Contrastare il genocidio di fronte alla Corte penale internazionale

Fabio Marcelli*

Da tempo la riflessione dei giuristi internazionali ha correttamente identificato nella persistenza dell’impunità il principale fattore negativo in materia di rispetto dei diritti umani. Che credibilità può pretendere un ordinamento che non riesce né a ottenere l’adempimento dei propri imperativi giuridici, né a punire in modo e tempi adeguati coloro che si rendono colpevoli dei peggiori crimini? Nessuna ovviamente.

La questione si pone con particolare urgenza in riferimento al massacro, per molti aspetti senza precedenti, in corso a Gaza e in Palestina. I morti accertati sono finora oltre 13.000, ma purtroppo tale cifra continua a salire e almeno 5.000 fra di essi sono bambine e bambini.

Di fronte a questo scempio impunito e che nessuno riesce a fermare, centinaia di avvocate e avvocati hanno deciso di ricorrere alla Corte penale internazionale. Tale Corte è stata infatti istituita proprio per far fronte a evenienze di questo tipo e tuttavia il suo bilancio è stato finora alquanto deludente. 

Il caso aperto da oltre due anni proprio sui crimini israeliani in Palestina non ha visto finora alcuno sviluppo significativo. La Corte si è finora caratterizzata più che altro come Tribunale penale nei confronti di qualche pressoché sconosciuto signore della guerra o governante più o meno decaduto dell’Africa nera, e ha avuto un guizzo di vitalità solo quando il suo attuale Procuratore generale, suddito britannico, ha deciso di emettere un mandato di cattura nei confronti di Putin per una presunta deportazione di bambini ucraini, facendo insorgere in molti il sospetto di una sua aprioristica ottemperanza a ordini di scuderia di stampo NATO.

Conseguenza di tale deludente bilancio è stato qualche anno fa l’annuncio che il Sudafrica, giustamente indispettito per un certo andazzo neocoloniale della Corte, avesse deciso di ritirarsi dalla stessa. Ma ora, per effetto dell’ondata di sdegno che ha percorso l’intero pianeta di fronte ai crimini del governo israeliano, è stato lo stesso Sudafrica a dichiarare che avrebbe introdotto un’azione penale presso la stessa Corte contro Netanyahu e i suoi accoliti. Né sono mancati altri annunci in questo senso, da parte perfino del governo belga e di quello turco.

Si tratta, per alcuni versi, di una sorta di ultima spiaggia per la Corte. Se non riuscissero ad operare in modo sollecito e dignitoso di fronte a questi orrendi crimini, il Procuratore Khan e i giudici della Corte decreterebbero in modo evidente ed inoppugnabile il proprio suicidio istituzionale, dimostrando urbi et orbi la propria devastante ed assoluta inutilità.

Eppure, proprio il fatto che orrendi crimini di questo genere siano commessi con assoluta sfacciataggine ed indegna arroganza dimostra l’esigenza di un organismo di questo tipo. Molti ne hanno decantato le lodi prima ancora che cominciasse in qualche modo ad operare, venendo poi brutalmente smentiti dai fatti, altri, tra cui il sottoscritto, hanno sempre mantenuto un atteggiamento fortemente critico, non tralasciando però di tentare di ricorrere alla Corte in talune circostanze. Ricordo che il Centro di ricerca ed elaborazione per la democrazia, insieme alla Commissione cilena dei diritti umani, all’Associazione americana dei giuristi e al Centro diretto dal giudice spagnolo Balthazar Garzon era ricorsa alla Corte circa tre anni fa per denunciare i crimini commessi dal governo cileno di Piñera nella repressione del cosiddetto “estallido social”. 

LA NOSTRA DENUNCIA

I fatti orrendi cui stiamo assistendo in questi giorni a Gaza e in Palestina sono incomparabilmente più gravi. Assistiamo impotenti e sconvolti a un massacro senza fine che va avanti ormai da quasi due mesi e miete le sue vittime soprattutto fra i civili palestinesi indifesi, specie donne e bambini. Israele colpisce senza vergogna e senza ritegno gli ospedali, le scuole, le chiese, i campi profughi, le case private, violando ogni più elementare norma del diritto umanitario bellico che ha al suo centro come concetto fondamentale quello di “obiettivo militare legittimo”.  Il governo di Netanyahu ha trasformato i bambini e le bambine di Gaza in obiettivi militari legittimi. E lo ha fatto in modo consapevole, rivendicando apertamente la sua necessità di punire tutta la popolazione di Gaza in quanto corresponsabile dell’attacco del 7 ottobre. Da questo punto di vista sono state le chiare le parole del presidente israeliano Herzog, che costituisce la massima autorità istituzionale del Paese, quando ha sostenuto che “La responsabilità è di un’intera nazione. Non è vera la retorica secondo cui i civili non sarebbero consapevoli, non sarebbero coinvolti. Non è assolutamente vero”. Con sconcertante chiarezza Herzog ha enunciato così le basi ideologiche e politiche del genocidio in atto. Perché di genocidio si tratta, a partire dalla definizione contenuta nell’art. II della relativa Convenzione approvata nel 1948 nel quadro delle Nazioni Unite: “Ai fini del presente Statuto, per reato di genocidio si intende uno qualsiasi dei seguenti atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale: 

(a) omicidio di membri del gruppo;  

(b) gravi danni fisici o mentali ai membri del gruppo;  

c) assoggettamento intenzionale del gruppo a condizioni di vita che devono causarne la distruzione fisica in tutto o in parte. […]”.

Tutte e tre queste ipotesi ricorrono manifestamente a Gaza e Palestina in questi giorni tremendi. Né devono sussistere requisiti di ordine quantitativo perché si abbia genocidio, se è vero che la fattispecie è stata ravvisata a proposito dell’eccidio di Srebrenica, dove si ebbe un numero di vittime molto minore a quello avutosi, finora, a Gaza e in Palestina.

Tutte le dichiarazioni dei responsabili politici e militari israeliani trasudano d’altronde un’oscena voglia di farla finita coi Palestinesi, che essi riducono al rango di “animali”. Processo di disumanizzazione che costituisce la premessa necessaria per lo sterminio di intere popolazioni, come successe per gli Ebrei ai tempi dell’Olocausto. La denuncia che abbiamo sottoscritto, e che è stata presentata il 9 novembre al Procuratore presso la Corte penale internazionale, è imperniata su tale fattispecie ma ne indica anche altre ad essa collegate e in particolare quelle di Deportazione o trasferimento forzato di popolazioni, Persecuzione, Omicidio intenzionale, Attacco contro i civili , Attacco contro il personale o i beni impiegati in una missione di aiuto umanitario.

La denuncia peraltro chiede chiarezza sugli eventi del 7 ottobre, molti aspetti dei quali sono tuttora avvolti nell’ombra. Non si conosce ancora il numero esatto delle vittime civili, né si sa quante di queste vittime siano state causate in realtà dalla reazione israeliana che ha applicato il Protocollo Hannibal, che prevede l’uccisione degli ostaggi insieme ai sequestratori. Per non parlare della strana impreparazione delle Forze armate e dell’ordine israeliane di fronte all’attacco.

Su questi ed altri aspetti occorre fare chiarezza , ma, come avverte opportunamente la denuncia, nessuna affidabilità può essere riconosciuta al sistema giudiziario israeliano, assolutamente assoggettato a una logica neocoloniale e di appoggio all’occupazione militare illegittima dei territori palestinesi, colla sua inevitabile sequela di crimini ed atrocità. E tanto più ora che Netanyahu è riuscito a spazzarne via anche l’ultima parvenza di indipendenza e imparzialità.

Dovrebbe essere quindi la Corte penale internazionale a indagare anche sui fatti del 7 ottobre, ma occorrerebbe a tale fine un’accettazione della sua giurisdizione da parte israeliana, il che appare allo stato alquanto improbabile. Comunque la denuncia dice chiaramente che il diritto alla lotta armata contro l’occupazione, conferito dal diritto internazionale, si accompagna al necessario rispetto delle norme del diritto internazionale umanitario manifestamente violato dalle milizie palestinesi colla cattura degli ostaggi e le indiscriminate uccisioni di civili che si sono registrate in tale occasione.

Un altro aspetto solo accennato nella denuncia è quello delle complicità di altri governi nel genocidio in atto. Tutti i governi hanno infatti, ai sensi della citata Convenzione del 1948, l’obbligo non solo di astenersi dall’appoggio ai genocidi, ma anche quello di prevenire il genocidio. Ed è ovviamente chiaro come tali obblighi siano stati disattesi da governi che, come quelli occidentali, continuano a prestare il loro appoggio politico, economico e militare al governo genocida di Netanyahu. Appositi ricorsi sono stati introdotti a tale riguardo nei confronti dell’Amministrazione Biden di fronte a tribunali statunitensi ed occorrerà studiare la possibilità di farne analoghi anche in Italia ed in altri Paesi europei.

Sulla Palestina e su Gaza si gioca oggi l’avvenire dell’intera comunità internazionale. Se il genocidio non verrà bloccato e adeguatamente punito andranno in fumo tutti i possibili presidii normativi e istituzionali esistenti, fra i quali appunto la stessa Core penale internazionale. Per tale motivo va giudicata molto positiva la reazione di centinaia di avvocati di molti Paesi (Palestina soprattutto, poi Francia, Turchia, Algeria, Marocco, Tunisia) che hanno sottoscritto la denuncia. Un elemento non trascurabile di un più generale movimento popolare e di massa che si oppone oggi a un potere tirannico e fondato sull’oppressione che vorrebbe oggi annientare un popolo intero, gettando al tempo stesso le basi di un futuro dispotico, che faccia dell’apartheid planetario e dello sterminio di deboli e indifesi la propria legge disumana. Questa è la posta in gioco e per tale motivo occorre oggi mobilitarsi senza sosta a fianco del popolo palestinese, per la sua vita e la sua autodeterminazione, anche colla denuncia, il cui testo integrale, tradotto in italiano, potete trovare su www.credgigi.it , e cui potete aderire inviando una mail a ricercademocrazia@gmail.com indicando per avvocate e avvocati il Foro di appartenenza, per gli altri la professione esercitata e, per gli organismi collettivi, il luogo di sede.


* Fabio Marcelli è copresidente del Centro di ricerca ed elaborazione per la democrazia (CRED)

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