Dell’arte della guerra (contro di noi)

Dario Salvetti*

Il punto a cui è arrivata la lotta Gkn non è il risultato di un modello ideologicamente predefinito. E non si offre come tale. Non perché averne uno sia di per sé scorretto. Semplicemente questa lettura non ci aiuta a comprendere la vicenda.

Certamente, la rappresentanza sindacale entra in questa lotta con la propria cassetta degli attrezzi: la storia della Fiat, il sindacato dei consigli, i delegati di reparto, i comitati unitari di base ecc. Studiamo meticolosamente molte vertenze prima di noi, nazionali e internazionali: Apollon, Viome, Zanon, Piombino, Termini Imerese, Melfi 2004, Innse ecc. 

Siamo consapevoli del rapporto dialettico tra linea della lotta e forma della democrazia. Lo dimostra la storia. Una linea sindacale rivendicativa, radicale, efficace – l’unica vittoriosa ad oggi e fino a prova contraria – necessita e a sua volta determina una pressione verso l’allargamento della struttura partecipativa. 

Viceversa, gli arretramenti nei diritti e nel salario sono il frutto e a loro volta favoriscono la fossilizzazione della struttura sindacale, la passività, il sindacato degli iscritti e dei servizi, l’esaltazione della delega dal basso verso l’alto.

Ma qua, qualsiasi traiettoria idealmente impostata è inevitabilmente corretta, deviata, finanche deformata dal contesto in cui avviene: un singolo punto di resistenza nel contesto dei rapporti di forza dati. La fabbrica resiste ostinatamente alla chiusura, arriva a porre il problema della ripartenza produttiva sotto controllo operaio, ma lo fa in un contesto di rapporti di forza sfavorevoli o comunque non sufficientemente avanzati per dare alla singola lotta una soluzione collettiva. 

Dalla Resistenza al Progetto

Tanto più la resistenza si prolunga, tanto più essa è costretta a trasformarsi in progetto. E il progetto deve essere efficace qui e ora, nel contesto dato, pena la fine della resistenza stessa.

Ciò che finora abbiamo fatto, perciò, è prima di tutto rispondere colpo su colpo alla loro “arte della guerra contro di noi”.  

Per questo, chiunque interagisca dialetticamente o criticamente con la vicenda Gkn ha il dovere – non per noi, ma per lasciare qualcosa a chi verrà dopo di noi – di rispondere alla domanda: diteci che cosa abbiamo sbagliato e quale era l’alternativa. 

Proviamo a delineare in forma schematica alcuni passaggi:

1. La chiusura materiale prima della chiusura formale

La comunicazione della chiusura della fabbrica spesso è preceduta da un lungo lavoro di logorio: la proprietà manda “in buca” lo stabilimento iniziando a bollirlo, con investimenti irrazionali, distruzione delle catene di comando tecnico, scarsa manutenzione. 

Nel nostro caso tra il 2017 e il 2021 registriamo una serie di manovre irrazionali: investimenti in nuove linee senza un corrispondente aumento di volumi produttivi. E una assoluta incuria verso manutenzione e qualità con linee “nuove” che registrano anche l’8% di scarti.

In questo contesto lo sciopero si carica di nuove rivendicazioni. Per sua natura, esso “blocca” la produzione ma nel caso specifico deve spingere anche per ridisegnarne l’organizzazione. Vicino a rivendicazioni come salario, sicurezza, assunzioni, si delinea una “piattaforma di stabilimento”: per una diversa organizzazione del lavoro, della qualità, della manutenzione. 

Una piattaforma inconcepibile senza un diffuso sapere operaio. Si tratta di coinvolgere i diversi reparti, i tecnici, gli uffici. La forza che poi permetterà di reggere botta nella prima fase di assemblea permanente si accumula qua.

2. La forza non sta sulla carta

Che sia il risultato di un lungo periodo di preparazione o di un improvviso moto di indignazione, lo sciopero è il risultato di una chimica difficile da replicare a piacimento o da mantenere nel tempo. Le aziende lo sanno. E per questo prima di tutto imparano a giocare con il tempo: convocare tavoli che rimandano ad altri tavoli, ad accordi parziali che rimandano ad altri accordi parziali. 

Pur di far rientrare la lotta, possono anche firmare accordi positivi con la precisa consapevolezza di aggirarli o non applicarli in seguito. Hanno budget per sostenere le conseguenze legali o contano che in fondo nessuno li impugnerà o che la condanna legale avrà tempi biblici. Si insinuano consapevolmente nella distanza tra il diritto formale e la sua esigibilità materiale.

Ad esempio, tra il 2012 e il 2021 strappiamo un sistema di accordi sindacali aziendali complesso e positivo. Accordi spesso però violati o inapplicati dall’azienda. Su questo fatto, vengono fatti e vinti dal sindacato ben quattro articoli 28 per condotta antisindacale nel giro di cinque anni. Pur tuttavia tali vittorie legali spesso non hanno nessun valore sanzionatorio verso l’azienda. 

Ne risulta che le vittorie contrattuali necessitano a loro volta di una forma di controllo dal basso sulla loro applicazione. Obiettivo impossibile senza allargare la struttura partecipativa.

3. Mossa e contromossa

Loro imparano da noi, ci misurano, ci contano, ci studiano. Farlo rappresenta una funzione stessa della gerarchia aziendale. Ogni mossa ha una contromossa. 

Quando inizia la vertenza per il rinnovo del contratto integrativo nel 2018, spuntiamo alcune vittorie “solo” con il blocco degli straordinari. Così nell’estate del 2018 esternalizzano parte dei volumi produttivi in Spagna per rendere vano il blocco degli straordinari e persino lo sciopero prolungato.

Chiamiamo quindi “solo” tre ore di sciopero ad ottobre 2018. Ma articolate e con corteo interno. Il corteo interno chiarisce che la loro mossa della “paura” ha fallito. E infatti cedono: i volumi produttivi tornano. Ma come assicurarsi che non lo facciano di nuovo?

Facciamo un accordo sulla “agibilità sindacale”: ogni futura delocalizzazione dovrà essere dichiarata in anticipo e contemporaneamente si formano i delegati di raccordo. Eletti su base annuale, a rotazione, con 3 ore di permesso mensile non cumulative, i delegati di raccordo sono 4 per turno: 12 figure che si affiancano agli 8 Rsu. 

Abbiamo bisogno di aumentare gli occhi e le teste del “controllo dal basso”. E scopriamo infatti già a dicembre 2018 che alcuni volumi produttivi sono stati di nuovo delocalizzati. Viene vinto un articolo 28 per condotta antisindacale ma il giudice non impone il ritorno dei volumi. 

Questo nuovo calo dei volumi produttivi artificialmente autoindotto questa volta serve a spostare lo scontro sul terreno delle nuove assunzioni. Nel febbraio del 2019 facciamo uno sciopero di 24 ore per evitare che i precari vengano mandati a casa e per sbloccare le assunzioni. La reazione dell’azienda? Assumere unilateralmente i precari a tempo indeterminato dall’agenzia interinale. E’ lo staff leasing. I precari materialmente “non vanno a casa” e vengono assunti comunque “a tempo indeterminato”, seppure dall’agenzia. 

Questo confonde la fabbrica, lascia la lotta con un senso di “pericolo scampato” e con una nuova – per noi – forma di precariato che ci obbliga a una campagna di chiarificazione che dura quasi un anno.

Usiamo il tema dello “staff leasing” come cartina di tornasole per prevenire e prevedere la futura crisi dello stabilimento: il fatto che l’azienda non assuma più, non dimostra forse che ha cessato di investire sul futuro? Su questa base otteniamo la discussione al tavolo di crisi della Regione Toscana prima che la crisi stessa sia dichiarata. 

Il 14 febbraio 2020, con uno sciopero di 8 ore, e 200 lavoratori fuori dalla Regione Toscana che non smettono un solo attimo di cantare e protestare, firmiamo un accordo: assorbimento progressivo degli staff leasing con assunzioni e tenuta occupazionale dello stabilimento. 

Pochi giorno dopo, inizia il lockdown per Covid: non appena siamo a casa, l’azienda manda a casa tutti gli staff leasing con un whatsapp. L’accordo è già violato. Il Covid e lo stato di emergenza rappresentano una nuova giustificazione.

Rientrati dal lockdown ci dicono che alla Gkn di Birmingham sono partiti i licenziamenti, annunciati con diciotto mesi di anticipo. E’ il luglio del 2020. Ci diciamo che probabilmente hanno già deciso anche il nostro destino ma non ce lo vogliono dire. 

La prima settimana di luglio, dopo tre mesi di cassa integrazione covid, intraprendiamo uno sciopero articolato di 8 ore: ogni 15 minuti, alternandosi, si fermano i reparti. Con 8 ore si blocca la fabbrica una settimana. Il 9 luglio 2020 l’azienda firma un accordo dove spergiura che non ci saranno licenziamenti e che comunque, se saranno, ci preavvertirà con grande anticipo. Un anno dopo, il 9 luglio 2021 una mail improvvisa ci informa che siamo tutti licenziati.

4. Da vertenza di fabbrica a vertenza sociale

La storia che segue è già più nota. La chiusura improvvisa della fabbrica toglie la possibilità dello sciopero come strumento di lotta. Si passa al presidio e all’assemblea permanente. Lo scontro continua a essere con il singolo datore di lavoro, ma tale scontro ormai coinvolge l’intero sistema: la politica industriale, la conversione ecologica ecc. 

Nell’isolamento la lotta è segnata, essa può sperare di resistere solo come punta di un ragionamento sociale e politico complessivo.

Abituata a trattare argomenti sindacali diretti, la vertenza deve ora sapersi muovere sull’intero spettro dello scontro sociale. La convergenza quindi non è solo un elemento di solidarietà: i circoli Arci, le parrocchie, i militanti, i movimenti sociali, climatici, antifascisti, che vengono a “darci mano” non sono “solo” aiuto nella resistenza. Ma sono accumulazione di competenza e visione.

Prima la “voce del padrone” diretta erano gli organismi aziendali. Ora la lotta si trova a tu per tu con un sistema: le sue leggi, il Governo, i tavoli inconcludenti, il ricatto ambiente-lavoro. Siamo “insorti” resistendo alla delocalizzazione. Ma ora abbiamo bisogno che un intero spettro di visioni “converga” per continuare a resistere.

Più tardi, su questa base, un pezzo del sistema politico e forse anche sindacale ci accuserà di trascendere la vertenza sindacale per “fare politica”. Vecchio trucco: parlare dell’operaio “che fa politica”, per non parlare di ciò che questa politica fa all’operaio.

5. Dal trauma al primo piano industriale

Anche questa parte della storia è nota. La prima fase è quella della lotta contro i licenziamenti in tronco. La tattica è quella di traumatizzare in una sorta di guerra lampo: annuncio dei licenziamenti a luglio, ad agosto l’isolamento e a settembre il licenziamento.  

La struttura partecipativa accumulata nella precedente fase – collettivo di fabbrica, delegati di raccordo, abitudine all’assemblea – diventa fondamentale per reggere l’assemblea permanente. Eravamo pronti e per questo il trauma non ci travolge.

La delocalizzazione non va fermata sulla carta, ma materialmente. E quindi i macchinari non escono. Ma proviamo a fermarla anche sulla carta. Il moto di indignazione generato dalla nostra vicenda ci porta a scrivere una legge antidelocalizzazioni con i giuslavoristi solidali. Sappiamo che servirà a poco, ma almeno chiarisce che fuori dalla mobilitazione non c’è salvezza.

Le lettere di licenziamento previste per il 22 settembre 2021, si infrangono contro quattro manifestazioni di cui la più grande è il 18 settembre 2021, e contro l’articolo 28 dello Statuto dei Lavoratori. 

Da lì, la nuova tattica della controparte diventa “il limbo”. Da settembre 2021 rimaniamo sospesi nel vuoto. Non siamo licenziati ma l’azienda non riporta il lavoro. Siamo in un tempo senza prospettiva e senza scadenza certa. Usiamo questo limbo per rafforzare la convergenza. E per la prima volta la convergenza è chiamata a immaginare una alternativa ai licenziamenti come strumento per togliere legittimità sociale ai licenziamenti stessi.

Nel dicembre del 2021, le competenze solidali e i legami con il movimento climatico partoriscono il primo piano industriale: quello generale, per il polo pubblico della mobilità sostenibile. Sosteniamo che le aziende dell’automotive in dismissione, come la nostra, potrebbero essere collegate in un unico polo pubblico per la produzione di mezzi di trasporto pubblici. Proprio quando parliamo di intervento pubblico, arriva il privato.

6. La tattica della rana bollita

Quando arriva Francesco Borgomeo, il 23 dicembre 2021 la mobilitazione è all’apice della forza. 

Borgomeo non ha nulla in mano, se non la promessa che porterà un investitore. Si fa intestare l’azienda, i macchinari, il magazzino ma non chiarisce, e mai chiarirà, quanto li abbia pagati e quali siano i reali accordi con la vecchia proprietà. La fabbrica passa da avere una missione produttiva ad essere uno slogan motivazionale: “Fiducia nel Futuro della Fabbrica a Firenze”. 

Anche questa è una vecchia tattica: il cavaliere bianco annuncia la reindustrializzazione e l’investitore che verrà. Ma siccome tale processo richiede mesi, se non anni, si conta sapientemente sul fatto che la mobilitazione non reggerà il passare del tempo. E quando regolarmente si scopre che non c’è nessun investitore o nessun piano industriale, la fabbrica è già stata trasformata in un guscio vuoto e la mobilitazione è solo un lontano ricordo. 

Per provare a scongiurare un simile scenario, firmiamo un accordo quadro con tempistiche ben precise di messa a verifica di quanto sostenuto dalla nuova proprietà. L’accordo quadro del 19 gennaio 2022 è estremamente avanzato. Ma, la forza non sta sulla carta. E l’unica cosa che possiamo fare è continuare l’assemblea permanente in attesa di vederlo applicato. Il principio è chiaro: si deindustrializza la fabbrica solo quando si ha la ragionevole chiarezza e certezza del processo di reindustrializzazione.

A quasi due anni di distanza, possiamo dire che l’accordo quadro è stato fondamentalmente carta straccia dal primo minuto e che nessuno dei soggetti firmatari, a parte noi, ha avuto nulla da ridire a riguardo. Appunto, diteci che cosa abbiamo sbagliato?

E’ la tattica della rana bollita quella che viene usata contro di noi: lasciata a fuoco lento nel pentolino, la rana non si rende conto che sta bollendo. E quando la temperatura raggiunge il punto mortale, i muscoli non sono più in grado di muoversi e saltare fuori.

La sfida di resistere al logoramento del tempo ci porta a rafforzare le attività di convergenza. Si crea la convergenza culturale, si tiene vivo il presidio e l’assemblea permanente appoggiando le altre lotte. E’ la fase del “per questo, per altro, per tutto”. L’appoggio solidale alle altre lotte in corso, ambientali, civili, sociali, a sua volta tiene viva la nostra lotta. Lottiamo per questo (la nostra lotta), ma anche per altro (in solidarietà ad altre mobilitazioni) e per tutto (per il legame di convergenza con le altre lotte).

Questa fase viene accompagnata da una discussione sulla fondazione della Società Operaia di Mutuo Soccorso (Soms) Insorgiamo. Essa è contemporaneamente soggetto mutualistico “conflittuale” per implementare la resistenza economica e sociale, un dopolavoro regolarmente stabilito per fare attività culturali in base all’articolo 11 dello Statuto dei Lavoratori, un circolo Arci con tutte le funzioni ad esso collegate e un soggetto che può iniziare a sperimentare gli spazi per un autorecupero della fabbrica.

7. L’assedio

Quando diventa chiara la nostra capacità di resistere e rilanciare, inizia l’assedio. E’ un assedio economico: smettono di pagare gli stipendi e di consegnarci le buste paga. Da novembre a 2022 a luglio 2023 rimaniamo senza percepire più alcuna forma di reddito. E tutt’oggi, da novembre 2022, non vediamo un cedolino paga. Un’azienda, pur sotto i riflettori ministeriali, cessa di rispettare qualsiasi diritto previsto dalla legge, dal contratto collettivo nazionale, dagli accordi sindacali interni. Immaginiamo allora cosa succede dove questi riflettori nemmeno ci sono.

Ma l’assedio è anche fatto di calunnie per farti terra bruciata attorno: provano a invertire causa e effetto. L’assemblea permanente e tutte le attività di convergenza non diventano strumenti di sacrosanta resistenza sociale, causati dalla delocalizzazione e dalla mancata reindustrializzazione. Ma vengono additati come causa per cui il povero proprietario non riesce a reindustrializzare. 

Reagiamo all’assedio, con il referendum autogestito (dicembre 2022, 17.000 voti per l’intervento pubblico in Gkn), con la ripresa della mobilitazione (corteo del 25 marzo), della convergenza culturale (Festival della Letteratura Working class), con le azioni di lotta rapide e improvvise (“presa di Palazzo Vecchio” a dicembre 2022 e l’azione della torre a luglio 2023), con il rafforzamento della Soms, del mutualismo e mettendo fondo alla nostra cassa di resistenza. 

Anche in questo caso l’autorganizzazione diventa sempre più necessaria, complessa, faticosa, fatta di nuove funzioni e nuove competenze. 

8. La fabbrica “stand alone”, tra controllo operaio, sociale e licenziamenti

La fabbrica è stata trasformata – anche questo trucco ricorrente delle multinazionali – in un organismo “stand alone”: un punto isolato. Non fa parte di nessuna filiera produttiva: non ha commesse, non ha ordini. E ora si usa questo suo isolamento per accompagnarla a fine vita.

Nel febbraio 2023 viene annunciata nuovamente la liquidazione. Notizia di questi giorni che si preparano a riaprire i licenziamenti. Siamo tornati al punto di partenza.

In questa fase elaboriamo un nuovo piano industriale. Anche questa volta insieme alle competenze solidali, alla convergenza con movimenti climatici e sociali. Ma non può più essere un piano generale come il primo. La fabbrica va reindustrializzata qui e ora, sulle basi di un proprio prodotto finito e ricreando l’intera filiera ricreata sulle proprie stesse basi. 

A fronte di un mondo dove la forma cooperativa è diventata incubatrice spesso del peggior sfruttamento, prendiamo atto dall’esperienza di tutte le aziende recuperate a livello mondiale: rimane comunque la forma più adatta per dare alla assemblea di lavoratori anche la funzione di assemblea di cooperatori nella produzione. E formiamo un primo nucleo di cooperativa.

E’ falso dire che con una cooperativa cessi lo scontro tra capitale e lavoro. Esso si sposta dalla struttura interna al piano esterno: con le banche, il mercato, la burocrazia statale. Dentro questo scontro il movimento di difesa della fabbrica deve essere coinvolto, reso competenza sociale, contro-bilanciamento delle tendenze all’autosfruttamento e al corporativismo che una cooperativa alla lunga produce. Il controllo operaio sulla produzione si deve incontrare con quello sociale, del territorio e del movimento di solidarietà. E questo è lo scopo della campagna sull’azionariato popolare. La stessa Società Operaia di Mutuo Soccorso è tra i soci fondatori della cooperativa.

Chiamiamo tutto questo fabbrica socialmente integrata. Non è la rinuncia all’intervento pubblico. Anzi, pretendiamo ancora di più il capitale pubblico a sostegno della fabbrica. Ma chiariamo così che non abbiamo in mente alcuna nazionalizzazione di natura passiva o verticale. La fabbrica è pubblica non solo perché ha capitale pubblico, ma perché ha i meccanismi per essere a disposizione del territorio, dell’utilità sociale delle sue produzioni e perché è centro di propulsione delle migliori competenze che si muovono attorno ad essa.

Conclusione

Chi vuole il fine vuole i mezzi. E noi il fine non solo lo vogliamo, ma è questione di sopravvivenza. Ed è lungo questa via che siamo passati dal porci banalmente il problema di implementare un sindacato partecipativo, fino alle soglie del tema del controllo sociale sulla reindustrializzazione. Ho omesso una quantità di dettagli che poi “solo” dettagli non sono mai. Ho dovuto tralasciare errori, orrori, problemi. Non per reticenza ma per spazio. E spero in questo di non aver restituito un racconto eccessivamente idealizzato. Anzi, nessuno più di noi avrebbe voglia di parlare ore di tutto quello che abbiamo visto. Non sappiamo quanto tempo ci rimane, quanta forza ci rimane e fin dove riusciremo a spingerci. Ma che almeno tutto questo serva. 

Il modello organizzativo del sindacato non può strutturarsi in base alla danza immobile dei tavoli, degli accordi, del gioco istituzionale. Ciò è purtroppo connaturato nell’attività sindacale. Ma non può diventare la palude in cui affonda la nostra capacità di mobilitazione. Le radici devono rimanere salde nel tema dei rapporti di forza. E l’organizzazione collettiva deve essere in grado di rispondere alla loro arte della guerra, contro di noi, e strumento di lotta per una vita migliore.


* Dario Salvetti fa parte della Rsu GKN

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