Clima: siamo oltre il punto di non ritorno?

Mario Agostinelli*

L’Antropocene che minaccia la biosfera

Può risultare utile rapportare tempi cosmologici, geologici e antropici a misure note alla nostra quotidianità, al fine di intendere e valutare l’enorme effetto distruttivo dell’Antropocene sulla biosfera. Per provarci, si potrebbe ricordare che Enrico I in Inghilterra fissava la misura di una yarda (circa 0,911 m.) in base alla distanza tra il pollice e la sua punta del naso, con il braccio teso di fronte a sé: ebbene, se la vita sulla Terra fosse rapportata a quella misura, la presenza umana equivarrebbe solo ad una limatina dell’unghia del sovrano.

Ancora, dato che il nostro pianeta ha 4,6 miliardi di anni e l’homo sapiens è comparso circa 200 mila anni fa, se riducessimo questi 4,6 miliardi a 46 anni, sarebbe come se noi umani fossimo apparsi solo 17 ore fa e la rivoluzione industriale fosse iniziata da soli 4 minuti. Eppure, in questo brevissimo tempo, saremmo riusciti a spazzare via più del 50% degli ecosistemi, lasciando intatto solo il 2-3% di quelli originari. E dire che gli umani sono solo lo 0,02% degli esseri viventi sulla Terra, mentre il 90% è costituito da vegetali.

I negazionisti del clima hanno sempre contato sull’evoluzione lenta della rottura delle condizioni di equilibrio del Pianeta, facendo sbiadire in tal modo l’intensità dell’opera distruttiva della crescita artificiale sull’integrità del mondo naturale.

Per secoli non ci si è occupati del clima: d’altra parte, solo nel Settecento venne scoperta la composizione molecolare dell’acqua e solo a fine Ottocento si cominciò a valutare vagamente il ruolo delle molecole climalteranti in atmosfera e, infine, da non molto più di cento anni si è cominciato a descrivere e interpretare sia la natura della radiazione solare, sia la sua interazione con le molecole che venivano eccitate in atmosfera attraverso fotoni di diverso colore irraggiati dalla nostra stella. Sono proprio la fisica quantistica e la termodinamica dei sistemi non lineari ad aver fatto luce sull’irreversibilità degli effetti delle combustioni in atmosfera, sulla fragilità dell’ordine che organizza la vita e la riproduzione, sull’aumento di temperatura, di disordine e di energia interna provocate dalla non chiusura dei cicli naturali di acqua, aria, terra, energia. E mentre Marx ed Engels descrivevano la riduzione di “natura amica” a seguito dell’inquinamento provocato dall’industrializzazione nelle valli di Wuppertal o lungo il Tamigi, la crescita ingoiava e depredava tutto quanto la natura avrebbe potuto riprodurre con i suoi tempi, sempre più slegati da quelli delle apparecchiature e delle macchine meccaniche, successivamente elettriche, analogiche e poi digitali.

Fino praticamente a pochi decenni fa la scienza – tranne rare eccezioni – destinava la sua “potenza” alla diffusione e al controllo dei circuiti elettrici, all’affinamento del rendimento dei motori, all’accelerazione e all’automatismo delle operazioni, alla incessante creazione di nuovi materiali, al progredire della cura delle malattie. Senza, tuttavia, sguardo alcuno ai meccanismi regolativi del clima terrestre, che, per l’inerzia dovuta alla loro complessità e alla loro naturale disponibilità alla resilienza, hanno tardato a mostrare i sintomi di saturazione che si manifestano oggi con effetti bruschi e sempre più catastrofici. Ormai siamo entrati in un “tempo che viene a mancare” e lo si denota non solo negli eventi presenti, quanto nelle previsioni: tanto più allarmanti, quanto risultano più affidabili e precise.

Se il tempo viene a mancare

Basti ricordare che, nel dibattito a latere della Cop 26 di Glasgow, un team di scienziati e artisti (v. Carolyn Gramling/sciencenews.org) ha offerto una finestra inquietante su come il cambiamento climatico in corso potrebbe trasformare il terreno familiare della nostra quotidianità in una serie di paesaggi alieni nei prossimi secoli. Non ci si limita più, quindi, all’affanno di arrivare in emergenza al 2100 con drastiche misure di contenimento, ma ci si spinge ad una proiezione al 2500. Ne esce una rappresentazione purtroppo assai pessimista, perfino se si dovesse mantenere lo scenario di minime emissioni indicate – senza cogenza alcuna – nella Cop 26. Infatti, la persistenza in atmosfera dei gasclimalteranti già oggi presenti e gli effetti esponenziali dovuti agli scioglimenti progressivi di ghiacci e permafrost, nonché la reticenza politica nell’adottare misure di totale abbandono dei fossili, dà origine a tre possibili traiettorie climatiche, tutte inquietanti: sia nel caso di emissioni basse (come non riusciamo nemmeno lontanamente a concordare ad oggi); che ancor più nel caso di emissioni moderate (come deriverebbero dal limite di 1,5°C assunto sulla carta a Glasgow); che, ovviamente, a fronte di alti flussi come gli attuali (business as usual). In ogni caso – e ciò non può che risultare angoscioso – le temperature salirebbero tra i 2,7 °C minimo e i 4,6 °C massimo entro il 2500.

Ciò si tradurrebbe in una “grande ristrutturazione dei biomi del mondo: perdita della maggior parte della foresta pluviale amazzonica, sparizione totale dei ghiacci al polo, cambiamenti nelle colture e temperature invivibili ai tropici e nell’area mediterranea. Gli oceani salirebbero al punto da sommergere tutte le città storiche dei nostri mari e la desertificazione coprirebbe quasi 2/3 dei territori asciutti, nei quali si dovrebbe fare affidamento su dispositivi di cattura dell’acqua a grandi profondità per irrigare e compensare il caldo estivo estremo”. Volutamente, il team di scienziati e artisti che ha dato raffigurazione agli scenari di metà millennio esibendo pannelli corredati da dati minuziosi, ha smesso di provare a speculare sulle tecnologie da fumetto o sulle città future descritte dai film, su droni, su tute termiche e calotte di plastica trasparenti, per mettere in aspra evidenza paesaggi basati più sul realismo che sulla fantascienza, più sulla natura, che sull’adattamento supponente di una specie tecnologicamente resiliente. L’obiettivo che queste immagini si propongono è quello di aiutare le persone a visualizzare il futuro in modo tale che sembri più urgente, reale e vicino e, forse, offrire un po’ di speranza nel cambiamento radicale dovuto ai più drastici provvedimenti da attuare. Ritengo che l’ecologia integrale espressa dalla “Laudato Sì” sia il concetto più in sintonia con queste proiezioni. Spostandoci a metà del millennio in corso, si percepisce come sarebbe tragico se il futuro si riducesse a un numero di generazioni pari alle dita di una mano. La fine della storia va corretta adesso e un compito così esaustivo non può che affrontare contemporaneamente l’ingiustizia sociale che ovunque si è fatta più acuta e feroce.

Quando riflettiamo sulla memoria storica della nostra civiltà prendiamo in considerazione qualche centinaia di generazioni (dalle testimonianze greche indiane o cinesi). Potremmo forse rassegnarci a ridurre solo ad un pugno di procreazioni successive la presenza del genere umano sulla terra, dopo aver avallato scelte sconsiderate e dopo avere accumulato conoscenze sufficienti per operare per la sua sopravvivenza? La vita delle persone sta cambiando non a causa di un “generico” e ineluttabile riscaldamento, ma, soprattutto, in funzione delle nuove tecnologie della produzione industriale, dei trasporti, delle telecomunicazioni, dello sviluppo economico, delle guerre, e, sull’altro versante, degli insufficienti progressi della sanità pubblica e della medicina.

Un falso progresso ha soppiantato la cura con esiti non più sopportabili per l’intera società.

Solitamente, quando si tratta di crisi climatica, ci si rifà quasi esclusivamente alla questione energetica. Ma, così facendo, siamo ancora in una dimensione prevalentemente antropocentrica. Occorre riprendere daccapo, presentando il ciclo dell’acqua, aspetto essenziale del clima, e considerare quelle che vengono denominate, benché in maniera semplificata, le sue “retroazioni”. È poi necessario osservare che il sistema climatico possiede una propria variabilità interna, indipendente dalle cause forzanti esterne. Tale variabilità deriva in gran parte da congiunzioni imperfette e non sincrone tra l’atmosfera e le altre componenti del sistema climatico, soprattutto l’idrosfera (gli oceani e le altre masse liquide composte d’acqua) e la criosfera (nevi e ghiacci), nonché dalla ripartizione asimmetrica dei continenti su un pianeta che non è illuminato dal Sole in maniera uniforme. L’acqua, in definitiva, continua ad essere l’elemento sottostimato della crisi attuale, al punto che il capitale ne vuole espugnare il diritto universale, privatizzandola e addirittura quotandola in borsa.

Un pianeta esausto alla fine della crescita

La macchina – la forma e la funzione reale – del capitalismo del ventunesimo secolo è un circuito estrattivo che attraversa letteralmente il mondo. Le sue catene globali del valore si estendono attraverso infrastrutture fisiche e flussi finanziari “senza attrito” alla velocità consentita dai combustibili fossili; dalle telecomunicazioni a velocità della luce; adottando “ottimizzazioni” geofisiche, psicosociali e fisiche. Collega le comunità agricole diseredate economicamente ed ecologicamente nel Sud del mondo con i regimi di iperlavoro nel Nord del mondo; “zone di sacrificio” di terre rare con i rifugiati; lavoro migrante con riproduzione sociale; l’acidificazione degli oceani e il carbonio atmosferico con opportunità redditizie.

Il circuito estrattivo è la plumbea realtà di una nicchia ecologica umana globale organizzata per la massima redditività, non importa quanto sia difficile o costosa da mantenere.

Il circuito estrattivo è storicamente il ritratto socioecologico del capitalismo e delle sue trasformazioni per mantenere la redditività di fronte a venti contrari immanenti, come la lunga recessione economica e gli stessi limiti ecologici. Dobbiamo saper “disimballare” il circuito estrattivo, catalogare le sue parti e fare leva su alcune cornici, come le migrazioni, se vogliamo vedere il capitalismo realmente esistente oggi. Il “capitale umano” viene naturalizzato il più vicino possibile ai supposti infiniti “doni della natura” gratuiti: l’ottantatré per cento delle emissioni avviene nel punto di produzione, con estrazione di minerali rari, accaparramento di fossili, spreco ed inquinamento di acqua e perdita di foreste e biodiversità dovuta all’uso del suolo. Il lavoro in tali luoghi estrattivi è, quasi senza eccezioni, lavoro in schiavitù, lavoro minorile o entrambi. Il capitale deve continuare a bruciare una parte maggiore della biosfera e dei sistemi umani al suo interno per mantenere i margini di profitto.

Potremmo dire che ad ogni estrazione del valore cedono i diritti sociali, viene esaurita e depredata la natura, viene devastato il clima. Il capitale trae quindi profitto dallo scavo e dal drenaggio delle miniere, dall’esaurimento dell’acqua dolce, dalle emissioni, dalla tensione sociale e dalla disperazione.

Tra tutti i fattori citati è ancora scarsa la conoscenza puntuale del meccanismo di impatto dell’opera di estrazione e della combustione dei fossili sull’aumento di temperatura del Pianeta: su questa annotazione mi avvio alle conclusioni.

Educazione contro l’indifferenza

C’è una responsabilità anche della scuola in tutti i suoi ordini se il clima e l’ingiustizia sociale non sono percepiti come una catastrofe in atto, dal momento che l’andamento irreversibile del Pianeta verso un livello di energia interna insostenibile per la vita non entra nel bagaglio di conoscenze “strutturate” che sono impartite normalmente in ogni ordine degli studi. Percepiamo ancora l’universo in termini deterministici, come se non fosse interconnesso in tutti i suoi elementi – dal più microscopico al più esteso – e non fosse scosso da continue “cosmogenesi”, che possono portare a stati di equilibrio locale in cui la vita scompare o non è mai stata possibile (potrebbe essere – come accennato sopra – il caso del Pianeta Terra oltre il 2100).

Si può invece partire e imparare da fenomeni che sono da sempre alla portata dell’osservazione e del sentire comune, come la colorazione del cielo e il contenuto di calore dell’atmosfera e della superficie terrestre, per risalire dai dati di esperienza e memoria di ogni vivente ad un numero piccolo di eventi elementari, che combinandosi in modi diversi nell’ecosfera e, in particolare, nella sottile pellicola di gas dell’atmosfera, rendono unica e abitabile la Terra. Quando i raggi del Sole irradiano la materia possono perdere alcuni dei sette colori trasportati e la luce che sortirà ai nostri occhi sarà privata dei corrispettivi componenti assorbiti. La radiazione elettromagnetica dello spettro solare si suddivide in “pacchetti” di energia con lunghezze d’onda che stanno nel visibile, ma con una “testa” nell’ultravioletto e una “coda” nell’infrarosso. Quando la radiazione incontra la materia, scambia con essa quanti di energia (fotoni) di una lunghezza d’onda particolare, caratteristica del meccanismo con cui le differenti molecole irradiate vengono eccitate. Sono proprio molecole di gas eccitate che in atmosfera sottraggono allo spettro solare specifiche lunghezze d’onda che provocano il mutamento della colorazione del cielo e del tramonto percepita dai nostri occhi.

Per arrivare all’effetto serra basta compiere un passo in più. La radiazione solare, responsabile dei colori in cielo, regola, giorno dopo giorno, anche la temperatura dell’intero Pianeta. Dal complesso atterrare dei raggi solari sul Pianeta, dal loro ripartire e dalla loro interazione con la materia interposta, viene regolato il sistema climatico terrestre, della cui temperatura beneficia la riproduzione del vivente. In buona sostanza, quando Il Sole manda energia radiante sulla Terra, le molecole più grandi e complesse che compongono l’atmosfera – vapore acqueo, anidride carbonica e metano – assorbono in bande ristrette fotoni infrarossi, che le fanno vibrare o ruotare attorno ai legami che uniscono gli atomi, senza però spezzarle.

Qualche tempo dopo, le molecole “eccitate” si “rilassano” trasferendo l’energia extra ad altre molecole e aggiungendo velocità al movimento di quest’ultime. Poiché la temperatura di un gas è una misura della velocità delle sue molecole, il movimento più rapido risultante dopo gli assorbimenti dei fotoni infrarossi si traduce in calore. Senza la contabilizzazione del “rimbalzo” qui descritto, registreremmo una temperatura media della Terra di -15°C. L’intrappolamento in atmosfera di 300-350 ppm di CO2 innalza abbastanza la temperatura da rendere possibile l’evoluzione della vita e i passaggi di fase dell’acqua da ghiaccio fino a vapore. Abbiamo così scoperto che è un meccanismo analogo a quello che ci stupisce quando osserviamo il variare dei colori in cielo, che funziona per produrre l’effetto serra.

Ma mentre per i colori del cielo l’attività umana è praticamente indifferente, l’emissione di un eccesso di gas climalteranti di origine antropica fa crescere la temperatura del pianeta e la nostra esperienza ci dice che anche poche tacche di febbre misurata su di noi o su qualunque altro vivente hanno effetti che condizionano la salute e, oltre un certo grado, la stessa sopravvivenza.


* Mario Agostinelli è presidente di Energiafelice e vicepresidente dell’Associazione Laudato Sì – un’alleanza per il clima, la Terra e la giustizia sociale.


Foto di Mænsard vokser da wikimedia.org

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