Dalla televisione pedagogica alla televisione commerciale

Carlo Freccero*

Il saggio che segue è stato pubblicato nel libro “Un’altra Italia in un’altra Europa”, Carocci editore Roma, uscito nel 2011. Il volume trae origine da un convegno nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia, svoltosi a Roma il 25-27 maggio 2011 sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica e sotto la responsabilità scientifica di Mario Caravale, Massimo Luciani, Leonardo Paggi, Francesco Pitocco, Massimo Pivetti e Antonio Prete nella Sala del refettorio della Camera dei Deputati.


Nel 1980 c’è una rivoluzione. O meglio, più che una rivoluzione, una frattura epistemologica, come direbbe Bachelard. La rivoluzione è infatti un moto volontario, volto al sovvertimento di un ordine esistente.

La frattura indica invece un cambiamento di episteme che si afferma in modo involontario e che risulterebbe impercettibile se all’improvviso non ci apparisse tutto strano, grottesco, eccessivo.

Il cambiamento di episteme provoca una sensazione diffusa di straniamento, perché noi continuiamo a ragionare con le nostre vecchie categorie, mentre l’universo di riferimento cambia radicalmente e i nostri strumenti, che fino a poco tempo fa funzionavano correttamente, si rivelano improvvisamente inadeguati. E come se volessimo analizzare al microscopio un mondo in cui gli oggetti risultano improvvisamente ingigantiti, come nei film.

Nel 1980 la sinistra non si aspetta alcun cambiamento. Solo tre anni separano il mitico Settantasette – anno storico del “movimento” – dagli anni Ottanta – emblema del consumismo, dello yuppismo, del mito del successo e della ostentazione del lusso. E la sinistra continua ad applicare le sue categorie a un mondo profondamente cambiato, che stenta a comprendere, a inquadrare. Questo suo disagio, questo suo straniamento continuerà a crescere nel tempo, sino a oggi.

Vi è sempre un equivoco alla base della sua analisi. Il Settantasette celebra l’incontro del “movimento” con i media. C’è l’esperienza di “Radio Alice”, che consacra il concetto di “controinformazione”. E all’inizio degli anni Ottanta la sinistra identifica la nascita di nuove emittenti televisive come uno spazio di libertà, di accesso diretto del pubblico ai media. Non a caso queste nuove emittenti nate spontaneamente sul territorio vengono chiamate “TV libere”. Ma mentre la sinistra si crogiola in questo sogno di libertà, Berlusconi acquisisce queste emittenti una dopo l’altra, le mangia come pedine, restando da solo sulla scacchiera a controllare il gioco.

Ricordo una delle prime cose che mi dirà, quando comincerò a lavorare per lui: «Mentre voi perdevate del tempo per sognare la rivoluzione, io lavoravo per diventare quello che sono oggi: ricco come Paperon de’ Paperoni». Non c’è da meravigliarsi se molti, che erano un tempo di sinistra, abbiano trovato più semplice passare dall’altra parte per partecipare alla festa.

C’è un evento culturale che fa da spartiacque tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta: il film La febbre del sabato sera del 1977. Tony Manero lavora in un colorificio tutta la settimana. La sua vita è modesta e senza prospettive. Ma il sabato sera diventa il re della discoteca, in cui si esibisce nel ballo, fasciato da un completo bianco che lo rende attraente agli occhi di tutte le ragazze. Da “nullità” a mito effimero per una notte, Tony Manero afferma con forza i suoi valori – il successo individuale, il glamour, la volgarità – contrapposti alla piattezza del quotidiano. E come tutti gli altri idoli degli anni Ottanta non ha niente di intellettuale o di profondo, non ha valori da sostenere né progetti politici. E il simbolo della disco-music, del disimpegno e della forma di affermazione individuale.

Tony Manero è in termini rigorosamente marxiani un proletario. Ma non pensa alla rivoluzione, non ha un’etica del lavoro né un concetto politico da contrapporre alle miserie del privato. Vuole sfondare e avere successo. E quello che egli vuole è quello che vorrà la maggioranza. Da questo punto di vista strettamente teorico gli anni Ottanta celebrano questo passaggio dalla classe alla maggioranza.

Il concetto di “classe” è un soggetto collettivo, ma nello stesso tempo antagonistico. Per il marxismo la storia è lotta di classe e all’ultima classe sfruttata, il proletariato, è affidato il compito di realizzare con la rivoluzione il superamento dell’opposizione di classe.

Il concetto antagonista di classe nasce da un’analisi del concetto di produzione, e la produzione all’interno del capitalismo si attua come divisione tra chi detiene i mezzi di produzione – il capitalista – e chi presta le sue forze di lavoro – il proletariato. L’arricchimento del capitalista riesce a spese del proletariato sulla base del lavoro svolto da quest’ultimo. Il sistema produttivo capitalistico è necessariamente un sistema di sfruttamento, pertanto di contrapposizione tra classi. Il mito della produzione è fondamentale in tutta la cultura degli anni Settanta. Si pensiall’Anti-Edipo (1972, trad. it. 1975) di Deleuze e Guattari: anche il desiderio, anziché mancanza, è incessante produzione. E il meccanismo produttivo non è fondamento soltanto del sistema economico, ma anche del sistema libidinale, che è alla base del movimento psicanalitico.

In campo economico negli anni Ottanta si afferma una grande frattura. Il capitalismo diventa maturo e il suo centro si sposta dalla fabbrica al mercato, dalla produzione al consumo. Un cambiamento fondamentale. Un mutamento che Debord, usando strumenti marxiani come l’analisi del valore feticcio della merce, riesce a descrivere con lucidità nella Società dello spettacolo (1967, trad. it. 1969).

La sinistra nella sua totalità – parlamentare ed extraparlamentare – stenta però a capire questa fondamentale mutazione dalla “classe” alla “maggioranza”, dalla “produzione” al “consumo”, dal “politico” al “privato”. E in questo vuoto ideologico si inseriscono Berlusconi e il “berlusconismo”. Berlusconi non ha un’ideologia definita, ma impara a operare sul mercato pubblicitario televisivo gestendo audience e sondaggi. Da una semplice applicazione di questi strumenti nati per controllare il mercato prende le mosse il berlusconismo, dal quale ancora oggi stentiamo a distanziarci.

All’inizio degli anni Ottanta la sinistra continua a ragionare in termini di classe, ma un nuovo soggetto si sta affermando, prima nel mercato e poi in politica: la maggioranza. Se da un punto di vista della produzione c’è una contrapposizione evidente tra capitalista e proletariato, dal punto di vista dei consumi non c’è contrapposizione né frattura. Questo perché per estendere al massimo i consumi bisogna abbattere le divisioni, uniformare il gusto, diluire le differenze sino ad annullarle. Se la fabbrica è il luogo del conflitto, il mercato è il luogo dell’omologazione. Questa omologazione del gusto e dei consumi si consegue attraverso gli strumenti del marketing e dell’audience. Trent’anni di televisione commerciale hanno formato il gusto medio del paese, la sua ideologia politica, l’adesione e il consenso al berlusconismo.

È la coscienza del consumatore, non la coscienza del lavoratore, a essere al centro dei meccanismi della società di massa, a influenzarne in qualche modo le politiche, a dettarne i valori. Lo spazio in cui trova attuazione il processo di condizionamento ai consumi è proprio lo spazio televisivo. La televisione si è trasformata, dopo l’introduzione delle TV commerciali, in una macchina per la produzione di desideri; e sono desideri di consumo materiale perché in questa direzione va la pubblicità. Ma il meccanismo messo in moto dalle rilevazioni di mercato ha assunto ben presto aspetti più vasti e inquietanti, tanto da assoggettare alle sue logiche anche la politica.

Questo processo è passato attraverso una serie di tappe successive, che sono piccole ma molto importanti. In un primo momento, con l’introduzione della rilevazione dell’audience, l’opinione del pubblico è entrata stabilmente a far parte della produzione del sapere televisivo. È l’audience, di fatto, che seleziona le trasmissioni gradite al pubblico e presiede quindi alla formazione dei palinsesti televisivi. E la televisione ha un ruolo fondamentale nella formazione dell’opinione pubblica. In un secondo momento, tramite appunto il legame commerciale tra pubblicità e televisione, il marketing entra in modo massiccio a far parte della programmazione televisiva. Il marketing studia le fasce di pubblico che il messaggio televisivo dovrà raggiungere e dà quindi indicazioni dettagliate sui requisiti dei programmi.

In questi anni si è continuato ad attribuire all’imperativo dell’audience, cioè degli ascolti, la decadenza della televisione pubblica e privata. Ma non è così; o meglio, non è solamente così. Da tempo nella TV commerciale è l’indice Nielsen che prevale sui dati Auditel. Il successo di pubblico è importante, ma è ancora più importante il successo certificato di vendite. Con la crisi e i tagli ai budget, il mercato pubblicitario si riduce sempre più, restringendosi ai bisogni biologici, primari, ai prodotti alimentari, ai prodotti per l’igiene personale. Ma non solo: non è più sufficiente che il pubblico guardi la televisione, ma per motivi di produttività bisogna essere certi che dall’audience scaturisca il consumo. In questo modo si crea il meccanismo dello sfruttamento non più nella sfera della produzione, ma nella sfera del consumo. Lo spettatore è un lavoratore che non sa di lavorare e non viene retribuito. La televisione commerciale rappresenta un mezzo per fare del nostro tempo libero una forma di mercato. “Audience” significa quindi allargamento del pubblico, ma non tutto il pubblico è qualificato per certi consumi. E, poiché è lo sponsor che paga certe trasmissioni, lo sponsor ha diritto di scegliere il pubblico. La televisione, di conseguenza, si trasforma sempre più da “macchina di consumi intellettuali” – penso alla RAI delle origini – in “macchina di consumi materiali”. Da questa evoluzione, o involuzione, non è immune neppure la RAI, dopo che si è attribuito al servizio pubblico il valore materiale di una azienda che è tenuta a produrre fatturato, a fare concorrenza. La RAI viene quindi assorbita da questo meccanismo.

L’ultima tappa di questo processo porta a una rivalutazione del concetto di “democrazia diretta” e, di conseguenza, di deriva populista. Introducendo l’uso dei sondaggi per commentare e valutare problemi di portata sociale, le trasmissioni di attualità politica hanno radicato nell’opinione pubblica l’equazione: maggioranza = verità. E l’aspetto più inquietante – o comunque curioso – è rappresentato dal fatto che al sondaggio si tende a dare oggi il valore di verità. Mentre per la società basata sulla verità il sapere è appannaggio di pochi, nella “sondocrazia” il sapere e il potere coincidono con la maggioranza.

Per la prima volta la verità e il potere vengono espressi in termini quantitativi anziché qualitativi. Termini come “teledemocrazia” e “videocrazia”, apparentemente in contrasto tra di loro, esprimono un unico concetto: nell’era del video si realizza la dittatura della maggioranza. Si tratta di una democrazia, di un potere popolare, filtrato attraverso il video. Ma si tratta altresì di un potere che, in nome della maggioranza, rifiuta qualsiasi tipo di limitazione o controllo,mentre la democrazia moderna si fonda sulla limitazione reciproca dei poteri. La televisione commerciale ha valorizzato la maggioranza portandola prima alla ribalta del piccolo schermo attraverso il talk show, poi alla ribalta della politica attraverso il populismo. Dalla politica ai consumi l’interlocutore unico è la maggioranza. La maggioranza è la verità della nostra epoca, l’audience ne è la matrice.

Questo lungo preambolo può aiutarci a capire che cosa è oggi l’audience. Non è un misuratore di ascolti televisivi; piuttosto è l’indicatore di un potenziale bacino di consumi. E sulla base dell’audience che si stipulano i contratti pubblicitari e un solo punto di audience può spostare miliardi di fatturato. L’ascoltatore televisivo, nel suo ruolo passivo di spettatore, produce più ricchezza di uno stakanovista nell’era del fordismo. L’audience ha a che vedere con il mercato pubblicitario molto più di quanto non abbia relazione con la qualità del messaggio televisivo, con la validità culturale dei programmi. In definitiva, nella rilevazione dell’audience non importa nulla a nessuno della televisione in quanto tale. La televisione è ridotta a una scatola vuota, un palcoscenico in cui vanno in onda lo psicodramma del consumo e la telenovela della riproduzione dei nostri bisogni.

Oggi le merci, nella versione virtuale e astratta che c’è nella pubblicità, circolano sugli schermi televisivi condizionando la nostra vita materiale. E la televisione, con gli spot pubblicitari e con i suoi programmi, ci dice che cosa dobbiamo consumare ma anche che cosa dobbiamo diventare attraverso il consumo. L’oggetto che dobbiamo plasmare attraverso i consumi, ad esempio, è il nostro corpo. Le principali reti commerciali ci inondano di modelli ideali: si pensi alle figure femminili che si assottigliano sempre più, mentre crescono a dismisura – contro ogni plausibilità anatomica – labbra e seno. Le reti minori ci inondano di televendite: elettrostimolatori, attrezzi ginnici, alghe, creme, lozioni, integratori alimentari. La base della pubblicità rimane il consumo materiale elementare: merendine, proteggi-slip, automobili, telefonia. Il processo di snaturamento di cui è stata oggetto la televisione attraverso il meccanismo della rilevazione dell’audience può essere riassunto in una sola frase: la TV è passata dall’universo simbolico del consumo intellettuale all’universo concreto del consumo materiale. È come se un libro servisse solo per incartare con le sue pagine saponette e dentifrici.

Paradossalmente, la volgarità della neotelevisione rappresenta una faccia di un fenomeno in sé positivo: l’affermazione della libertà dalle regole, la liberazione del pubblico dal rispetto per gerarchie e poteri. Questo cambiamento che investe la televisione commerciale non resta un fatto separato e non esplica le sue conseguenze solo sul costume, ma anche sulla politica e su tutte le manifestazioni della vita pubblica.

Da più di un ventennio la politica italiana ha fatto proprio uno stile che ha nel talk show la sua matrice. C’è una cosa che forse fuori dall’Italia molti ignorano e che gli stessi italiani hanno da tempo rimosso. Il totale scadimento dei valori politici tradizionali che oggi conosciamo nasce da un tentativo della magistratura di ripristinare la legalità e la trasparenza nella politica attraverso un’inchiesta penale che coinvolse tutta la classe politica: Mani pulite. Oggi possiamo dire che questa inchiesta fu possibile perché la “rivoluzione dell’audience” aveva liberato gli spettatori dal potere reverenziale nei confronti della politica. La stessa inchiesta Mani pulite fece dei giudici che la promossero degli eroi popolari e fu sostenuta dalla fiducia e dall’entusiasmo dell’opinione pubblica. L’eliminazione della classe politica che aveva governato sino ad allora l’Italia e l’implosione dei partiti politici tradizionali ebbero un effetto paradossale: convinsero, anzi obbligarono, l’imprenditore Silvio Berlusconi a impegnarsi direttamente in politica, portando la rivoluzione culturale già intrapresa in televisione alle sue estreme conseguenze.

Nel 1992, quando il pool di giudici del tribunale di Milano inizia un’indagine nei confronti dell’amministratore di un ente pubblico accusato di corruzione, questa sembra essere un’indagine come le altre, destinata a esaurirsi in un piccolo scandalo. Ma come un gioco di scatole cinesi le responsabilità dei primi incriminati portano alla scoperta di un livello superiore di corruzione e così via, sino al coinvolgimento dei vertici dei principali partiti politici del paese. Lo scandalo cresce fino a essere non più controllabile. La televisione contribuisce a divulgare e a rendere pubbliche le vicende giudiziarie. E di quel periodo la cosiddetta “TV verità” – la TV di Guglielmi – che filma e manda in onda le immagini dei principali processi. Naturalmente i giudici diventano star. Presso il grande pubblico si accrescono il rancore e la diffidenza nei confronti di una classe politica corrotta, che usa le tangenti provenienti da tutte le attività imprenditoriali dell’epoca per finanziare i partiti. Non esiste appalto, impresa o attività che non presupponga un versamento alla politica, come un intreccio di corruzione e concussione che si confondono.

Gli italiani chiedono la legalità della politica, ma la soluzione della crisi è, ancora una volta, paradossale. Si forma in questo periodo l’idea di una Seconda Repubblica contrapposta alla politica italiana del dopoguerra e costruita su basi nuove. In questo contesto Silvio Berlusconi vede venir meno le coperture politiche che gli avevano permesso di sviluppare il suo impero televisivo e commerciale, illegale secondo le leggi vigenti, ma tenuto in vita con proroghe e deroghe ad hoc. La sua azienda è fortemente indebitata e la mancanza di copertura politica può portare alla richiesta di rimborsi anticipati. Non resta che “scendere in campo” direttamente, fondando un nuovo partito politico, Forza Italia. Viene utilizzata l’organizzazione esistente per la vendita delle pubblicità dell’azienda berlusconiana per creare dal nulla in brevissimo tempo uno staff, dei candidati, delle sedi nuove del partito. Berlusconi, in tutto questo contesto, si presenta come l’uomo nuovo, l’imprenditore prestato alla politica per rinnovare il paese. Ma le soluzioni si dimostrano ben presto diverse da quelle che ci si potrebbe aspettare.

Gli italiani chiedono legalità alla politica, ma il contrasto tra legge e politica sarà risolto in maniera paradossale: prima larvatamente, poi con maggiore decisione e forza, Berlusconi elabora una teria politica che non è altro che l’adattamento nel nuovo contesto delle tesi dell’audience e delle scelte della maggioranza. Pensiamo alla televisione di Stato e alle sue scelte pedagogiche. Esse erano imposte al pubblico per il suo bene. Quando arriva la televisione commerciale, il pubblico è lasciato a sé stesso e predilige spettacoli disimpegnati e di intrattenimento. A chi criticava il basso livello culturale della sua programmazione, Berlusconi ha sempre obiettato che questo livello rispecchia le scelte del pubblico. Insomma, l’audience rappresenta una sorta di democrazia diretta delle scelte culturali. In questo modo l’istanza di rinnovamento espressa dalla maggioranza del paese viene strumentalizzata per conseguire il risultato opposto.

Sul modello dell’audience e della maggioranza è costruito il populismo politico di Berlusconi.

Una volta eletto dalla maggioranza degli italiani, Berlusconi si proclama giustamente “unto dal Signore”, dotato cioè di poteri assoluti, e passa a esercitarli anche in quei campi e in quei settori in cui le moderne democrazie liberali erigono steccati a difesa della separazione dei poteri.

Berlusconi si scaglia contro il potere giudiziario seguendo questo ragionamento: il presidente del Consiglio, eletto, esercita un potere che gli è conferito dalla maggioranza; non può quindi tollerare che alcun giudice, che non ha ricevuto analoga investitura dal popolo, si permetta di giudicare la politica. Il conflitto tra politica e giustizia va quindi risolto sottoponendo la giustizia a un controllo politico. E questo è un ragionamento che ritorna in forme differenti in diversi contesti: non esiste un diritto o un bene superiore alle scelte della maggioranza. Quando la magistratura indaga su un politico, compie una interferenza indebita nella politica e il giudice diventa un politico che non è stato eletto dal popolo. E inoltre, quando un politico infrange la legge, è la legge che deve essere cambiata per non ostacolarlo in quanto rappresentante della maggioranza. Durante i governi Berlusconi le leggi ad personam non si contano. Questo processo è per Berlusconi assolutamente naturale, una sorta di sillogismo.

Quando anche in Italia scoppiano gli scandali aziendali sul modello della Enron e i risparmiatori perdono i loro risparmi per il falso in bilancio, si risolve il problema depenalizzandolo, anziché inasprendo le pene. Non ci muoviamo più in una democrazia preoccupata di tutelare i diritti delle minoranze, quanto piuttosto in una dittatura della maggioranza. E paradossalmente, come nell’epoca della TV commerciale nata senza alcuna autorizzazione, le regole sono rimaste le stesse, ma vengono interpretate in maniera nuova. La televisione commerciale, vietata dalla legge, è stata resa in qualche modo legale dal favore del pubblico. C’è stato un referendum popolare che ha consacrato il diritto di Berlusconi a conservare il monopolio della TV commerciale. È vero che la concentrazione delle frequenze disponibili in mano a un unico operatore impedisce il pluralismo dell’informazione, ma non si può intervenire contro il volere popolare se il popolo non sa che farsene di questo pluralismo. Allo stesso tempo, l’ordinamento politico italiano è rimasto lo stesso e le modifiche alla Costituzione promosse dal governo di destra sono state abrogate con referendum. Le normative vigenti sono state “stiracchiate”, interpretate in modo tale che, pur restando tutto come prima, il berlusconismo ha profondamente rivoluzionato le convinzioni politiche del paese. Tutti ignorano che lo Stato si regge sulla divisione e sul reciproco controllo dei poteri; tutti pensano alla democrazia come espressione della maggioranza e delle sue scelte.

Le idee berlusconiane, estremamente personali e funzionali ai suoi interessi imprenditoriali, non avrebbero forse avuto così presa sul pubblico, se non si fossero in qualche modo presentate come affini alle teorie contemporanee dello “Stato minimo” (Nozick): lo Stato non può prendere iniziative paternalistiche nei confronti dei cittadini; non può educare o vietare. Deve solo difendere i cittadini e garantirne la sicurezza.

Lo Stato berlusconiano non è affatto lo Stato minimo, ma rievoca queste ideologie quando ritiene che il compito dello Stato non sia vietare ricorrendo alle leggi e alla legalità. Come si conciliano la lotta al giustizialismo e quella all’assenza dello Stato? Dividendo i reati contro il patrimonio in due blocchi contrapposti. Da una parte i reati come corruzione, concussione e falso in bilancio, che possono essere depenalizzati o tollerati, perché perseguirli è un arbitrio dello Stato e dei suoi giudici. Dall’altra i reati che si consumano per le strade, come furto, rapina o scippo, che sono invece da reprimere duramente per garantire l’ordine pubblico.

Il berlusconismo esordisce, dunque, con un paradosso, un uso quasi folkloristico dei media, una bizzarra gestione della cosa pubblica. In realtà, in breve tempo idee che parevano strane sono diventate patrimonio comune e hanno iniziato a propagarsi fuori dai confini nazionali italiani. Gli osservatori stranieri che pongono l’accento sulle stranezze di Berlusconi – penso alla bandana, alle corna, all’appellativo di kapò dato a Schulz ecc. – e sul suo populismo non sembrano cogliere la novità rispetto ai modelli di populismo precedenti. Il populismo berlusconiano non assomiglia a fenomeni passati, come ad esempio il peronismo argentino, perché non è costruito sul culto della personalità, ma sul mito della maggioranza. Come tale, utilizza strumenti contemporanei come il marketing e il sondaggio e riflette le tendenze attuali a ricercare sempre e comunque nella maggioranza dei consensi l’unico valore riconosciuto. Non si rivolge al suo elettorato dicendo: “Mi devi votare perché io valgo”, ma, come un famoso slogan pubblicitario contemporaneo, dicendo: “Mi meriti perché tu vali”.

Concluderei questa analisi con una metafora che può aiutare a capire che cos’è la televisione oggi. Mi piace pensare all’audience come alla periferia di una grande città. Come sappiamo è il centro che identifica la città; nel centro ci sono i monumenti, i reperti storici, ma anche i luoghi di aggregazione e di socializzazione; nel centro si costruiscono la cultura e la moda e si danno appuntamento gli opinion leader. La sera il centro scintilla di luci, di insegne, dì vita. Ma basta allontanarsi dal centro per vedere queste luci affievolirsi, farsi sotto tono, confondersi con la nebbia in cui sono immerse le cose. È la periferia, e qui le luci della strada sono fioche e giallastre. Ma un’altra luce filtra attraverso i vetri delle finestre: è la luce lattiginosa della televisione. Brandelli di suono ci seguono nel nostro itinerario. La televisione è la colonna sonora della periferia. Questa realtà quotidiana dimessa, priva di slanci, immobile e uguale ha trovato nella TV il suo mezzo di espressione.


* Carlo Freccero è un critico televisivo, giornalista, dirigente d’azienda, autore televisivo, massmediologo e accademico italiano. È stato consigliere d’amministrazione della Rai dal 2015 al 2019. È stato direttore di Rai 2 dal 1996 al 2002 e dal 2018 al 2019.


Immagine da torange.biz

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