Clima e bad practice: il cattivo esempio genovese

Giovanni Ferretti*

La storia recente di quelli che oggi definiamo disastri ecologici ha praticamente censurato la parola “clima”. Prendiamo per esempio le alluvioni: ho limitati ricordi di quelle che hanno colpito il Polesine e Firenze. Si iniziava a dire che l’uomo poteva averle favorite, ma veniva tirata in ballo la sola gestione del territorio (eliminazione delle aree golenali, argini, ecc.). Nessuna parola sul clima: era piovuto tantissimo. Poteva succedere. Era successo. Punto.

Lo stesso dicasi per tutte le ricorrenti alluvioni avvenute a Genova: Fereggiano, Veilino, Chiaravagna sono i nomi di alcuni rivi, ormai conosciuti anche fuori dalle nostre mura, pisciueli, per dirla in dialetto, più che torrenti, tristemente collegati a morti e a devastazioni.

In quella triste classifica, il Bisagno ha assunto rilievo nazionale. Anche qui, sino a ieri, le varie esondazioni sono state sempre – giustamente – collegate alla cementificazione dei versanti e delle golene. Ultimamente si è iniziato a parlare di bombe d’acqua, ma di clima, che è lo stato medio del tempo rilevato in un arco di almeno 30 anni, neppure l’ombra: è rimasto sempre ben nascosto, celato dietro alla criminale gestione di un fragilissimo territorio.

I paraocchi dei legislatori

Sono negli ultimi anni qualche mezzo d’informazione ha iniziato a dar voce agli studiosi del Club di Roma (prima) e dell’IPCC (oggi), organismi che hanno gettato sul piatto della politica l’insostenibilità dell’attuale modello economico. Un clima sempre più monsonico, gli uragani nel Mediterraneo e l’avanzata della desertificazione, paradossalmente congiunti, proiettano molte ombre sulle norme originariamente previste per il contenimento degli effetti di quelli che erano definiti eventi meteorologici estremi; per fare un esempio concreto, basti pensare che, per i corsi d’acqua, le leggi esistenti si prefiggono di preservare la portata delle piene duecentennali. Ma se il clima si altera, e si sta alterando, le piene “storiche” duecentennali rimangono un limite sufficiente?

Questo è solo una delle tante inadeguatezze dell’attuale legislazione: affrontando il problema dal solo punto di vista idraulico, tutta la partita dell’abbandono del nostro entroterra e della conseguente mancata manutenzione dei versanti viene completamente omessa. Succede così che, ancora pochi giorni fa, il 15 novembre, un’intensa pioggia di poche ore provochi frane e allagamenti in Val Bisagno e Val Polcevera. Alle esondazioni del Bisagno e del suo affluente Fereggiano, è stata data una risposta esclusivamente idraulica, risagomando la foce del primo e scolmando entrambi (sta per partire il cantiere per lo scolmatore del Bisagno), ma nessun euro è stato speso ed è previsto per sistemare i versanti. E questi si sono vendicati, riversando l’acqua non assorbita sulle creuze e sulle strade collinari, e da queste al fondovalle. E franando. Case ed attività allagate. Traffico in tilt. Fortunatamente nessuna vittima.

Una resilienza che si ferma alla porta del profitto

A non essere sostenibile è la stessa programmazione urbanistica della città. In Val Polcevera, il quartiere di Teglia va sott’acqua per il semplice motivo che i costruttori di uno dei sei contigui centri commerciali non hanno previsto sufficienti sistemi di imbrigliamento delle acque provenienti dalle colline poste alle sue spalle. Ancora: nella città delle alluvioni, la giunta Bucci, di destra, vuole autorizzare 65 villette, cementificando oltre 10.000 metri quadri di terreno vergine, a Vesima, estremo ponente, poco distante dal porto di Prà-Voltri. Ci vorrà una variante al PUC, un PUC che aveva certificato la fine dell’espansione collinare della città. Il terreno è immediatamente a monte dell’Aurelia, proprio quella strada di costa periodicamente interrotta dalle frane che la investono.

Ad essere terribilmente lontani da ogni ragionamento che abbia riguardo della sostenibilità ambientale sono anche tutti gli ultimi governi, che hanno infatti fatto a gara per avvallare infrastrutture antitetiche agli obiettivi ambientali che essi stessi dicono di voler perseguire. Con conseguenze molto pesanti per il territorio genovese.

Che le infrastrutture liguri siano assolutamente inadeguate agli attuali flussi di traffico, è notizia ben nota. Manutenzioni e Ponte Morandi a parte (ed è tutto dire!), autostrade e ferrovie scontano l’avere a che fare con l’orografia. Proprio in questa regione, più che altrove, la logica e i recenti obiettivi ambientali imporrebbero un ripensamento complessivo della mobilità privata e commerciale. Cosa che, ovviamente, non avviene. Anzi: a livello cittadino, il trasporto pubblico subisce da decenni tagli di orari e percorrenze. Il recentissimo progetto di piano trasportistico urbano è intriso di rotture di carico: tutto per limitare i costi e favorirne la privatizzazione; tutto per invogliare i privati all’uso del mezzo privato. Se poi guardiamo alle ferrovie, la situazione degenera ulteriormente: linee regionali abbandonate e soldi buttati nell’alta velocità, che velocità ne avrà ben poca, dato che da Genova a Milano (Rogoredo) si dovrebbero risparmiare poco più di 10 minuti.

E si sta lavorando a un terzo valico ex novo, da realizzarsi forando monti amiantiferi. Una inutile grande opera, da 100 milioni a km, che farà il paio con la Gronda: altro progetto, questa volta autostradale, che dovrebbe servire a snellire il traffico cittadino est-ovest. Peccato che i tir vadano tutti in direzione sud-nord e che il traffico privato in transito sia trascurabile.

Quale lavoro per quale ambiente

“Siete contro il progresso! Senza queste opere il nostro porto si ingolfa! Ma lo sai oggi Genova e Vado sono a 2,5 milioni di container, ma fra 10 anni saranno a 10 milioni di teus? Vuoi mandarli su strada o su rotaia? E sei tu l’ambientalista? Vuoi togliere lavoro alla città?”

Queste sono le frasi che ci si sentiamo spesso dire. Anche da qualche nostro compagno. È la vetusta contrapposizione tra lavoro e ambiente. Taranto e ILVA di Cornigliano, Iplom, ecc. insegnano.

“E poi? Vuoi che Genova resti esclusa dalle multinazionali dello shipping? No? Allora sposta la diga foranea più al largo, così, tra l’altro, sappiamo dove buttare lo smarino delle gallerie del terzo valico. Arriveranno navi da 400 metri e da 25.000 teus! È il futuro!”

Ma, anche qui, soluzioni trasportistiche a parte (e non è poco!), che renderebbero superflue quelle opere, possiamo non chiederci quale tipo di economia, che prospettive, quali impatti, che società, che ambiente si celino dietro queste visioni? L’immagine di un’economia globalizzata, in costante surplus di merci, che sopravvive esclusivamente se supportata da un gigantesco flusso di prodotti, fa pace, è compatibile con gli obiettivi previsti da COP26?

Multinazionali a parte (e non è poco!), è ragionevole pensare che qualsiasi merce, anche quella dell’economia solidale, debba attraversare oceani e deserti, per essere messa a disposizione di un qualsiasi compratore finale? O, all’opposto, non è ragionevole pensare che per limitare cambiamenti climatici, acidificazione dei mari, desertificazioni, l’unica strada a nostra disposizione sia quella di ripensare completamente i nostri modi di produzione e di consumo?

La nuova diga da 1 miliardo e 300 milioni, il terzo valico, la gronda, cozzano su tante grandi questioni. Qui ne accenno due: il lavoro e “il cane che si morde la coda”.

Per quel che riguarda il lavoro, queste opere, oltre che essere impattanti, starate, illogiche, non creano lavoro; ovviamente daranno occupazione, ma infinitamente meno di quella che sarebbe prodotta destinando le stesse cifre alla vera grande opera necessaria a questa regione: la manutenzione del territorio. Peccato che nessuno possa decidere dove destinare i soldi che si danno disponibili per una determinata area. Non incrementerebbe neppure il lavoro all’interno del porto di Genova: basti guardare il crollo dell’occupazione registrato con il passaggio dalle rinfuse ai container. A terra, navi grandi come 4 campi di calcio porterebbero lo stesso carico di lavoro di 4 navi da 100 metri. E, a bordo, automatizzate come sono, ne darebbero meno.

Soluzionismo: la scelta giusta per il problema sbagliato (anche a Genova)

E qui arriviamo al secondo punto: “il cane che si morde la coda”. In modo più fine, Morozov lo definisce “soluzionismo”: la cieca credenza che la tecnica (nel suo caso, l’informatica) possa trovare non la soluzione a ogni problema, ma il modo per mitigare gli effetti che il problema scarica sui singoli e sulla collettività. C’è chi la chiama “resilienza”. Molto più facile che lavorare per rimuovere i problemi. Le produzioni vengono delocalizzate? Allora serve una trasportistica adeguata. Si può fare. Le multinazionali vogliono megaportacontainer? Si può fare. Il porto di Genova non è in grado di ospitarle? Spostiamo la diga: si può fare. È impossibile far uscire i container da Genova sbattendoli sui tir? Mettiamoli su treni da 600 metri. Si può fare (forse). Servono pendenze percorribili da quei treni? Si può fare. Facciamo il terzo valico. E via dicendo. La soluzione giusta, al problema sbagliato. Ovviamente con i soldi dei cittadini, non certo delle multinazionali.

È per questo che il vertice COP26 è fallito: perché ha (ri)proposto insufficienti e dilazionate soluzioni tradizionali, a problemi sbagliati. Se il pianeta non è in grado di sopportare l’attuale modello di produzione e consumo, è questo che va cambiato. Non farlo si traduce in uno scaricare drammi (vecchi) sulle spalle dei soliti noti. È un discorso pertanto collegato al potere, a chi lo gestisce oggi, a chi lo gestirà domani. I progetti dei notabili genovesi e del governo Draghi spiegano bene in quale direzione questi vogliano andare (restare). Greta Thumberg afferma che “non possiamo risolvere la crisi climatica con gli stessi metodi che l’hanno provocata … e siccome non abbiamo le soluzioni tecnologiche per poterlo fare, dobbiamo cambiare nel profondo la nostra società”. Greta va accostata a Thomas Piketty e al suo “le trasformazioni possono avere successo solo attraverso forti mobilitazioni e lotte per il potere“.

Noi lo diciamo da sempre. Sarà il caso di unire le nostre lotte.


* Giovanni Ferretti, coordinatore Federazione di Genova del Partito della Rifondazione Comunista; nel 2001 era consigliere comunale Prc a Genova e uno dei portavoce locali del Genoa Social Forum.


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