Comunismo come critica dell’esistente

Imma Barbarossa*

Sono passati cinquant’anni dalla promulgazione della legge sul divorzio, e non posso fare a meno di ricordare quanta fatica noi donne della “commissione femminile del PCI” dovemmo affrontare per convincere il Partito (con la lettera maiuscola) che non si trattava di una “legge borghese” di cui le proletarie non avevano alcun bisogno, né di una generica legge di “civiltà” secondo l’opinione liberal, ma di un provvedimento che liberava le donne (e gli uomini) da una concezione del matrimonio inteso come destino o come catena.

Ebbene, se il comunismo è nato nel cuore del capitalismo industriale, come teoria e pratica della classe operaia dell’Europa occidentale, è altrettanto vero che si diffuse a Est e nei luoghi oppressi dal colonialismo. E ha avuto sempre le caratteristiche di una rivoluzione, che in primo luogo si poneva l’obiettivo di cambiare il presente stato di cose. Non di emendarlo, ma di cambiarlo radicalmente.

A questo proposito, mi piace sempre citare una frase del vescovo brasiliano mons. Hamara: “Se do da mangiare ai poveri, mi chiamano santo; se chiedo perché i poveri hanno fame, mi dicono che sono comunista”. Appunto: come dico spesso ai miei amici comboniani, i comunisti si chiedono sempre perché esistono i poveri. Ma andiamo con ordine.

Il comunismo era riformabile?

È noto che all’interno del Partito Comunista Italiano era cresciuto un movimento fortemente critico nei confronti del comunismo del “paese guida”, l’URSS, già fin dalla nota lettera di Gramsci del 1926 “ai compagni del Comitato centrale dell’URSS”, e man mano contro le caratteristiche stataliste e sviluppiste del PCUS, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, con lo stalinismo e la costruzione del muro di Berlino. Da Budapest a Praga.

Il notissimo Cassandra di Christa Wolf allontana la lucida e spietata rappresentazione del regime della DDR nel mito della guerra di Troia, città pacifica aggredita dai guerrafondai ‘occidentali’ Achei. Troia, per ‘difendersi’, si omologa al violento Occidente in una sorta di nazionalismo identitario e repressivo del dissenso. E la caduta del Muro viene letta in Occidente come il trionfo della libertà, una libertà intesa come ‘libera’ espansione del capitalismo e del liberismo.

In Italia, l’esito più drammatico fu la scomparsa del più grande partito comunista dell’Occidente: il dibattito fu lungo, doloroso, drammatico, appunto. Il trenta per cento del partito, da anni fortemente critico nei confronti del comunismo sovietico, riteneva che il comunismo fosse riformabile, e, anzi, che si potesse e dovesse procedere a una vera e propria rifondazione teorica e politica. Ripartendo, ad esempio, da Gramsci e dai Quaderni del carcere.

Ma non solo. Ripartendo anche dalle critiche radicali che il movimento e la riflessione delle donne, sul piano teorico e pratico, avevano sviluppato sin dagli anni Settanta. In Italia e non solo. E su questo voglio soffermarmi, giacché dalla fine del PCI nacque una formazione politica, Rifondazione comunista, che programmaticamente da quelle critiche, anche, intendeva partire, piuttosto che da un intento nostalgico, identitario, tutto sommato difensivo.

Una rifondazione, non una revisione

Le revisioni non mancarono, e riguardarono dirigenti e militanti per i quali si trattò di un vero e proprio abbandono, e, persino, di un modo per essere accettati nei salotti buoni del capitalismo imperante e della intellettualità liberal occidentale, fino all’ultimo, recente episodio del documento che equipara nazismo e comunismo, approvato al Parlamento europeo e votato anche dai cosiddetti ‘eredi’ di quel Partito Comunista Italiano alle cui fonti alcuni di loro si erano abbeverati.

Critica del patriarcato

Un punto importante di cui, secondo me, avrebbe bisogno la rifondazione comunista è la critica (e la lotta) al patriarcato. Giacché la tradizione comunista è anch’essa una tradizione maschile e, per certi versi, maschilista.

Il tentativo di alcune femministe nel PRC, riunite prima nei “luoghi di donne” bocciati nel primo congresso, e poi nel parzialmente più ‘moderato’ forum delle donne, non fu quello di costruire la “sezione femminile” del nuovo partito, ma quello di destrutturare l’idea del genere maschile come “assoluto”, di agire il conflitto di genere a tutti i livelli costruendo il nesso tra comunismo e femminismo, nesso che non si presenta come “accostamento” pacifico, ma che, appunto, ha bisogno di un percorso conflittuale.

Conflitto però (non guerra) con la politica maschile, anche quella che si presenta e si vuole antagonista. Ci siamo mai chiesti come mai il proletario maschio, che avrebbe dovuto, liberando se stesso, liberare l’umanità, non si è mai accorto di quella “doppia oppressione” della sua compagna di vita, di lotta, di oppressione? In un convegno promosso dal Forum delle donne a Perugia1, Maria Grazia Campari, per decenni avvocata milanese del lavoro e femminista storica, ci ha ricordato che nel 1989 a Pomigliano d’Arco, durante una trattativa sindacale in Fiat, il sindacato ottenne contratti di formazione lavoro per 350 dipendenti. Ebbene, il 60% dei dipendenti erano donne, ma i destinatari dei contratti furono 350 uomini. 100 donne ricorsero al pretore del lavoro, che diede loro ragione sul fatto di essere state discriminate, e ci fu una correzione: 336 uomini e 14 donne!

Qui gioca la concezione familistica di cui, da sempre, è stato impregnato il proletariato, il soggetto della classe.

Carla Lonzi, nel suo Sputiamo su Hegel, scrive che i comunisti sono stati rivoluzionari sul piano sociale e riformisti sul piano delle relazioni tra i sessi. Citerei a questo punto Engels, cui pure dobbiamo tante coraggiose osservazioni sulla subordinazione sociale femminile (L’origine della famiglia, della proprietà e dello Stato), il quale tuttavia, in La situazione della classe operaia in Inghilterra (1845), considera il lavoro delle donne come una conseguenza negativa della nascita (e diffusione) dell’industria capitalistica: non “quel” lavoro, ma “il” lavoro2.

Engels delinea qui il ruolo della donna nella famiglia, il compito della riproduzione della specie e della riproduzione sociale, compito di sostanziale conservazione; e, d’altronde, la riproduzione e la cura sono state considerate secondarie da un punto di vista dello “sviluppo sociale” e della produzione. La visione della relazione tra i sessi è quanto mai tradizionale e destinata a durare anche nella storia politica del movimento operaio.

Quante volte abbiamo letto di operai licenziati o cassintegrati che perdono la loro identità, che si vergognano “socialmente” di stare in casa (ricordiamo il film inglese Full Monty), mentre la donna licenziata si dedica ‘naturalmente’ di più a figli e genitori, va al mercato e, in tal modo, risparmia sulla spesa e sul compenso della babysitter?

La rivoluzione degli uomini non comprende le donne

Ne deduciamo che la rivoluzione degli uomini non comprende le donne, in quanto il patriarcato è una forma storica, sociale, simbolica, la cui egemonia è molto più antica di quella del capitalismo.

Se dovessi citare delle origini, citerei la nascita del patriarcato, per quanto riguarda il mondo giudaico-cristiano, nel Libro della Genesi (la creazione di Eva dopo quella di Adamo), e la codificazione simbolica nel Simposio di Platone.

Qui Diotima, pur citata da Socrate come sua maestra nella definizione dell’eros, inquanto donna non può partecipare al simposio in cui si definisce cos’è amore, parla per bocca di Socrate e decreta lei stessa la superiorità dell’eros tra uomini e la riduzione del sapere femminile alla riproduzione della specie.

Ecco perché la liberazione delle donne non è compresa nelle rivoluzioni cosiddette generali, che sono state tutte rivoluzioni maschili. E per questo, non si tratta per le donne di entrare come ospiti nei simposi o nelle cittadelle maschili, ma di combattere un ordine materiale e simbolico, il patriarcato, che tende a stabilire una divisione di ruoli (pubblico/privato, storia/natura), e a esercitare il potere sulle donne, spesso inducendole alla complicità.

Marx ci ha insegnato a destrutturare l’assoluto capitalistico, ma non poteva leggere e combattere l’assoluto maschile, sicché le donne, anche nella tradizione comunista, sono state annesse alla rivoluzione maschile, considerate tutt’al più come questione sociale.

Dopo la nascita del grande movimento conflittuale intersezionale e transfemminista “Non Una di meno”, oggi più che mai il conflitto di genere, che va agito certo dalle compagne, non può non mettere in crisi l’autosufficienza maschile. Io sono convinta che, oggi più che mai, di fronte all’imperversare del connubio tra neoliberismo e populismo, ci sia bisogno di un movimento comunista internazionale e transnazionale che parta dalla critica del rapporto tra genere umano e natura contro lo sviluppismo forsennato del capitalismo senza frontiere, ma anche attraverso un percorso femminista autonomo che superi in maniera definitiva la resistente disponibilità femminile a farsi sussumere e cooptare dal maschile nella stessa cittadella e con gli stessi schemi.

Occorre quasi una sorta di “estraneità” critica che costruisca il nesso tra condizione e coscienza, anche conflittuale nei confronti del genere maschile, che storicamente si è costituito come potere di esclusione e di sopraffazione.

Penso che il compito delle attuali comuniste e degli attuali comunisti possa e debba essere il darsi questo obiettivo faticoso, inevitabilmente conflittuale, ma che può aiutare il genere maschile a liberarsi dalla cappa corruttiva del patriarcato.

P.S. Il 7 dicembre è morta Lidia Menapace. Femminista, pacifista, comunista. Tre aggettivi non accostabili in maniera automatica. Ma lei li viveva insieme. Da partigiana, era di parte. Aveva scelto. E non aveva cambiato.


Note

1 Si tratta del convegno Donne sull’orlo di una crisi… che non vogliamo pagare, Perugia, 16 gennaio 2009.

2 F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, trad. it. R. Panzieri, Roma, Rinascita, 1955, pp.166-167.


* Imma Barbarossa, già deputata del PCI, ha partecipato alla nascita di Rifondazione comunista; ha seguito il percorso dei Forum mondiali e delle “Donne in nero” in Palestina e nella ex Jugoslavia. Attualmente fa parte del movimento femminista “Non Una di Meno”


Foto di Leonhard Lenz, wikimedia.org
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