Alcuni problemi relativi al progetto di autonomia differenziata

Vincenzo Comito*

Il progetto di autonomia differenziata, cui sta pensando la destra di governo (ma anche qualche frangia di quella che una volta si chiamava la sinistra, sia pure con richieste un poco più “moderate”), presenta indubbiamente molti aspetti criticabili. Come è noto, il progetto Calderoli sulla questione prevederebbe la possibilità per le Regioni di ottenere più autonomia su molte materie, la sanità, la scuola, l’ambiente, l’energia, il commercio con l’estero, la ricerca scientifica. 

In queste note cerchiamo di analizzare la questione partendo da alcune considerazioni su come si stanno muovendo le cose a livello di economia e politica internazionale, fattori che hanno molto a che fare con il nostro tema.

La crisi attuale

C’è un concetto, citato frequentemente, di Antonio Gramsci secondo il quale ci sono dei periodi di crisi in cui il vecchio non è ancora morto e il nuovo fa ancora fatica ad affermarsi: ciò che provoca tra l’altro delle importanti turbolenze. Così, per esempio, qualche autore ha a suo tempo sottolineato come la crisi del 1929 possa essere stata provocata, anche se forse non esclusivamente, dal fatto che mancavano in quel periodo dei punti di riferimento politici forti, un regolatore di ultima istanza, con la Gran Bretagna che non riusciva più a esercitare la sua egemonia sul mondo, mentre gli Stati Uniti non avevano ancora la forza necessaria per sostituirla.  Il passaggio pieno delle consegne si avrà soltanto con la seconda guerra mondiale, quando la stessa Gran Bretagna riuscirà a sopravvivere solo grazie al sostegno, peraltro interessato, del nuovo attore egemone in fieri.

Oggi ci troviamo apparentemente di fronte a un quadro di crisi che si manifesta in molte direzioni, sia a livello di distribuzione del potere tra i vari Stati che del maturare a livello internazionale di altre questioni di molto rilievo. Cominciamo da queste ultime. 

La crisi ecologica, sociale e politica

Uno studioso francese, Youssef Cassis (Cassis, 2023), in un suo recente articolo, individua quattro tappe successive nell’evoluzione economica più recente. La prima appare costituita dall’affermazione del capitalismo industriale alla fine del XIX secolo, nel quadro di una sua fase politica di tipo liberista. Il secondo stadio, che si afferma a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, appare caratterizzato dal fatto che, mentre la dimensione industriale resta dominante, si registra per altro verso un capitalismo molto regolamentato, attraverso in particolare l’intervento crescente dello Stato nell’economia. Nella terza fase, che data dagli anni Ottanta, si assiste invece a una riduzione dell’intervento dello Stato e al rafforzamento dei meccanismi di mercato, con il passaggio ad un capitalismo di tipo neoliberista; essa è accompagnata da tre trasformazioni concomitanti: la riapertura dell’economia mondiale, un rilevante processo di deindustrializzazione e l’affermarsi di una presa crescente della finanza sull’economia. Ma dopo la crisi del 2008 si assiste di nuovo a un intervento molto più importante dello Stato nell’economia, che dovrebbe ora diventare ancora più forte per far fronte alla crisi ambientale, al ritorno dell’inflazione, alle grandi diseguaglianze, agli altri rilevanti problemi mondiali in essere.

In effetti, pur in presenza di un grande livello di indebitamento pubblico nei paesi del mondo, il ruolo di uno Stato organizzativamente e finanziariamente forte diventa sempre più importante per far fronte alle enormi spese e al grande sforzo organizzativo che sarebbero richiesti per la transizione energetica e per le crescenti necessità di investire nella scuola, nella sanità, nella ricerca, nelle nuove tecnologie digitali. 

Nel nostro paese servirebbe anche una forte politica pubblica che cerchi di porre rimedio alle profonde spaccature territoriali, sociali, culturali, che attraversano il nostro paese (Magatti, 2023).     

La crisi dell’egemonia occidentale

Se analizziamo l’evolversi della storia economica nel tempo, rileviamo come per moltissimi secoli le sole economie della Cina e dell’India, messe insieme, abbiano rappresentato circa il 60/% del PIL mondiale e come, ancora agli albori dell’Ottocento, esse pesassero ancora per il 50% circa (Maddison, 2007). E’ solo con la rivoluzione industriale che il peso dell’economia occidentale diventa per alcuni secoli preponderante sul mondo. Ora sembra che stiamo tornando alla situazione “normale” del passato. Oggi il peso del PIL dei paesi in via di sviluppo, considerando almeno il criterio della parità dei poteri di acquisto, è già al 60% del totale mondiale e non cessa di crescere. I primi sette paesi emergenti hanno oggi, considerando sempre il criterio della parità dei poteri di acquisto, un livello del PIL che è superiore a quello dei paesi del G-7, raggruppamento che mette insieme quelli che erano i paesi più ricchi del mondo. Il PIL della Cina ha superato quello degli Usa già da diversi anni, mentre lo stesso paese avanza rapidamente sul fronte tecnologico, militare, finanziario. Ricordiamo, infine, come si preveda che nel 2030 le classi medie dei paesi asiatici rappresenteranno i due terzi circa di quelle mondiali.

Di fronte all’evoluzione del quadro, gli Stati Uniti stanno in tutti i modi cercando di fermare o almeno di bloccare su tutti i fronti tale evoluzione, dispiegando tutta la loro forza statale, rifiutandosi di dare uno spazio adeguato alle economie emergenti nei vari organismi internazionali, estendendo la forza militare e il numero delle basi che circondano la Cina, emettendo una serie di atti tecnologici ostili, cercando di frenare i forti legami esistenti tra imprese occidentali e il paese asiatico. 

La conseguenza di tali sommovimenti ci riporta di nuovo alla necessità di Stati, e sempre più anche di raggruppamenti di Stati, capaci di far fronte a questi grandi mutamenti e al rischio di marginalizzazione economica e politica in un ambiente così duro.

In tale quadro, sarebbe per l’Italia necessaria, tra l’altro, una grande politica pubblica che riprogetti il ricollocamento strategico del nostro paese in campo industriale, energetico e commerciale (Magatti, 2023).

Lo Stato italiano 

Di fronte alla crescita del ruolo degli Stati e alla necessità di strutture molto forti e complesse per far fronte all’evoluzione in atto quale è la situazione attuale a livello nazionale?

Se consideriamo l’evolversi nel tempo delle strutture burocratiche dello Stato unitario italiano, ci accorgiamo subito come esse si rivelino molto fragili sin dai loro primi passi e come nel corso del tempo e sino ad oggi esse abbiano continuato a presentare un quadro di grande debolezza. 

Hanno pesato su tale situazione molti e diversi fattori, dal ritardo con cui si è conclusa l’unificazione del paese rispetto ad altri casi, alla mancanza nel corso della storia della penisola di adeguati elementi aggreganti. Per converso, in altri paesi il miracolo si compie. Così in Spagna, strutture burocratiche efficienti fanno i loro primi passi già nel Cinquecento, con il formarsi della Casa de Contractation di Siviglia, incaricata di gestire i rapporti tra la Spagna ed il Nuovo Mondo. Anche  in Francia, molto presto con le riforme colbertiane che cancellano progressivamente il caos amministrativo medioevale. Ancora in Inghilterra, dove registriamo l’affermarsi tra Cinquecento e Seicento delle enormi strutture di gestione della Compagnia delle Indie Orientali, o, per quanto riguarda la Germania – che pure registrerà  anch’essa un’unificazione tardiva del paese – il nucleo di base rappresentato dalla presenza di una forte componente burocratica-militare nel regno di Prussia e infine, per quanto riguarda gli Stati Uniti, ancora le esperienze nel tempo dell’apparato burocratico del settore militare.

Possiamo ancora elencare, tra l’altro, per quanto riguarda il nostro paese, la presenza di un’influenza così deleteria come quella rappresentata dalla Chiesa di Roma o le modalità concrete in cui fu effettuata la stessa unificazione del paese, o ancora, infine, la tradizionale e sempre presente forza dei tanti localismi forti nella storia della penisola; se vogliamo, l’Italia è sempre stata in effetti terreno di localismi e personalismi, paese in cui il potere reale è stato per molti secoli in mano alle cento città, l’una contro l’altra armate e infine, in parallelo, come un dato anch’esso permanente, l’ostilità verso lo Stato di larghi strati delle popolazione. 

Nel dopoguerra, l’obiettivo di costruire un apparato burocratico moderno ed efficiente non è poi mai stato all’ordine del giorno dei vari governi che si sono succeduti nel tempo e i rari tentativi di fare qualcosa sono presto tramontati. Accenniamo soltanto al ridicolo tentativo di attuare la riforma dello Stato affidando il progetto a un giurista, Franco Bassanini, quando ci sarebbero volute ben altre competenze per tentare l’avventura.

Per una ricostruzione attenta della storia dell’amministrazione italiana, “tra le sue poche virtù e i suoi molti vizi nella sua secolare evoluzione”, si veda il testo di Guido Melis (Melis, 2020). Vi si registrerà il fatto che, tra l’altro, nella burocrazia italiana ancora oggi prevalga una visione molto prevalentemente amministrativa-giuridica delle strutture pubbliche, poco capace di utilizzare competenze più generali, una burocrazia per altro verso vecchia e chiusa in se stessa; va registrata anche una sua decadenza nel tempo, e comunque il fallimento di ogni tentativo di modernizzazione. 

Ancora di recente, il caso in atto del Pnrr mostra per l’ennesima volta le grandi debolezze delle nostre strutture amministrative. 

Ora una costruzione così debole si deve scontrare oggi, da una parte, con il fatto che lo Stato è fortemente limitato nella sua azione dagli Stati Uniti e dalle sue multinazionali sul fronte della politica estera, dalla Bce e dai mercati su quella economica, monetaria e finanziaria, dalla UE su di una crescente molteplicità di questioni, mentre dal basso sono in opera, in Italia, ma anche in altri paesi (Morel, 2023), attacchi da parte delle forze in senso lato etnoregionaliste. 

Strutture già fragili si sono dovute poi scontrare, a suo tempo, con la riforma dell’articolo V che dava alle Regioni dei rilevanti poteri. Lo scoppio del Covid ha indicato ad abundantiam come nel campo della sanità tale progetto sia sostanzialmente fallito, mentre si invoca da più parti una riflessione sulla questione, che dovrebbe portare semmai ad un nuovo accentramento piuttosto che a un’ulteriore spinta al frazionamento.

In ogni caso l’idea, poi, di accompagnare l’attuazione dell’autonomia differenziata con il contrappeso del presidenzialismo e del premierato “forte” appare anch’essa piuttosto insensata; non si capisce a quel punto cosa resterebbe da gestire al presidente o al premier che sia. 

Alcuni casi

La necessità di avere a che fare con delle strutture centrali forti potrebbe essere mostrata con molti casi specifici. In questa sede ne vogliamo ricordare soltanto tre.

Consideriamo il caso olandese. Di fronte al disastro ambientale portato dagli allevamenti, che contribuiscono in maniera molto importante all’inquinamento del mondo (Comito, 2023), alcuni governi, in particolare quello olandese e quello irlandese, più responsabili di altri, hanno deciso di limitare in misura significativa il settore. Ma in Olanda abbiamo assistito a una vera e propria rivolta del paese a tali misure, prima con l’affermazione alle elezioni di un partito ostile alla legislazione in merito, poi con imponenti cortei nelle maggiori città. Il caso dimostra come anche uno Stato forte come quello olandese deve attrezzarsi ancora di più per far fronte a delle questioni molto controverse, ma necessarie. 

O prendiamo alcune riflessioni estraibili dall’alluvione in Romagna. Come scrive Milena Gabanelli (Gabanelli, 2023) “nel 2001, con la riforma del titolo V, Regioni, Comuni, Province si prendono la gestione del territorio e la dividono lungo i confini amministrativi e la visione unitaria si perde. Se una Regione, per evitare allagamenti, deve rompere un argine che sta su un confine, l’altra Regione si oppone perché ritiene che i suoi campi siano più utili di quelli della Regione adiacente. All’interno di una stessa Regione le competenze vengono a loro volta spezzettate. …Ogni Regione si occupa del proprio territorio, fregandosene dei danni che può provocare alla Regione confinante.” 

O infine citiamo l’undicesimo rapporto annuale del Crea (Gobbi, 2023) che certifica come già oggi l’Italia della sanità sia divisa in due, con metà dei cittadini che vivono in regioni dove essa funziona, sia pure con delle zone d’ombra e l’altra metà che si trova normalmente di fronte a serie difficoltà nell’accedere ai sevizi del settore. 

I casi di questo tipo con l’autonomia differenziata si moltiplicherebbero e si aggraverebbero: banalmente, tra l’altro, le imprese operanti su scala nazionale si vedrebbero soggette ad incomprensibili frammentazioni delle regole, sarebbe impensabile portare avanti politiche di stabilizzazione del ciclo e di redistribuzione del reddito e così via.

Il caso del federalismo tedesco

I sostenitori del progetto di autonomia differenziata, per sostenere la bontà dell’idea e provare come esso possa funzionare adeguatamente, fanno di frequente riferimento al caso del federalismo tedesco, in atto da così tanto tempo apparentemente con successo.

Ma la distanza tra il sistema tedesco e il progetto Calderoli appare molto forte.

Nel caso teutonico ci troviamo di fronte intanto, alla base, di fronte a un sostrato largamente consociativo a livello di cultura politica nazionale e all’esistenza di una efficiente e consolidata cultura organizzativa del settore pubblico al centro ed in periferia.

Nel sistema citato dobbiamo registrare (Falcone, 2009) poi l’esistenza di una tutela uniforme dei diritti dei cittadini su tutto il territorio nazionale in una vasta serie di materie, nelle quali eventualmente la Federazione legifera in luogo dei Lander, anche se poi alcune caratteristiche del sistema cambiano nel tempo. Esso è poi basato su un’intensa attività di cooperazione tra il centro e la periferia.

Le osservazioni dell’UE

Si è di recente manifestata una rilevante ostilità europea al progetto Calderoli (De Minico, 2023). Esso non piace all’UE intanto perché lo Stato, una volta trasferiti i soldi alle Regioni, non avrà poi, lasciate alle Regioni ricche, le risorse necessarie per dare sostanza ai Lep, i livelli essenziali delle prestazioni, il meccanismo individuato per mantenere degli standard minimi di servizio alle regioni più sfavorite. Detto in altro modo, nessuno sa come essi potrebbero essere finanziati. 

Non si può poi strappare allo Stato, come il decreto prevederebbe, una sua prerogativa inscindibile, la capacità cioè di orientare la spesa pubblica, capacità che qui arretra di fronte alla richieste delle regioni. Questa perdita metterebbe in pericolo l’unità della repubblica, lo Stato avrebbe maggiori difficoltà a pagare il debito pubblico, la riduzione andrebbe a scapito delle azioni sociali. La Costituzione impone poi di accorciare le distanze tra le aree più favorite e quelle più sfavorite del paese, mentre il decreto si muoverebbe nella sostanza per dilatarle. 

Sin qui le osservazioni della UE. Il presente governo, per altro verso, è più in generale ostile al Sud, anche se bisogna ricordare che anche quelli precedenti non si sono dati molto da fare per risollevarne le sorti.

Conclusioni

Il progetto di autonomia differenziata portato attualmente avanti in Parlamento non convince. Esso sembra andare in senso opposto a quello della necessità di rafforzare oggi l’organizzazione dello Stato centrale in relazione ai molti aspetti delle molteplici crisi strutturali in atto nel mondo; crisi ecologica, di crescita delle diseguaglianze, di grandi difficoltà economiche (inflazione, problemi energetici, alto livello di indebitamento pubblico e privato), nonché dal venir meno dell’egemonia occidentale sul mondo. Il confronto con un il modello federalista tedesco non appare per molti aspetti proponibile. Il progetto è criticato anche dall’UE in particolare per il fatto che esso minerebbe l’unità del paese e delle sue politiche, nonché perchè esso accentuerebbe, invece di ridurle, le grandi disparità territoriali odierne. 

Tra l’altro, come il nostro paese potrebbe competere nel mondo con venti politiche energetiche diverse e con altrettanti progetti di ricerca, settore quest’ultimo già oggi molto sottodimensionato a livello di intero paese?   

Esso metterebbe in ulteriori grandi difficoltà un’organizzazione burocratica nazionale già afflitta da tanti malanni, come del resto sembrano mostrare ancora oggi le vicende del Pnrr.

Sarebbe certamente necessaria una grande riforma delle strutture pubbliche, ma essa dovrebbe comunque andare in una direzione molto diversa da quella prevista nel progetto Calderoli e richiederebbe tra l’altro una classe politica all’altezza del compito, aspirazione oggi molto lontana dalla realtà.


Testi citati nell’articolo

Cassis Y., Le quatrième age du capitalisme, Le Monde, 11 giugno 2023

Comito V., Come cambia l’industria, i chip, l’auto, la carne, Futura ed., Roma, 2023

De Minico G., Perché il ddl Calderoli è incompatibile con lo spirito del Pnrr, Il Sole 24 Ore, 22 giugno 2023 

Falcone S., Il federalismo in Germania: un sistema esecutivo, unitario, cooperativo, in Storicamente, n. 5, 2009

Gabanelli M., Alluvione in Romagna, di chi è la colpa, Corriere della Sera, 12 giugno 2023 

Gobbi B., L’Italia della sanità resta spaccata in due: a metà italiani cure inadeguate, Il Sole 24 Ore, 27 giugno 2023 

Maddison A., Contours of the world economy, I-2030 AD, Essays in macro-economic history, Oxford University Press, New York, 2007

Magatti M., Occorre una crescita che vada oltre il pil, Corriere della Sera, 12 giugno 2023

Melis G., Storia dell’amministrazione italiana, Il Mulino, Bologna, 2020

Morel B., la France en miettes, régionalismes, l’autre séparatisme, Editions du Cerf, Parigi, 2023 


* Vincenzo Comito è economista. Ha lavorato a lungo nell’industria, nel gruppo Iri, alla Olivetti, nel Movimento Cooperativo. Ha poi esercitato attività di consulente ed ha insegnato finanza aziendale prima alla Luiss di Roma, poi all’Università di Urbino. Autore di molti volumi. Collabora a “Il Manifesto” e a www.sbilanciamoci.info

Print Friendly, PDF & Email