Cosa c’è dietro la “ciambella”?
Elisa Brugaletta*
Il 10 Aprile 2019 vengono indetti numerosi eventi in diverse parti del mondo per presentare simultaneamente i risultati dell’EHT (Event Horizon Telescope). In Europa, alla conferenza stampa tenuta a Bruxelles, è presente il presidente del Consiglio Scientifico del progetto, l’astrofisico Heino Falcke, che presenta al mondo la prima immagine di un buco nero nel cuore della galassia Messier 87, situata a circa 55 milioni di anni luce dalla Terra, con queste parole: “abbiamo visto icancelli dell’inferno alla fine dello spazio e del tempo”. Falcke continua spiegandoci il perché questo sia un risultato storico con una metafora romantica: “vedere la prima immagine di un buco nero è stato come trovarsi per la prima volta faccia a faccia con un vecchio amore. Qualcuno che sapevi esistesse, di cui avevi sentito parlare, a cui avevi scritto delle lettere, di cui immaginavi il suo aspetto ma che non avevi mai incontrato personalmente.
Ora la vedi per la prima volta e sai che è reale. Da quel momento, inizia una nuova fase della relazione. La stessa cosa sta accadendo qui”.
Ad enfatizzare l’eccezionalità dell’avvenimento, arriva a dicembre 2019 anche la notizia dalla prestigiosa rivista scientifica “Science” che dichiara l’immagine del buco nero la scoperta dell’anno. Lo stesso redattore della rivista, Tim Appenzeller, scrive: “questo è stato un grande anno per la scienza, cosa potrebbe esserci di più meraviglioso che vedere un buco nero? Sembra una magia, ma è stata davvero un’impresa sorprendente, frutto del lavoro di squadra e della tecnologia”.
Tutta la comunità scientifica è in subbuglio e fermento, ma che impatto ha questa notizia nella comunità dei “non addetti ai lavori”? La verità è che un osservatore un po’ distratto potrebbe facilmente commentare un po’ deluso e perplesso questa notizia con frasi del tipo “e quindi è tutto qui? Un ciambellone rossiccio con un buco al centro e per giunta un po’ sfocato?”
Cosa stiamo vedendo esattamente?
Osservando questa “ciambella” stiamo prima di tutto vedendo il risultato di due anni di duro lavoro.
Le galassie che si trovano nel nostro Universo sono aggregazioni di stelle stabili a livello dinamico, cioè tenute in equilibrio dalle forze gravitazionali. Sono formate da stelle, gas e polveri ma non sono però tutte uguali fra loro. Le galassie vengono principalmente classificate in base alle loro caratteristiche morfologiche, senza perdere di vista però anche l’importanza degli aspetti fotometrici, cioè come varia la quantità di luce emessa per unità di superficie quando ci spostiamo dal centro verso il bordo della galassia, e delle caratteristiche cinematiche, ossia come si muovono globalmente le stelle che ne fanno parte. I dati provenienti dalle osservazioni inducono a pensare che al centro di molte galassie, sebbene non in tutte, esistano dei buchi neri super massicci.
La radiazione emessa dalle galassie “normali” è, almeno in prima approssimazione, data dalla somma dell’energia che viene emessa dalle stelle che la compongono. Un discorso diverso riguarda invece le galassie dette “attive”, abbreviate spesso con la sigla AGN (Active Galactic Nuclei), che mostrano una intensa attività energetica ed emettono radiazioni che vanno dalle onde radio ai raggi gamma. Per queste galassie l’energia che viene osservata risulta essere di gran lunga superiore a quella di origine strettamente stellare. In questi oggetti la produzione di energia avviene fondamentalmente a spese di un buco nero super massiccio (con massa che va da un milione a dieci miliardi di masse solari) il quale si nutre del gas che gli cade dentro. Tutta la materia che cade verso il buco nero, ruotando, forma quello che viene chiamato disco di accrescimento. Capita spesso che vengano pure osservati dei getti di plasma che si originano proprio da questo disco. Fanno parte della categoria delle galassie attive diversi oggetti come le galassie di Seyfert, le Radiogalassie e i Quasar, fra quelli più noti. Attualmente si pensa che tutti questi oggetti abbiano fondamentalmente la stessa natura fisica, ma che il diverso modo in cui noi li vediamo dalla Terra dipenda per lo più dall’orientamento del disco di accrescimento rispetto all’angolo di vista e dalla quantità di materia che forma il buco nero.
M87 era nota agli scienziati da almeno un secolo. A fine 1800 si pensava fosse solo una nebulosa all’interno della nostra galassia, ma è a metà degli anni ‘50 che guadagna finalmente la classificazione di vera e propria galassia. Oggetto di continui studi, oggi sappiamo che è una radiogalassia ellittica gigante, con una estensione pari a circa 5 volte quella della Via Lattea, una forte emissione di onde radio e nella banda dei raggi X e che ha al suo centro un enorme buco nero.
Dopo tutte queste informazioni è giunta finalmente l’ora di rispondere alla domanda che ci eravamo posti all’inizio, ossia, in pratica cosa stiamo vedendo in questa immagine?
Prima di tutto va chiarito che non è una vera e propria fotografia per come noi le conosciamo, bensì una mappa grafica, in una gamma di colori del tutto arbitrari, “scattata” tramite le radiazioni elettromagnetiche raccolte con i radiotelescopi, che il nostro occhio non ci permetterebbe altrimenti di vedere. E’ importante comunque sottolineare che è reale a tutti gli effetti e non si tratta di una simulazione.
Quello che stiamo guardando è il materiale, composto da plasma ad altissime temperature, che sta circolando vorticosamente intorno al buco nero. Il cerchio scuro che si vede delimita l’area nota come orizzonte degli eventi oltre la quale nulla può tornare indietro, neanche la luce.
Questa “ombra” non delimita le dimensioni del buco nero stesso che di per sé non ha, o meglio non dovrebbe avere, essendo una singolarità puntiforme.
La tecnologia e la fisica che ci hanno permesso di “guardare” M87
Riuscire a produrre l’immagine di cui stiamo parlando è stata un’impresa ambiziosa dopo un duro lavoro che ha richiesto un ripensamento ed un uso estremo delle tecnologie più moderne. Anni di pianificazione e sforzi, l’idea dell’esperimento nacque e venne presentata nel lontano 2000, hanno prodotto l’immagine finale componendo una sola settimana di osservazioni fatte nell’aprile del 2017.
L’Event Horizon Telescope è un esperimento di VLBI (Very Long Baseline Interferometry, Interferometria a Base Molto Ampia) ed è composto da una rete di 8 radiotelescopi, già preesistenti, sparsi su più continenti che osservano ad una lunghezza d’onda di circa 1.3 millimetri. Una rete di telescopi che si estende dal Polo Sud alle Hawaii, dal Messico alle montagne dell’Arizona, fino all’Europa e al deserto di Atacama in Cile. Questi radiotelescopi, nonostante siano distanti tra loro migliaia di chilometri, sono capaci di lavorare insieme grazie alla tecnica chiamata interferometria a base lunghissima. L’interferometria permette l’osservazione di un oggetto sfruttando la rotazione terrestre e riuscendo a sincronizzarne i segnali per mezzo di precisissimi orologi atomici. In questo modo i ricercatori sono in grado di creare un unico telescopio “virtuale” di dimensioni pari alla massima distanza tra i telescopi che sono stati utilizzati, ed in questo caso pari a circa quelle della Terra!
Per realizzare questo progetto è stata necessaria la collaborazione di tredici istituti partner e varie agenzie, fra le quali l’NSF (US National Science Foundation), l’ERC (Consiglio europeo della ricerca), l’ESO (European SouthernObservatory) e agenzie di finanziamento in Asia solo per citarne alcune. Questa collaborazione internazionale ha coinvolto un gruppo di oltre 200 ricercatori provenienti da Europa, Africa, Asia, Nord e Sud America.
La potenza delle grandi collaborazioni scientifiche
Abbiamo capito che M87 ha un buco nero al suo centro con una massa di circa 6,5 miliardi di volte la massa del Sole. La teoria della relatività generale di Einstein ci permette a livello matematico di prevedere che dimensione dovrebbe avere la parte di ombra, da cui la luce non può sfuggire. Aver ottenuto l’immagine di M87 ha permesso di dare una ulteriore conferma scientifica dell’esattezza delle previsioni della relatività generale.
Il racconto di ciò che è accaduto nel caso dell’EHT mette in luce quanto negli anni stia diventando sempre più fondamentale il lavoro di squadra e le maxi-collaborazioni di ricercatori, tecnici e teorici provenienti da tutto il mondo. Sono lontani i tempi dei piccoli laboratori in grado di fare grandi scoperte, è avvenuta una netta transizione nel modo di fare scienza e adesso la parola d’ordine per il nuovo millennio è Big science, ossia grandi esperimenti, collaborazioni che coinvolgono numerosissimi ricercatori e grandi investimenti economici sia pubblici che privati. Investimenti che, se paragonati alla spesa militare annuale, 1.917 miliardi di dollari nel 2019, restano comunque ben al di sotto di quella soglia. Giusto per dare qualche cifra il telescopio Hubble o l’acceleratore LHC costano 0.5 miliardi di dollari l’anno.
Le nuove frontiere in ambito fisico vanno dall’infinitamente piccolo alla direzione diametralmente opposta, e sono spesso collegate da problematiche comuni, basti pensare ad altre due grandissime scoperte fatte negli ultimi anni, il bosone di Higgs (nel 2012) e le onde gravitazionali (nel 2016).
Le scoperte scientifiche, in un processo complesso e a volte lento, hanno ricadute potenzialmente enormi sulla società, a livello economico e sono alla base dello sviluppo tecnologico. Il mondo come lo conosciamo adesso sarebbe stato impensabile senza le scoperte e lo sviluppo tecnologico avvenuto nel secolo scorso. Allo stesso modo, non possiamo neanche immaginare come sarà la civiltà umana tra un secolo grazie alle conoscenze che stiamo acquisendo oggi.
I grandi esperimenti, con le sfide ad essi correlati, la sinergia di numerosissimi scienziati e i risultati ottenuti negli ultimi anni sono di certo indizi che nei prossimi decenni la fisica non ci farà di certo annoiare!
* Elisa Brugaletta è laureata in Fisica e Dottore di Ricerca presso l’Università di Catania. Dal 2014 lavora presso l’INAF-Osservatorio Astrofisico di Catania. Dal 2016 partecipa, con un assegno di ricerca, alla missione Gaia dell’ESA, un satellite con l’obiettivo di creare una mappa tridimensionale della nostra Galassia fornendo misure astrometriche di altissima precisione senza precedenti.
Foto da www.eso.org