Cent’anni dopo. Il Pci e la rivoluzione in Occidente

Paolo Ciofi*

“Veniamo da molto lontano, e andiamo molto lontano”. Queste parole di Palmiro Togliatti1, il rivoluzionario costituente stratega della rivoluzione in Occidente, dal quale non si può prescindere ricordando il Pci, danno il senso di un percorso lungo e complicato, che dai primi passi di Amadeo Bordiga e Antonio Gramsci si dipana poi lungo tutto il Novecento. Fino alla guida del partito da parte dello stesso Togliatti, cui seguiranno Luigi Longo ed Enrico Berlinguer.

La fondazione del Pci il 21 gennaio del 1921, nel momento più grave della crisi della borghesia italiana e del movimento operaio, che traccheggiava tra un riformismo rissoso e inconcludente e un massimalismo parolaio altrettanto inconcludente, era “storicamente necessaria e inevitabile” secondo il giudizio di Antonio Gramsci2. Tuttavia, in un Paese scosso da una crisi profonda e da acuti conflitti di classe come fu evidente durante il “biennio rosso”, la nuova formazione politica non riuscì a piantare radici solide nella società e a organizzarsi su ampie basi di massa come chiedeva l’urgenza dei tempi.

I Consigli degli operai, che avrebbero dovuto essere promotori dell’azione rivoluzionaria, concentrati pressoché solo nella cintura torinese, non furono in grado di diffondersi nel Paese e di assolvere a una funzione dirigente. Forte era il condizionamento – osservava ancora Gramsci – determinato dalla necessità di “mantenere strette le file del partito, aggredito fisicamente dalla offensiva fascista da una parte, e dai miasmi cadaverici della decomposizione socialista dall’altra”3.

Solo in seguito, superati il settarismo bordighista e la subalternità riformistica, il nuovo partito, con il congresso di Lione del 1926, fu in grado di fissare un asse strategico indicato da Gramsci, fondato sull’alleanza tra operai e contadini. Ma ormai era tardi. Il fascismo era vincente, come aveva certificato la marcia su Roma. La dittatura metteva fuori legge i partiti e i sindacati, colpiva gli avversari sopprimendoli, arrestandoli, costringendoli all’esilio. Gramsci fu incarcerato e ucciso, Terracini condannato a oltre 20 anni che scontò tra carcere e confino. Il partito, le cui sedi venivano assalite edistrutte, fu costretto alla clandestinità. Ma non cessò di lottare mantenendo, pur in condizioni di difficoltà spesso insormontabili, un collegamento con il Paese e con la base della società, in particolare con gruppi di operai. A questo scopo, per organizzare comunque una presenza e una iniziativa, furono costituiti il Centro interno a Genova, diretto da Camilla Ravera e il Centro estero a Parigi, guidato da Togliatti. Non per caso i primi colpi assestati al fascismo furono gli scioperi del marzo 1943 a Torino, che coinvolsero 100 mila operai4.

Da Gramsci a Togliatti: dall’antifascismo alla svolta di Salerno

Se si muovesse dall’analisi dei fatti invece che dall’inossidabile pregiudizio anticomunista, non contrastato e anzi subìto passivamente, elevato ormai a fattore costitutivo del sistema di potere nelle forme più rozze e primitive come in quelle più raffinate e sottili, si giungerebbe a una conclusione incontrovertibile: i comunisti italiani sono stati non solo i più numerosi e coerenti combattenti per la libertà, ma anche i più tenaci sostenitori della democrazia in Italia e in Europa.

Sono stati la forza politica fondamentale per combattere il fascismo, per organizzare la guerra partigiana di liberazione, per abbattere la monarchia e instaurare la repubblica, per scrivere e attuare la Costituzione, per difendere la democrazia e la libertà degli uomini e delle donne, i diritti sociali e civili, per contrastare e vincere il terrorismo. In sintesi, avendo rappresentato la maggioranza della classe lavoratrice e dei ceti popolari, sono stati costruttori decisivi della nazione e dell’Italia democratica.

È un dato di fatto della nostra storia di italiani. Reso possibile da quell’originale pensiero critico d’ispirazione marxista proposto da Gramsci e da Togliatti. Il quale, muovendo da una moderna analisi delle classi sociali e dalla visione gramsciana dell’egemonia, rielabora i fondamenti teorici e la pratica della rivoluzione come processo, del socialismo e della democrazia, del partito politico. Una impostazione del tutto nuova, che sviluppando un orientamento già emerso nella relazione di Togliatti al VII congresso dell’Internazionale nel 1935 sui temi della pace e della guerra, rovescia la tradizionale concezione rivoluzionaria, e supera di slancio la frattura storica che aveva diviso il movimento operaio, contrapponendo massimalisti e riformisti.

La rivoluzione che procede per via pacifica e costituzionale, attraverso profonde riforme della struttura economico-sociale e il conflitto tra le classi sul terreno di una democrazia progressiva in continua espansione, anche nell’economia. Il socialismo inteso non come astratta predicazione del “sol dell’avvenir” ma neanche come modello unico universale da applicare sempre e ovunque. Bensì come una civiltà più avanzata, proiettata verso nuove mete di uguaglianza e di libertà per tutti gli uomini e le donne, da costruire nelle condizioni storiche concrete di ciascun Paese.

La democrazia non solo come via da seguire ma anche, e soprattutto, come fattore costitutivo del socialismo. Infine, il partito di massa come strumento funzionale allo scopo. Sono queste componenti del pensiero e della pratica politica di Togliatti che ne hanno fatto un grande rivoluzionario, capace di disegnare nell’Occidente avanzato un nuovo modello di socialismo molto diverso da quello sovietico, al quale peraltro era profondamente legato anche come dirigente dell’Internazionale. Ma proprio nell’autonomia, prima di tutto del pensiero, risaltano l’originalità e la grandezza di Togliatti. Non c’è dubbio che il segretario del Pci sia stato in Occidente il più innovativo del comunismo mondiale nella seconda metà del Novecento, dopo la rottura storica della rivoluzione d’ottobre e la vittoria dell’Urss sul nazifascismo. Lo conferma il suo ultimo atto, il memoriale di Yalta del 1964, dove, prendendo le distanze dallo stalinismo indicava le coordinate di un socialismo diverso, fortemente innervato nella democrazia. E sollecitava ai sovietici e ai cinesi, venuti in collisione, la ricerca di un nuovo internazionalismo, proprio in ragione della diversità delle loro posizioni.

Togliatti fu anche un grande statista, il costruttore più coerente della nostra democrazia costituzionale proprio in ragione della sua visione del processo rivoluzionario. Uno stratega dal pensiero lungo, come è evidente dal progetto di una Costituzione “non di previsione ma di guida”, di cui è stato tra i principali estensori. In pari tempo fu un tattico lucido e tempestivo, “l’unico veggente tra coloro che vanno alla cieca”, come disse Pietro Nenni nel 19445. Quando Togliatti, dopo anni di esilio, rientrato in un Paese allo sbando, occupato e distrutto dalle truppe straniere, indicò nel governo del Mezzogiorno occupato dagli anglo-americani e nella guerra partigiana promossa dalle forze democratiche unite contro i nazifascisti la scelta da compiere per liberare l’Italia, ricostruirla nella sua unità territoriale, e quindi fondare la Repubblica. Un momento decisivo, passato alla storia come la svolta di Salerno.

Democrazia progressiva e partito nuovo

Tattica e strategia si fondono in una visione alta della politica, intesa come teoria e pratica “per trasformare il mondo”. Il che comporta capacità di analisi e di progetto, muovendo sempre dalla composizione di classe della società e dal conflitto, e dunque dalla conoscenza dei fatti storici e della realtà, dei bisogni del momento e dell’avvenire.

In modo da poter valutare, alla luce dei principi, le condizioni oggettive e quelle soggettive tanto della avanzata e della vittoria quanto della ritirata e della sconfitta. «Alla base di questa comprensione – precisa Togliatti – vi è la critica di se stessi e degli altri, che è momento di azione ulteriore». Così intesa e praticata, la politica “si colloca al vertice delle attività umane” e “acquista il carattere di scienza”6.

Democrazia progressiva e “partito nuovo” sono i due pilastri della strategia di Togliatti. Partito nuovo vuol dire partito popolare e di massa, che facendo asse sulla classe operaia si ramifica nel più vasto mondo del lavoro materiale e immateriale, e si estende ai ceti intermedi. Insediandosi con le sue cellule e sezioni nei luoghi di lavoro e di studio sul tutto il territorio nazionale, e coinvolgendo milioni di persone – donne e uomini, giovani e anziane – le ha rese protagoniste della lotta politica. Una scelta che elevando il livello sociale, culturale e politico delle classi subalterne, e contrastando senza incertezze il plebeismo, ha spinto dal basso il progresso del Paese e promosso una nuova classe dirigente. Ponendo lo strumento politico in perfetta sintonia con la strategia, Togliatti non aveva dubbi:

“Nessuna politica può essere realizzata senza un partito, il quale sia capace di portarla tra le masse, nelle officine, nelle strade, nelle piazze, nelle case, nel popolo e di guidare tutto il po- polo a realizzarla (…). È dovere dei comunisti di essere vicini a tutti gli strati popolari, a tutti coloro che soffrono; agli operai che lavorano o che sono disoccupati, ai giovani, alle donne operaie o di casa, agli intellettuali, ai contadini. Dobbiamo riuscire a comprendere tutte le necessità di questi strati popolari e impegnarci a soddisfarle”7.

Parole antiche, che acquistano un sapore nuovo in questa fase tormentata della storia umana, nella quale si rischia il tracollo del sistema ambientale in presenza di epidemie, alluvioni, incendi sempre più diffusi, provocati dallo sfruttamento senza limiti della natura alla ricerca illimitata del profitto. Con il risultato di un aumento stratosferico delle disuguaglianze e della concentrazione della ricchezza, come dimostra la tragica vicenda del Covid.

Non perdiamo tempo a cercare un capitalismo “solidale”, “paziente”, “migliore” e via elencando, invece di quello finanziario che ci opprime, nel quale permarrebbe comunque lo sfruttamento della persona umana e dell’intera natura.L’obiettivo è rovesciare le finalità dell’ordinamento economico-sociale: non il massimo profitto ma il benessere comune nella salvaguardia della natura. Cominciando a rendere davvero universali i diritti sociali in Europa e in Italia, adottando un’imposizione fiscale progressiva sui redditi e i patrimoni, e ponendo dei limiti all’iniziativa e alla proprietà privata, che devono svolgere una funzione sociale, come la Costituzione prevede.

Le fondamenta di un nuovo progetto comunista

Il progetto togliattiano di avanzare verso il socialismo per via democratica e pacifica in Europa e in Italia, poi ripreso e sviluppato da Luigi Longo ed Enrico Berlinguer, non è andato a buon fine. Ma ha lasciato agli italiani e alle italiane la conquista più alta raggiunta nella loro lunga e contrasta lotta per la libertà: la Costituzione antifascista del 1948, un progetto di società che apre le porte a un socialismo di tipo nuovo.

Il lavoro – non il capitale – è infatti il fondamento della Repubblica. Oggi però viviamo in una condizione nella quale il lavoro è stato escluso dal sistema politico. La contraddizione è palese e lacerante. Milioni di uomini e di donne, soprattutto giovani, che lavorano o che per vivere cercano lavoro, sono uno zero assoluto nel sistema politico, con pesanti effetti negativi sulla vita dell’intera società.

Come si ricostituisce allora, in presenza della rivoluzione digitale, nella prospettiva dell’economia verde e della tutela integrale dell’ambiente, un partito politico che dia rappresentanza e organizzazione alle lavoratrici e ai lavoratori delXXI secolo, fino a renderli protagonisti e farli assurgere al ruolo di classe dirigente? Questo è il problema, tutto il resto viene dopo. E precisamente a questo problema la sinistra (se esiste) dovrebbe dare risposta, invece di aggrovigliarsi e accapigliarsi senza costrutto in continue manovre politiciste. Lontane mille miglia dal mondo del lavoro e dalla vita reale delle persone, sempre più difficile e travagliata.

Nella cornice della Costituzione, che resta il riferimento decisivo, si potrebbe cominciare promuovendo ampie mobilitazioni con l’obiettivo di dare attuazione alla triade dei diritti fondamentali, indispensabili per la classe lavoratrice e per la vita di ogni persona: il diritto alla salute, il diritto al lavoro, il diritto all’istruzione nel rispetto integrale dell’ambiente. In modo da far maturare nell’esperienza concreta della riconquista dei medesimi diritti una nuova coscienza di classe e politica. In assenza della quale non esiste una reale prospettiva di cambiamento.


1 P. Togliatti, Per la sfiducia al IV governo De Gasperi 26 settembre 1947, in Discorsi parlamentari, Camera dei deputati 1984

2 A. Gramsci, Cinque anni di vita del partito,” L’Unità” 26 febbraio 1926

3 Ivi

4 V, U. Massola, Gli scioperi del ’43, Editori Riuniti Roma 1973

5 G. Bocca, Palmiro Togliatti, Laterza Roma-Bari 1973

6 P. Togliatti, Il leninismo nel pensiero e nell’azione di A. Gramsci, Opere 1956-1964, Editori Riuniti Roma 1984

7 P. Togliatti, La politica nazionale dei comunisti, Opere 1944-55, Editori Riuniti, Roma 1984


* Paolo Ciofi è presidente onorario di Futura Umanità. Politico, saggista, già dirigente del Pci. Il suo sito è www.paolociofi.it.


Foto di Fabior1984 da wikimedia.org

Print Friendly, PDF & Email