un’organizzazione articolata, decentrata, federativa, comprensiva accanto ai luoghi di lotte economiche e sociali anche di luoghi di elaborazione culturale e di studio, tutti con pari dignità e poteri; penso all’esperienza ai Consigli di fabbrica italiani del ’20-’21 o del ’69-’70, al sindacalismo di base e ai Cobas, alle verità interne (preziose anche se insufficienti) dell’anarchismo; penso alle Case del popolo, alle lezioni di democrazia diretta e assembleare (troppo presto abbandonate) dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta e del femminismo.

Si tratta di inventare (o forse di re-inventare) un modello di organizzazione politica rivoluzionaria che assuma e pratichi fin da subito l’obiettivo di ridurre al minimo (o abolire) la verticalità, la gerarchia, il maschilismo e il centralismo (da cui nascono continuamente le tre belve del burocratismo, dell’istituzionalismo, del correntismo), e  che valorizzi invece l’autonomia politica operativa di ogni istanza di base4

L’importante (come ci insegna Ferrajoli) è che la nuova organizzazione rivoluzionaria UP sia del tutto separata dallo Stato e che non tenda neppure a somigliargli, a essergli simmetrica, come è accaduto coi partiti tradizionali.

Dunque credo che sia il momento di dire “Che cento fiori sboccino, che cento scuole di pensiero gareggino!”. E chi avrà più filo, tesserà la tela.

UP deve diventare l’organizzazione dal basso di tutti/e coloro che si riconoscano nel suo Progetto e intendano aderirvi. Ciascuno/a Aderente dia vita a una “Unità di base”, che può prendere la forma che gli/le Aderenti sceglieranno, quella di un comitato tematico, di un circolo territoriale, di un collettivo di ambiente o luogo di lavoro, etc5.

A un Comitato di Garanti (nazionale ma anche articolato localmente) spetterà riconoscere la coerenza delle “Unità di base” con il Progetto di UP  e autorizzare così l’uso del nome e del simbolo (e anche, dove fosse necessario, poter revocare tale riconoscimento se si verificassero comportamenti e posizioni incompatibili con il Progetto).

A tutti i livelli la pratica della democrazia diretta da parte degli/delle Aderenti deve essere la pupilla dei nostri occhi; l’unico vantaggio che spetterà ai membri delle organizzazioni co-fondatrici è che per loro l’accettazione della domanda personale di adesione6 sarà automatica (non è importante che l’essere iscritto all’elenco degli/lle Aderenti dia diritto a una tessera cartacea oppure no), ma una volta che ciò sia avvenuto essi/e voteranno nella loro “Unità di base” come tutti gli/le altri Aderenti, con parità di diritti e di doveri: una testa un voto. Si costruiranno dal basso anche momenti di coordinamento territoriale e quegli strumenti politico-organizzativi (anzitutto strumenti di comunicazione e informazione) di cui abbiamo un assoluto bisogno.

Ripensare, sperimentare, creare dal basso queste nuove forme di organizzazione rivoluzionaria facendone il corpo vivo di UP è un compito difficile, ma è necessario e urgente, ed esso può diventare attrattivo verso le nuove generazioni alle quali (dobbiamo riconoscerlo francamente) il modello di partito che abbiamo conosciuto e praticato7 ha ben poco da offrire.

E non c’è più un solo giorno da perdere.


1 Da Non chiederci la parola che squadri da ogni lato  (Montale, 1923).

2 Credo che sarebbe molto utile che ogni nostro Circolo si impegnasse prioritariamente in un’attività di inchiesta, cioè di censimento ragionato di tutto ciò che si muove nel proprio territorio.

3 Riproposta ai tempi nostri da Pino Ferraris , ma si veda anche il pensiero di Osvaldo Gnocchi-Viani (1837-1917).

4 Come chiede anche l’appello “Facciamo i Circoli di Unione Popolare (spontanei e provvisori)”, lanciata on line in Change.org. È un appello che in gran parte condivido, anche se non ne conosco gli Autori, e confesso che proprio questa circostanza mi sembra incoraggiante.

5 Sono convinto una “Unità di base” dell’organizzazione non debba essere onnicomprensiva e (fingere di) occuparsi di tutto, perché la politica, tutta la politica, sta in una mobilitazione pacifista come in un comitato di fabbrica, in una lotta di disoccupati come in un collettivo femminista, in una lotta per l’ambiente come in un giornale o in un momento di auto-formazione del movimento, e così via. Ed è poco sensato che un’istanza di base dell’organizzazione per fare politica fra le masse debba dipendere da qualche autorizzazione gerarchica e verticale. Se, e quando, i vertici dell’organizzazione ci saranno, essi dovranno dimostrare in pratica la loro utilità per il lavoro politico di base.

6 Che le domande di adesione debbano essere e restare comunque personali mi sembra del tutto evidente, se non vogliamo cadere nella poco edificante pratica dei “signori delle tessere”.

7 Peraltro faccio notare che, proprio perché diverso dall’organizzazione di un partito, un simile originale modello di organizzazione politica di UP non entrerà in contrasto con i partiti esistenti (i quali restano necessari e insostituibili).


* Raul Mordenti, comunista, ha militato nel movimento studentesco del ‘68 e nel movimento del ‘77. Ha partecipato alla fondazione del PRC provenendo da Democrazia Proletaria. È stato professore ordinario di “Critica letteraria” all’Università di Roma ‘Tor Vergata’. Si è occupato di didattica della letteratura, di informatica umanistica, di Boccaccio, di De Sanctis e di Gramsci.

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