Alimentare il fuoco

Giovanna Capelli*

Nelle vecchie cucine della tua patria, nelle strade polverose, qualcosa si mormora e passa, qualcosa torna alla fiamma del tuo adorato popolo, qualcosa si desta e canta. Sono i tuoi, sorella: quelli che oggi pronunciano il tuo nome, quelli che da tutte le parti, dall’acqua, dalla terra, col tuo nome altri nomi tacciamo e diciamo. Perché non muore il fuoco. (Pablo Neruda a Tina Modotti, 1942)

Partire da sè

Il movimento delle donne con la pratica del “partire da sé”, che cerca di evitare all’origine la separazione fra vita e teoria, mi spinge a far discendere il mio contributo dalla analisi di come è avvenuto il mio incontro con il comunismo.

Un esempio semplice da cui è possibile trarre riflessioni attuali, certamente parziali, data la enorme differenza del contesto, ma utili perché individuano le modalità di un avvicinamento al comunismo da parte di soggetti che venivano da culture politiche e tradizioni familiari in genere molto ostili alla sinistra e che per motivi diversi, spesso non esplicitati razionalmente, non avevano nessuna connessione sentimentale con le esperienze dei paesi dell’Est europeo.

L’incontro è stato globale, cuore, mente e parola nel senso che è andato di pari passo lo studio e l’acquisizione degli strumenti teorici del marxismo, il senso di appartenenza a una storia internazionale e a un movimento per la giustizia e la uguaglianza sociale e la adesione alle sue narrazioni prevalenti : la ribellione dei popoli contro l’imperialismo, il Vietnam vittorioso contro gli Usa, la vittoria contro il nazifascismo e il ruolo della Unione Sovietica, la Resistenza italiana come lotta non solo contro l’occupazione tedesca e la sua barbarie, ma contro il fascismo e le classi padronali agrarie e industriali che lo avevano sostenuto; una resistenza che in Italia non era finita, se nel gennaio del 1967 Parri in Parlamento denunciò l’uso politico del Sifar, il servizio segreto italiano e nel febbraio l’Europeo pubblicò il fascicolo del Piano Solo, un golpe che nel 1964 avrebbe dovuto difendere il potere democristiano sbarrando la strada all’egemonia programmatica dei socialisti.

Valse solo la minaccia per ottenere l’effetto voluto.

Un movimento come tramite

Il tramite di questo incontro è stata la partecipazione a un movimento in lotta, quello studentesco della Università Cattolica, che in pochi mesi (dopo la decisione del Senato Accademico di aumentare le tasse) passò da assemblee affollatissime alle occupazioni (la prima il 17 novembre 1967), ai picchetti contro la serrata, all’episodio di Largo Gemelli (25 marzo del 1968), in cui scattò la repressione del battaglione Padova, che disperse brutalmente una piazza gremita e cominciarono le espulsioni dei leader del movimento e l’allontanamento dei professori che si schieravano con gli studenti.

Il movimento si era trasformato passando dalla critica all’aumento delle tasse all’analisi delle contraddizioni di uno sviluppo e di una modernizzazione capitalistica, che teneva fuori dalla piena cittadinanza donne e uomini, operai e contadini, condannandoli alla emigrazione e alla immigrazione, a lavori senza tutela, con un sistema scolastico eccellente per le future classi dirigenti e uno breve e di basso livello per chi era destinato al lavoro.

Una situazione insopportabile soprattutto per le giovani generazioni: il futuro gramo e faticoso, contrabbandato come fatto naturale e inevitabile, a cui si aggiungeva il paternalismo familiare, la ipocrisia perbenista e la violenza della cultura patriarcale. In pochi mesi settori di studenti universitari provenienti dalle parrocchie, dalla piccola borghesia cittadina, dalle regioni del Sud si trovarono a proprio agio in un movimento che non parlava solo del diritto allo studio e al sapere, ma del mondo e del futuro, faceva propri linguaggi e categorie del comunismo e ne innalzava i simboli, la bandiera rossa con la falce ed il martello.

In questo modo vasti settori di massa, di uomini e di donne familiarizzarono con il comunismo, con la sua storia e soprattutto con il suo orizzonte, come superamento necessario ma anche desiderabile dell’esistente. In questo largo processo di partecipazione alle lotte e di autorganizzazione delle strutture di movimento, dentro cui i singoli con o senza partito agivano direttamente, si confrontarono le culture politiche comuniste, socialiste e cristiane, in tutte le loro sfumature e varianti. Lì passò la egemonia comunista; l’agire politico partiva dalla concretezza delle lotte ed aveva come finalità quella di costruire una società senza oppressione e sfruttamento, con una struttura economica e sociale che garantisse a tutti i diritti politici, sociali e civili a partire dalla uguaglianza come punto di partenza per riconoscere e valorizzare le differenze, alla ricerca di una nuova modalità di convivenza umana solidale, democratica cooperativa e pacifica.

Quale socialismo, quale comunismo?

Le ricostruzioni di parte borghese del 68 /69, che tra l’altro non spiegano la lunga durata di quel movimento, semplificano la narrazione insistendo sugli slogan, sui simboli, sulla effige di Stalin innalzata nei cortei per dimostrare la sua subalternità al “socialismo reale “. Tacciono su ciò che la storiografia più accurata continua a testimoniare: il riferimento al comunismo frutto di quell’allargamento di collocazione politica era già fuori dall’orizzonte del modello sovietico; più generazioni invece si interrogarono sul come fare la rivoluzione in Italia, con quale strategia, con quali metodi, con quale idea e pratica della democrazia, dell’esercizio del potere, di un orientamento economico finalizzato al bene comune e al rispetto della natura.

La ricerca critica è stata continua, lunga, caotica e contradittoria e con punti di approccio diversi: alcuni avevano solidi legami internazionali, come i preesistenti gruppi trotzkisti o gli m-l (marxisti-leninisti), che con la categoria del revisionismo criticavano Togliatti e Krusciov (Le divergenze fra il compagno Togliatti e noi, in Dossier dei Comunisti cinesi, a cura di Roberto Gabriele, Nicola Gallerano, Giulio Savelli, con prefazione di Lucio Libertini, Edizioni Avanti! 1963) sul problema della coesistenza pacifica e della via Italiana al socialismo e, in sostanza, discutevano del rapporto fra una politica internazionale impegnata a difendere la pace , il disarmo e tutta tesa a evitar il conflitto nucleare e la lotta fra le classi nei singoli paesi e nelle nazioni oppresse dall’imperialismo; discutevano anche su quale fosse e se ci dovesse essere un limite a un processo rivoluzionario che mettesse in discussione l’ordine del mondo uscito dalla seconda guerra mondiale e i rapporti di forza tra i due campi; molti di questi gruppi fecero poi riferimento alla rivoluzione culturale cinese, alla sua critica del modello sovietico di sviluppo economico e di relazione con gli altri paesi del blocco socialista (si parlava di socialimperialismo).

Essa era un elemento di rottura della forma classica del Partito con la grande mobilitazione dal basso per discutere e cambiare la linea del Partito Comunista Cinese, per sconfiggere la burocrazia e lo strapotere dell’apparato del Partito. Il confronto di questi approcci critici con la storia concreta del 1968/69, con le questioni poste dal biennio rosso degli operai e degli studenti non produsse una loro egemonia, piuttosto avvenne il contrario e i gruppi e le loro modalità di azione vennero travolti dalla forza dinamica dei movimenti e delle nuove formazioni di sinistra; ma la sostanza delle critiche al socialismo reale e allo stalinismo rimase.

In questo senso l’intervento di Berlinguer a Mosca (al novembre 1977) al 60° della “rivoluzione d’Ottobre” fu un atto coraggioso rispetto al contesto in cui veniva pronunciato, ma anche la ratifica tardiva che Il movimento reale che trasforma le cose esistenti non aveva il suo fulcro propulsore in quel consesso. Nel PCI si continuò a discutere su questi problemi (enucleati dalla formula della “fine della spinta propulsiva dell’Ottobre”) pur avendo ormai accantonato il tema della rivoluzione e del cambiamento di sistema. I gruppi dirigenti affascinati dalla globalizzazione neoliberista erano frettolosi di liquidare il nome comunista, non di ricostruire l’attualità di quell’orizzonte.

Le aspettative dei movimenti

Il peso simbolico e teorico di questo ritardo influenzò anche la nascita di Rifondazione Comunista che, invece di segnare una discontinuità e di generare una nuova forma dello stare insieme dei comunisti e delle comuniste, di alimentare la scintilla anticapitalista, che si accendeva in ognuno dei movimenti che hanno animato la scena internazionale e italiana negli ultimi 50 anni, si limitò a una lenta presa di distanza dallo stalinismo con uno sguardo sempre rivolto al passato. Ma i movimenti e i soggetti antiliberisti e anticapitalisti aspettano altro: un metodo di relazione e di convergenza che escluda ogni strumentalità, un’idea di rivoluzione e di società socialista che dia organicità alle elaborazioni scaturite dalle esperienze di lotta: beni comuni, modalità di gestione collettiva della proprietà, il ruolo e i poteri dello stato rispetto ai singoli e alle comunità, la democrazia di genere.

La vaghezza e la indeterminazione su questi nodi indeboliscono il fascino del comunismo. Altri soggetti fanno proposte innovative: i curdi quando costruiscono il confederalismo democratico nel Rojava, gli zapatisti esercitando il contropotere della comunità, tutte strategie radicate nel contesto, non trasferibili, ma portatrici di avanzamenti validi universalmente. Sta a noi di alimentare il fuoco sulla scena italiana ed europea.


* Giovanna Capelli, femminista, è componente dell’Esecutivo del Partito della Sinistra Europea ed è Responsabile Sanità della Segreteria Lombarda di Rifondazione Comunista. Già insegnante di lettere e preside nella scuola pubblica.


Immagine in apertura di Aquarius1969 da wikipedia.org

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