Dalla “democrazia progressiva” al regime bipolare
Ramon Mantovani
L’ultima elezione generale celebrata col sistema proporzionale risale al 1992. Il che significa che circa la metà della popolazione attuale, che all’epoca non era nata o aveva un’età inferiore ai 14 anni, non ha conosciuto il sistema elettorale e istituzionale previsto dalla costituzione. L’altra metà o se ne è dimenticata o ne ricorda solo l’ultima fase contraddistinta da degenerazioni e corruzioni. Vale quindi la pena di rimettere molte cose al loro posto per poter criticare seriamente ed efficacemente l’attuale sistema politico.
C’era una volta la democrazia progressiva
La Costituzione italiana non è una costituzione liberale. In più parti prevede la prevalenza dell’interesse generale sulla proprietà privata e su interessi particolari. Parla esplicitamente di lavoratori e non solo di cittadini. Assegna ai partiti il compito di veicolare la partecipazione popolare. In sintesi si può dire che si potrebbe superare il capitalismo senza doverne infrangere nessun articolo.
Le leggi elettorali e gli assetti istituzionali furono decisivi affinché la Costituzione non fosse contraddetta, come lo è oggi, nella sua essenza.
A tutti i livelli politici ed amministrativi venne prevista una legge proporzionale che prevedeva, ad ogni livello, assetti che ponevano il parlamento e i consigli al centro delle istituzioni ed ove gli esecutivi erano dipendenti da essi.
Questo disegno politico istituzionale permetteva una piena partecipazione dal basso attraverso partiti di massa o anche d’opinione ma rappresentanti di pezzi di società definiti dal punto di vista di classe e con ideologie diverse. Essendo il parlamento la vera sede del potere politico, la dialettica che vi si svolgeva era rappresentativa delle tendenze del paese reale. Il potere esecutivo del governo era importante, ma comunque sottoposto al parlamento e non solo da esso controllato. Nei paesi con regime presidenzialista o con l’elezione diretta del governo avviene il contrario. Il governo esercita il potere legislativo ed esecutivo e il parlamento controlla e in rare occasioni esercita di fatto un diritto di veto sulle iniziative del governo.
Per questo in Italia ci sono stati più governi per ogni legislatura e non per una instabilità capricciosa determinata da partiti irresponsabili. Essendo il potere del parlamento ed essendo i partiti presenti nel parlamento soggetti rappresentanti pezzi di società vivi ed attivi socialmente, sindacalmente, culturalmente, molte cose potevano succedere fra un’elezione e l’altra nella società, tali da far traballare gli equilibri governativi e da richiedere cambi immediati. In altre parole le lotte potevano, per esempio con uno sciopero generale, far si che i settori della DC legati alla CISL si dichiarassero disponibili a legiferare a favore delle richieste sindacali e che questo provocasse una crisi di governo e la formazione di un nuovo esecutivo con equilibri diversi all’interno della DC. Il PCI poteva dunque, dall’opposizione, allearsi ora con le parti della DC legate al sindacato e alle organizzazioni di massa cattoliche del mondo agricolo e del lavoro autonomo per ottenere conquiste sociali e con i partiti laici per ottenere conquiste sui diritti civili come il divorzio. I tre pilastri della democrazia progressiva, e cioè la lotta sociale come motore di qualsiasi cambiamento, la legge proporzionale e gli assetti istituzionali parlamentari, costituivano un circolo virtuoso nel quale chi lottava era invogliato a votare alle elezioni per avere una rappresentanza nel parlamento che, anche dall’opposizione, poteva coronare con una vittoria la lotta. È per questo che in Italia c’è stata, con la legge proporzionale, la più alta percentuale di partecipazione al voto e il più grande partito comunista dell’occidente. Ovviamente anche per merito del suo gruppo dirigente e dei suoi due milioni di iscritti. Ma è evidente che con altri assetti di tipo presidenzialista e/o bipartitico o bipolare non sarebbe stato possibile.
Come mai questo sistema ad un certo punto è entrato in crisi?
La crisi della democrazia progressiva
La vera causa della crisi fu la controffensiva capitalistica iniziata nel 1971 con la denuncia degli accordi di Bretton Wodds da parte del governo USA. La Lira dovette fluttuare liberamente sui mercati valutari e perse in un quindicennio due terzi del proprio valore rispetto al dollaro. E poi, liberalizzazione dei mercati delle merci e conseguente delocalizzazione e deindustrializzazione, finanziarizzazione dell’economia e crescita della speculazione immobiliare: tutti fattori che nel volgere di 10 anni aprirono una vera e propria nuova fase capitalistica e un modello sociale completamente diverso da quello precedente. Fu il passaggio da una società con al centro la produzione di beni e servizi, nella quale i lavoratori godevano della forza che gli derivava dall’essere indispensabili nel processo di accumulazione del capitale, ad una società con al centro la finanza e nella quale le attività produttive erano dipendenti dalle speculazioni finanziarie e dovevano reggere una competizione internazionale spietata, con grave ed oggettiva diminuzione del potere di contrattazione dei lavoratori.
In pochissime parole, se la forza del movimento operaio cominciò a scemare velocemente è evidente che la sua rappresentanza politica, anche se forte elettoralmente, si indebolì e venne isolata nel parlamento. Da allora non ci sono state più conquiste e le lotte sono state solo difensive ed hanno al massimo ottenuto di allungare i tempi della cancellazione delle conquiste della fase precedente.
In Italia il PCI si trovò davanti ad un bivio. O resistere, mettendo nel conto una lunghissima fase di arretramenti e di difficoltà, oppure separare il proprio destino da quello delle classi di riferimento e cercare la conquista del governo come illusoria soluzione del problema.
Chi abbia imboccato una strada o l’altra in Italia è inutile dirlo.
Il presidenzialismo, le leggi maggioritarie e bipolari
Fu il PDS a mettere a disposizione la propria capacità per raccogliere firme e fare campagne su proposte della destra della DC per abrogare il proporzionale. Senza il PDS il reazionario Mario Segni non ce l’avrebbe mai fatta. Del resto il PDS, nell’iter di discussione della nuova legge elettorale per comuni e province nel 1993, ebbe la posizione più estrema favorevole al maggioritario, oltre che all’elezione diretta del sindaco condivisa da tutti tranne il PRC.
L’elezione diretta del sindaco con premio di maggioranza significa una svolta di 180 gradi nella stessa concezione della politica e delle istituzioni rispetto a quella prevista dalla Costituzione. Significa l’estrema personalizzazione della politica e la scelta, con i due turni, su due persone che per la natura stessa del sistema devono raccogliere una maggioranza interclassista e moderata. La coalizione che si presenti per tentare di vincere, tranne occasioni eccezionali quasi sempre dovute alla popolarità di un personaggio, è sempre di centrodestra o di centrosinistra. Liste e coalizioni di sinistra possono partecipare,ma devono superare le soglie di sbarramento e, soprattutto, non possono convincere la stragrande maggioranza dei votanti che possono concorrere a decidere il sindaco. Così si fa strada la pratica elettorale del cosiddetto “voto utile”. Del resto, anche l’elezione di una esigua rappresentanza si scontra con lo svuotamento dei poteri dei consigli e dunque può dedicarsi esclusivamente a testimoniare una propria posizione senza poter influire su nessuna decisione.
È evidente che questo sistema tende ad espellere una forza di sinistra giacché se si rassegna a partecipare alla coalizione di centro sinistra, tranne casi più che eccezionali dove il candidato abbia posizioni e programma davvero di sinistra, sconta un prezzo da pagare per gli elettori che si convincono che abbia rinunciato e tradito il proprio programma. Viceversa se essa si rassegna a presentarsi con il massimo obiettivo di avere una sparuta testimonianza, senza poter modificare nulla e tantomeno coronare con una vittoria le lotte del territorio, sconta un prezzo da pagare ancora superiore al precedente perché perderà il voto degli elettori che indipendentemente dai contenuti del centrosinistra lo votano contro la destra o come male minore.
La consapevolezza di questa realtà oggettiva dovrebbe far capire a una forza di sinistra che questo terreno elettorale è un terreno nemico in sé e che qualsiasi scelta si faccia essa presenta contraddizioni con la propria politica. Una simile scelta, necessariamente tattica, non può essere descritta come una scelta strategica e “di principio”. Sono infinite le sfumature possibili, date anche le competenze effettive degli enti locali, che possono inclinare la bilancia in un senso o nell’altro. Affrontarle con iperboliche argomentazioni dà luogo solo ad una irriducibile dialettica fra opposti che prelude ad abbandoni e scissioni. Affrontarle sapendo che magari l’altra ipotesi ha il 45% delle ragioni dalla sua parte suggerisce che la scelta che si fa è meramente tattica e non inficia né l’identità né la politica del partito o della lista della sinistra locale.
Dopo 30 anni, il sistema maggioritario delle elezioni del parlamento, bipolare e presidenzialista di fatto, nonostante i cambi di legge che nulla hanno mutato di sostanziale, è anch’esso il contrario esatto del dettato costituzionale. Gli elettori sono stati costretti a scegliere fra Prodi o Berlusconi, per fare l’esempio più ricorrente, anche se non si votava direttamente per il presidente del consiglio. Mentre la legge maggioritaria è di fatto l’elezione diretta del governo che avrà a disposizione una maggioranza parlamentare sufficiente ad imporre qualsiasi cosa ad una opposizione che non può che urlare e tentare di paralizzare il parlamento con continui ostruzionismi, anche su cose per niente importanti. Una legge che, come nei comuni, moltiplica partiti e liste nelle coalizioni per poter raccogliere i voti più disparati al fine di vincere e che produce un parlamento umiliato e ridotto a curve da stadio, dove il trasformismo più sfacciato la fa da padrone.
Eppure questo sistema, in gran parte letteralmente irrazionale, è il più diffuso fra i paesi occidentali ed industrializzati. Evidentemente l’egemonia del nemico è molto potente. In fin dei conti la cultura liberale classica ha mutuato dalle precedenti monarchie molte cose ed è sempre stata ostile al quarto stato. Nel tempo dell’atomizzazione e della passivizzazione della società, l’illusione di “partecipare” alla scelta del leader del paese si vende facilmente.
Alla sinistra reale, e non all’ala sinistra del regime bipolare, spetta il difficilissimo compito di districarsi tatticamente al fine di costruire un polo alternativo ai due esistenti, ricordando sempre che il motore di qualsiasi cambiamento e l’unico luogo nel quale nasce la coscienza di classe è il conflitto sociale, e non certo la competizione elettorale. Ed è questo il compito principale di un partito comunista.