Contro la guerra e l’economia di guerra: sciopero generale!

Peppe D’Alesio*

Lo scorso 13 luglio, nel pressoché totale silenzio dei media ufficiali, il parlamento europeo ha approvato con voto quasi unanime il regolamento ASAP (“Atto di supporto alla produzione di munizioni”), il quale recepisce la proposta della Commissione UE di stanziare 500 milioni di euro al fine di aumentare la produzione di proiettili di artiglieria, munizioni terra-terra e missili al fine di sostenere attivamente lo sforzo bellico del governo di Kiev nella guerra in corso con la Russia di Putin.

Alcuni elementi peculiari del suddetto regolamento ne chiariscono la rilevanza “strategica” sia nel breve che nel medio-lungo periodo.

La politica bellicista dell’Unione europea 

In primo luogo, si tratta di un piano articolato “a tre vie”: a) trasferimento immediato delle proprie scorte di munizioni all’Ucraina; b) acquisto di un milione di nuove munizioni; c) aumento della capacità produttiva dell’industria europea di difesa. Tale atto viene adottato tramite la c.d. “procedura d’urgenza” ai sensi dell’art.163 del regolamento del parlamento europeo, il quale garantisce l’approvazione in tempi rapidi di una proposta della commissione senza dibattito parlamentare.

Nel merito, l’ASAP prevede la possibilità da parte dei governi degli stati membri di dirottare persino i fondi del Recovery Plan (noto in Italia come PNRR, che nelle enunciazioni dell’allora del governo Draghi sarebbe dovuto servire per contrastare l’impatto economico e sociale della pandemia) al fine di sostenere la  produzione bellica;

In ultimo, si tratta di una misura che, nel predisporre forme di finanziamento diretto all’ industria di armamenti (settore dominato da un pugno di multinazionali affiancate da oltre 2000 piccole e medie imprese) smentisce clamorosamente sia la retorica dei “padri fondatori” su un Unione Europea “costituzionalmente” votata alla pace, sia il dogma del divieto di aiuti di stato nell’industria, per decenni considerati dalla Commissione e dalla BCE come un pericoloso e nocivo fattore di “distorsione della concorrenza” nei numerosi casi di crisi industriale.

E’ evidente come quest’atto segni un vero e proprio salto di qualità nella tendenza sempre più apertamente militarista e interventista degli stati UE nel conflitto in Ucraina: tanto più se si tiene conto che esso va ad inserirsi in un contesto caratterizzato da un aumento costante e senza limiti delle spese militari nell’ultimo decennio soprattutto nei paesi NATO e che nei propositi della Commissione europea viene dichiarato apertamente che la corsa al riarmo non è un obbiettivo dettato soltanto della guerra in Ucraina, quanto di un vero e proprio “piano strategico” per gli anni e i decenni a venire.

Un’economia di guerra

Ci troviamo, dunque, già immersi fino al collo in un’economia di guerra, frutto dell’inasprirsi delle tensioni inter-capitaliste ed inter-imperialiste ai quattro angoli della terra: da ciò ne consegue che ogni ipotesi di rilancio delle lotte e delle mobilitazioni contro il carovita, i salari da fame e le politiche di macelleria sociale del governo Meloni non possano e non debbano in alcun modo prescindere ne  essere slegate dall’opposizione alla guerra e dal lavoro di denuncia dell’impatto sociale e dei potenziali effetti catastrofici prodotti dalla corsa al riarmo globale.

L’operato di un anno di governo delle destre in Italia, per quanto differisca ben poco dal suo predecessore Mario Draghi e dai suoi attuali omologhi liberal-democratici nel resto d’Europa, è a tal riguardo quanto mai eloquente: il sostegno incondizionato ai piani di guerra e all’invio di armi a Zelensky si accompagna a una legge di rifinanziamento delle missioni militari all’estero che incrementa di oltre 100 milioni di euro (e di 1500 soldati) la spesa destinata ai contingenti italiani in Europa orientale e fa il paio con la crescente militarizzazione dei territori, delle scuole, delle università e dei luoghi di lavoro; all’alternanza scuola-lavoro di renziana memoria, che già ha prodotto il totale asservimento della cultura agli interessi del profitto con annessi incidenti e morti di studenti, si affianca l’alternanza scuola-caserma, con tanto di generali ed ufficiali che danno bella prova di se nelle aule scolastiche, studenti chiamati ad assistere a cerimonie e parate militari, visite guidate alle basi militari, ecc. (è illuminante in tal senso il testo del Protocollo d’intesa sottoscritto dal Ministero dell’Istruzione e dalla Marina militare lo scorso 7 agosto…). 

In quest’orgia nazional-militarista, la morte di una bambina di 5 anni per mano di una freccia tricolore “uscita di traiettoria” non può e non deve avere particolare risalto mediatico: per i vertici militari ed istituzionali si tratta solo di uno spiacevole incidente di percorso, un piccolo  inconveniente in nome del rinnovato dogma “credere-obbedire-combattere”…

Militarismo e stretta repressiva: due volti della stessa politica

L’altra faccia della medaglia del militarismo è la stretta repressiva sul piano interno: la nuova stretta sugli sbarchi e la criminalizzazione delle Ong, per quanto momentaneamente mitigate dalle ragioni della “realpolitik” e dalla necessità di non rompere definitivamente i rapporti diplomatici con quei governi africani sempre più attratti nell’orbita di Russia e Cina, continuano ad alimentare non solo la mattanza quotidiana dei morti nelle acque del Mediterraneo, ma anche la formazione di un “esercito industriale di riserva” composto da migliaia di uomini e donne in preda al ricatto del permesso di soggiorno e proprio per questo alla mercè delle forme più brutali di sfruttamento della forza-lavoro.

Quanto alla criminalizzazione degli scioperi e delle lotte sociali, all’indomani del colpo di teatro del “decreto-rave”, il governo dev’essersi reso conto che vi era oramai ben poco da aggiungere alla lista interminabile di misure repressive varate dai precendenti governi di centrodetra e centrosinistra, i quali senza soluzione di continuità e a colpi di decreti-sicurezza, hanno via via ridotto al lumicino l’ agibilità del dissenso e delle proteste.

Un colossale trasferimento di risorse verso profitto e rendita

Ciò ha contribuito a spianare la strada alla vera e propria dichiarazione di guerra compiuta dal governo in questi mesi contro i lavoratori dipendenti, i precari e i disoccupati: nel mentre l’abolizione della già blanda misura di contrasto alla povertà rappresentata dal reddito di cittadinanza è accompagnata da una campagna d’odio di classe senza precedenti nei confronti di chi non ha un lavoro (pari per violenza ed intensità soltanto alle crociate razziste contro gli immigrati), e nel mentre si procede senza sosta con le politiche di tagli alla spesa sociale, alla scuola, ai trasporti e a una sanità pubblica uscita ancor più malconcia dal biennio pandemico, in questi mesi stiamo assistendo a una nuova, colossale opera di trasferimento di risorse a favore dei profitti e della rendita. 

Il DL Lavoro, con cui lo scorso maggio si sono garantiti ai padroni sgravi fiscali a pioggia e si è ulteriormente incentivata la precarietà attraverso l’estensione dell’utilizzo dei voucher e la facilitazione dell’uso reiterato dei contratti a termine è stato solo l’antipasto della macelleria sociale che è in programma: la prossima manovra finanziaria, col progetto di una nuova riforma fiscale centrata sulle sanatorie per gli evasori e sul riordino/riduzione delle aliquote Irpef, andrà ancora una volta a colpire lavoratori e disoccupati e a rimpinguare le tasche dei padroni, del grande capitale finanziario/speculativo e delle lobbies belliciste.

E’ in atto una potente offensiva antiproletaria

Il fatto che tutto ciò avvenga in concomitanza con la più alta inflazione degli ultimi decenni, e con un’emergenza salariale sempre più grave e profonda, ci da il senso e le dimensioni dell’offensiva antiproletaria in atto. L’aumento costante dei prezzi dei generi di prima necessità (alimentari, energia e carburante) continua a falcidiare le buste-paga dell’insieme dei lavoratori dipendenti e dei pensionati: se fino a ieri erano considerati da fame solo i salari dei “working poors” (precari, somministrati, dipendenti al nero o al grigio nel commercio e nel turismo, badanti, soci di cooperative “spurie” e addetti inquadrati nella giungla dei contratti-capestro o nei CCNL-bidone quali vigilanza e Multiservizi, i quali messi insieme già costituiscono una massa di milioni di lavoratori che vivono al di sotto della soglia di povertà), oggi il carovita colpisce duramente anche gli strati meglio retribuiti, complice anche il mancato rinnovo da anni di decine di CCNL di categoria.

Le lotte nella “logistica” e la controffensiva padronale

In questo quadro, stiamo assistendo da tempo a numerosi segnali di controffensiva padronale anche in quei settori che nell’ultimo decennio si sono contraddistinti per una forte combattività operaia: è il caso del trasporto merci e logistica, laddove all’indomani di un ciclo di lotte che in questi anni ha visto protagonisti decine di migliaia di lavoratori (in larga prevalenza immigrati) capaci, grazie al supporto del SI Cobas, di conquistare a suon di scioperi notevoli miglioramenti dal punto di vista salariale e delle condizioni di lavoro, negli ultimi mesi ci si trova a fare i conti con un processo di ristrutturazione che al netto della retorica padronale, ha il chiaro obbiettivo di attaccare e scardinare le conquiste strappate in questi anni dai lavoratori ed indebolire il ruolo del sindacalismo di classe e combattivo. L’elemento più insidioso di questo disegno sta nel fatto che i padroni e gli apparati dello Stato il più delle volte si servono formalmente e strumentalmente proprio di quelle parole d’ordine che hanno caratterizzato le lotte operaie di questi anni, su tutte il superamento del sistema degli appalti e delle finte cooperative, utilizzando la retorica della “legalità” e della “trasparenza” per dare una pesante stretta sia alle condizioni salariali sia alle agibilità sindacali.

Un’anteprima di questo scenario è avvenuta già nel 2021, in occasione del processo di ristrutturazione nella filiera Fedex che portò alla chiusura dell’hub di Piacenza con conseguenti 270 licenziamenti, spacciati dalla multinazionale americana come il “prezzo da pagare” per mettere la parola fine al sistema degli appalti e dei subappalti e procedere all’internalizzazione del resto dei lavoratori: oggi quegli stessi lavoratori internalizzati lamentano un incremento notevole dei ritmi, dei carichi e degli orari di lavoro (e di conseguenza dei rischi d’infortunio), la disdetta unilaterale da parte dell’azienda di tutti gli accordi migliorativi siglati negli anni precedenti da SI Cobas e Adl Cobas a livello nazionale (premi di risultato, scatti automatici di livello, limiti all’utilizzo di contratti a termine e di manodopera interinale, pagamento della malattia al 100%, ecc.) e soprattutto la negazione dell’agibilità e dei diritti sindacali.

In queste settimane, appare sempre più evidente che anche altri colossi della logistica attraversati dalle lotte e dalle conquiste di questi anni, e in cui il sindacalismo di classe ha un peso maggioritario tra i lavoratori, intendano seguire la falsariga di Fedex: alla Brt (multinazionale partecipata da Poste francesi), la quale a seguito dell’ennesimo scandalo riguardante un giro di evasione e di false fatturazioni ad opera dei fornitori e che è sfociato nella nomina di un amministratore giudiziario, i proclami su un possibile processo di internalizzazione dei lavoratori fanno il paio col rifiuto dell’azienda a trattare col SI Cobas (sebbene si contino a centinaia gli accordi sindacali siglati in questi anni sia a livello nazionale sia sui singoli impianti); analoga la tendenza in atto nella multinazionale tedesca Dhl; in SDA- Poste Italiane si assiste da un lato all’apertura di nuovi hub col chiaro proposito di indebolire e penalizzare gli impianti in cui il tasso di sindacalizzazione e di combattività operaia è più alto, dall’altro si tenta di mettere in discussione la contrattazione di secondo livello e il ruolo del SI Cobas e dei sindacati di base nella contrattazione, arrivando persino a negare il diritto di assemblea sindacale in quei magazzini in cui la presenza del sindacato non è maggioritaria… E la lista di esempi potrebbe proseguire.

E’ necessaria una forte e unita risposta di classe

D’altra parte, per il SI Cobas si tratta di un film già visto innumerevoli volte: un film la cui trama è interamente centrata su dinamiche di sfruttamento, ricatti e negazione dei più elementari diritti. Dalla lotta alla Esselunga di Pioltello nel 2012 a quella dell’Ikea a Piacenza del 2013, dallo sciopero ad oltranza ai cancelli della Granarolo a Bologna del 2015 a quello in Italpizza alla vigilia della pandemia, fino alla dura vertenza attualmente in corso nei magazzini della filiera di Mondo Convenienza, il piano dei padroni è sempre uno e uno solo: ridurre al minimo i salari e i diritti, e con essi anche la dignità dei lavoratori.

Di fronte a questi scenari e alla luce del contesto di economia di guerra come sopra descritto, appare sempre più necessaria e improcrastinabile una risposta di classe, forte, unita e organizzata già a partire dall’autunno.

Per questi motivi una parte consistente del sindacalismo di base (SI Cobas, Cub, Sgb, Usi, Adl) ha ritenuto opportuno unire le forze e proclamare unitariamente uno sciopero generale nazionale di 24 ore nella giornata del 20 ottobre sulle seguenti parole d’ordine: contro guerra, carovita e precarietà, per la difesa del reddito di cittadinanza e il lavoro stabile o un salario garantito a tutti i disoccupati, per aumenti salariali pari all’inflazione, il ripristino della scala mobile e il rinnovo dei contratti, per un salario minimo e la messa al bando dei CCNL con paghe da fame; contro la strage dei morti sul lavoro e le politiche di devastazione sociale e ambientale.

Contro la guerra: l’appuntamento è a Ghedi

Allo stesso modo, come Si Cobas siamo sin d’ora impegnati, al fianco di numerose realtà politiche, sociali e di lotta dell’area anticapitalista e internazionalista e a comitati antimilitaristi e pacifisti, per la costruzione di una grande manifestazione contro la guerra, l’invio e la produzione di armi il 21 ottobre, giorno successivo allo sciopero, a Ghedi: un luogo tutt’altro che casuale, poichè coincide con una delle più importanti basi militari  presenti sul territorio nazionale, principale base di attacco dell’aeronautica militare italiana nonché deposito di decine di ordigni nucleari USA- NATO. 

La giornata del 21 ottobre, quindi, rappresenterà un primo ma importante test per la ripresa di una forte e diffusa mobilitazione contro la guerra e il riarmo. 

Se non ora, quando?


* Peppe D’Alesio fa parte dell’Esecutivo nazionale SI Cobas

Print Friendly, PDF & Email