Democrazia partecipativa e femminismo

Giovanna Capelli

“Soltanto quando ci impegnammo seriamente nella ricerca e nello studio del nostro sistema riproduttivo, dei metodi di controllo delle nascite, dell’aborto, delle leggi che regolano i metodi contraccettivi e l’aborto, soltanto quando prendemmo coscienza di ciò che significava per noi l’essere donne, soltanto allora ci rendemmo conto che potevamo decidere se e quando volevamo figli….In secondo luogo il nostro lavoro ci consentì di dare un giudizio sulle istituzioni che-dovevano occuparsi della nostra salute: ospedali, cliniche, medici, scuole per medici e infermiere, uffici d’igiene, organismi mutualistici e così via.”

Dall’introduzione a “Noi e il nostro corpo” del Boston Woman’s Health Collective,  Feltrinelli, prima edizione. 

Nell’ormai lunga storia del movimento delle donne, i contenuti e gli obiettivi femministi si sono sempre strettamente connessi alla democrazia, alla sua concezione, alle sue regole e anche a come queste si collocano nel contesto giuridico: se assolute, e date per sempre, o interne a un continuo inarrestabile conflitto di classe e di genere, quindi modificabili e con esiti alterni, di avanzamento o di regressione. Il movimento femminista, più che mai oggi, in un’epoca in cui il neoliberismo si separa strutturalmente dalla stessa democrazia liberale, contribuisce alla difesa e allo sviluppo della democrazia, e anche alla sperimentazione delle sue forme.

Dall’esperienza del femminismo diffuso e popolare, ho imparato che le forme della democrazia si costruiscono nel conflitto, nella sperimentazione della loro efficacia, praticabilità e possibilità di durata nel tempo. Queste forme sono sempre relative e mobili, collocate in un contesto preciso e particolare, e si accompagnano a processi in cui la partecipazione alla vita sociale garantisce ai soggetti sempre più potere di autodeterminazione e di decisione sulla propria vita e sulla vita della propria comunità. Quando le forme si sedimentano in una legge, l’avanzamento è evidente, ma gli spazi istituzionalizzati diventano contendibili dalle stesse forze conservatrici, e la contraddizione li attraversa di continuo. 

E ’interessante dunque ripercorrere le esperienze di partecipazione e di democrazia, che hanno rappresentato i Consultori con un’ottica specifica, che non guarda ai contenuti, ma alle forme organizzative della partecipazione, dentro e fuori i Consultori, forme che hanno permesso a questi contenuti di sedimentare e di lasciare una traccia significativa.  E’ una riflessione complessa, perché ci fa ripercorrere la straordinaria stagione in cui il protagonismo dei soggetti, della classe operaia, del movimento studentesco ,del femminismo e di tutti i movimenti sociali determinavano un avanzamento dei rapporti sociali, della condizione di vita delle persone e una percezione ottimista del futuro del genere umano, e da cui dovremmo capire quali strumenti di democrazia e partecipazione influenzarono e condizionarono la pratica sociale e produssero avanzamenti legislativi e modelli di nuovo stato sociale. Le femministe avevano l’esperienza concreta dei gruppi di self-help, delle pratiche di aborto autogestito, della critica al carattere patriarcale della medicina, in particolare nel rapporto donna-ginecologo, e pretendevano che la donna non fosse più solo un corpo,che la sanità pubblica si prende in carico di accudire come madre o come paziente asessuato, ma un soggettopienamente autodeterminato nella gestione della propria vita sessuale e riproduttiva. La nascita del Consultorio pubblico è frutto di una nuova idea della medicina personalizzata, preventiva, partecipativa e della sua declinazione di genere.   

Gli spazi e i limiti delle leggi   

La legge sui Consultori, la 405 del luglio del 1975, è preceduta da due sentenze  della Corte Costituzionale decisive per le donne: quella del 1971, che fa decadere il divieto di propaganda anticoncezionale, e quella del febbraio del 1975, che dichiara la parziale illegittimità dell’art. 546 del Codice penale [i] nella parte in cui negava che la gravidanza potesse essere interrotta “quando l’ulteriore gestazione implichi danno, o pericolo grave, medicalmente accertato nei sensi di cui in motivazione e non altrimenti evitabile, per la salute della madre» [ii] Il consultorio è il luogo dove la materia incandescente e  complessa della libertà femminile si cala nella concretezza delle situazioni e si intreccia con le altre lotte: la  salute come diritto, la responsabilità e il ruolo delle professioni sanitarie nella sanità pubblica. Tutto precipita nella forma di un nuovo servizio, che nasce nel territorio, un luogo di frontiera fra istituzione sanitaria, servizio sociale e una società civile attraversata dai conflitti. La legge nazionale, fissate le funzioni dei consultori, la quantità del loro finanziamento, il loro legame con il Servizio sanitario, demanda alle regioni l’obbligo di legiferare entro 6 mesi sui criteri di programmazione, funzionamento, gestione, e controllo. 

 Nella tabella che abbiamo inserito, si può consultare il quadro comparativo delle prime leggi regionali, che ci fornisce indicazioni chiare sulla forza del movimento delle donne nell’imporre la gestione sociale in quasi tutto il territorio italiano, quando nel testo nazionale è assente qualsiasi indicazione nel merito, e ci fornisce a specchio il quadro geografico dei punti di massima densità e concentrazione dei collettivi e delle associazioni femministe e anche delle aree più deboli, una mappa del femminismo italiano nel suo complesso , quello che  che ha prodotto pensiero e riflessione, ma anche una autorganizzazione capillare a rete, capace di tenere collegamenti nazionali oltre le differenze.

 Dalla tabella si evidenziano tre i criteri che testimoniano una dinamica differenziata, ma costante di questa lotta nei territori:   

1) Il tempo della produzione delle leggi regionali, che avrebbero dovuto essere varate entro 6 mesi da quella nazionale, e invece la loro elaborazione complessiva occupa ben 4 anni (la legge sarda, l’ultima è del 1979); non certo per disinteresse o negligenza ma per l’asprezza dello scontro sull’autodeterminazione sul corpo delle donne. Nel 1978 viene approvata la riforma Sanitaria, i consultori rientrano nel SSN, e nello stesso anno viene approvata la legge 194 sull’Interruzione volontaria della gravidanza, che sottolinea la centralità del Consultorio nel percorso di sostegno alla donna nella sua libertà di scelta rispetto alla procreazione. Il Lazio, la Lombardia, il Piemonte, l’Emilia Romagna riescono a legiferare nel 1976.

2)La denominazione della legge. Nei titoli, 6 regioni usano la definizione nazionale di “consultori famigliari”, tanto criticata dal femminismo, in altre si cerca di produrre un titolo più vicino alle istanze del movimento femminista, che sfugga al riferimento famigliare. Così si parla di coppia, di genitorialità responsabile. Altri titoli enfatizzano la funzione socio-sanitaria dei consultori. La mediazione più alta mi sembra quella lombarda: l’unica che parla di 2educazione sessuale.” Ovvero: “Istituzione del servizio per l’educazione sessuale, per la procreazione libera e consapevole, per l’assistenza alla maternità, all’infanzia e alla famiglia”[iii]

3)L’indicatore più pregnante è l’articolo che illustra gli spazi e le regole per la partecipazione sociale. E’ un punto necessario, a cui non si può sfuggire, perché è tutta la società che lotta e apre spazi di democrazia e partecipazione, dai Consigli di fabbrica ai consigli di Zona, agli organismi dei Decreti Delegati nelle Scuole. Naturalmente, una volta nominata la “gestione sociale”, essa viene declinata e regolamentata in modo diverso a seconda dei rapporti di forza regionali.  Spesso , ancor prima di stilare un Regolamento , si  delinea già una gestione sociale  ristretta, (vedi la legge pugliese), tramite un  Comitato di gestione composto solo da delegati di secondo livello , cioè eletti da organismi come il Consiglio Comunale, il Consiglio di zona, i delegati delle scuole, delle organizzazioni femminili costituite legalmente, mentre il movimento femminista si organizza senza passare per riconoscimenti formali .In altri testi di legge si contemplano anche delegati  eletti direttamente dagli utenti ( tutti, maschi e femmine ) o dall’assemblea delle donne . E qui si innesta la discussione su chi siano gli utenti del Consultorio da chiamare alle assemblee e al voto. Al Comitato di Gestione, così variamente delineato, competono compiti importanti quali la programmazione, la metodologia dell’intervento, il controllo dell’attività del Consultorio. 

Pratiche di movimento: dentro e fuori dai Comitati di Gestione   

Ho contezza, per biografia personale e ne ho ritrovato ampia documentazione, dell’azione continua e pressante dei Collettivi femministi in tutta l’area metropolitana milanese prima e soprattutto dopo l’approvazione della legge: in pratica una mobilitazione e un conflitto sociale continuo. Illustro queste dinamiche come esempio di un contesto nazionale analogo.   I consultori prima della legge nazionale venivano istituiti dai Comuni sotto la spinta delle donne organizzate. Già nel 1975, per esempio, a Melegnano il Collettivo delle donne interviene all’assemblea indetta dal Comune , che annuncia la prossima apertura del Consultorio, presentando una serie di richieste (gestione sociale e popolare, farmaci e prestazioni gratuite, propaganda massiccia nelle fabbriche e nei quartieri) e si dichiara disponibile per promuovere questo nuovo servizio e per gestire gruppi di informazione anticoncezionale, che evitino il rapporto autoritario tipico: medico che spiega e paziente che ascolta e tace. Il Comune fa orecchie da mercante e non diffonde bene la notizia della apertura del Consultorio, perché ritiene che abbiano diritto a frequentarlo solo le donne coniugate. Così, per un po’ di tempo, il famoso Consultorio si apre solo al giovedì dalle 10 alle 12. Ma anche altri collettivi femministi lottano per l’apertura del Consultorio locale,  e poi vigilano sul suo funzionamento sia dall’interno del comitato di gestione che dall’esterno: le donne di Rho, di Garbagnate, il  Collettivo Donne in lotta di San Giuliano, le varie Udi, il Collettivo Donne di Baggio, San Donato, Siziano, Locate, Opera, Lodivecchio, il Collettivo della Università statale, il Collettivo di Via Silvio Pellico, le donne di Medicina Democratica, il  Coordinamento di zona del Lodigiano ,cui facevano riferimento le donne di Borghetto Lodigiano, di Casalpusterlengo, di Codogno, di Guardamiglio, di Sant’Angelo e di San Colombano, le donne dell’Ospedale di Melegnano, e il Collettivo donne  Snam ( San Donato) .[iv]Queste forme di autorganizzazione femminista chiamate “Collettivi” o “Gruppi” erano  capillari, ricche di conoscenze e di relazioni politiche e sociali con il territorio, che  venivano ricercate e costruite con cura, in particolare con le strutture del sindacato , i coordinamenti delle delegate , le Commissioni Femminili dei Partiti, le donne organizzate nei Consultori, entrate a far parte dei Comitati di gestione, con  i consigli di Zona e tutti gli organismi territoriali di partecipazione. Il tutto per rendere più efficace e autentica la gestione sociale. Questa è stata la gestione sociale dei Consultori fino alla sparizione del Comitati di gestione, nella combattiva area metropolitana milanese, che allora comprendeva anche il lodigiano, a partire dalla legge sui consultori della Lombardia e dalla sua definizione normativa di “gestione sociale” esplicitata nell’art. 4. Alla programmazione, all’organizzazione, e alla gestione del servizio partecipano gli utenti, le organizzazioni sociali e sindacali, i movimenti femminili, gli organismi di decentramento comunale, gli organi collegiali della scuola, i consigli di fabbrica presenti nella zona e gli operatori del servizio”[v] Lo strumento della gestione sociale è il Comitato di gestione che nasce ed opera grazie a un regolamento .Non è un luogo facile, è una struttura istituzionale con tutti i difetti e le lentezze burocratiche di questi organismi, teme l’irruzione delle rappresentanze dirette (per esempio, in relazione alla convocazione della assemblea delle utenti o degli e delle utenti. Anche questo non è stabilito apriori ed è motivo di conflitti). 

Il Comitato di gestione è come una porta aperta per la gestione dell’istituzione consultoriale, alla quale non abbiamo bussato: l’abbiamo spinta con forza e messo un piede di traverso.  La porta si può richiudere o aprire di più. E ’sottoposta continuamente a spinte per spalancarla e a pressioni per chiuderla. Ogni Comitato di gestione ha una storia a sé in base a questo scontro.  Ci sono Comitati di Gestione contro cui il Collettivo di zona solleva molte critiche, perché sa di essere stato escluso ingiustamente dalla rappresentanza, pur avendo fatto un grande lavoro di aggregazione. E’ il caso del Collettivo di Baggio, che così scrive: “Il Collettivo di Baggio, impegnato all’interno del Consultorio della zona 18 (Milano) fin dal suo nascere, ma non eletto nel comitato di Gestione, ha svolto nel corso del 1982 un lavoro e alcune iniziative, contribuendo all’aggregazione delle donne attraverso il consultorio. Una di queste è la conquista di uno spazio settimanale permanente delle donne e per le donne all’interno del Consultorio”[vi]   

Verso l’inizio degli anni Ottanta, le donne impegnate in queste lotte si collegano sotto forma di Coordinamenti che danno stabilità alle relazioni dei singoli collettivi, fanno circolare notizie ed elaborano una strategia comune. Quest’ultima s’incentra su come condurre il conflitto in un luogo riconosciuto come ambivalente, ma importante come il Comitato di Gestione. Alla fine di quella stagione, un volantone a cura delle donne di Medicina Democratica così conclude “E’ più che mai importante il rafforzamento del Comitato di gestione intensificando la presenza dei/delle rappresentanti degli interessi originari (donne utenti, donne dei collettivi, rappresentanti del sindacato), per evitarne lo svuotamento. Da questa presenza dipende l’impegno del Comitato di gestione “ 

La vera gestione sociale, che fa parlare e pesare quelli  che le donne di Medicina democratica chiamavano “gli interessi originari” non è solo una forma della democrazia, ma è anche l’unica modalità per cui il Consultorio possa svolgere una delle sue funzioni cardine, che è la prevenzione. Solo così è un vero Consultorio, e non un ambulatorio.  Nella malattia gli utenti sono i malati che si devono curare, vanno loro a cercare la struttura e noi dobbiamo fare in modo che essa sia pubblica, competente e pronta a rispondere alle loro necessità, ma nella prevenzione la platea è larga, potenzialmente tutti e tutte devono essere coinvolti, cercati, avvisati e informati, ma soprattutto resi protagonisti di questa attività su di sé, sugli stili di vita e sull’autodifesa difesa dalle varie nocività. Per questo, il Consultorio dovrebbe uscire dalle sue stanze ed entrare nei luoghi di lavoro, fabbriche e uffici, nelle scuole tutte, e avvicinare le donne, estendere l’intervento di educazione sanitaria attraverso il lavoro di gruppo (contraccezione, sanità, menopausa, aborto, aborto farmacologico, percorso nascita, prevenzione tumorale, allattamento, incontinenza, vulvodinia etc), costruire una mappa epidemiologica, aprirsi alle nuove emergenze e alle problematiche transgender,  costruendo un punto avanzato e sensibile  dell’approccio di genere alla medicina.        

Oggi i Consultori pubblici sono ridotti di numero, de-finanziati, vittime della concorrenza dei consultori privati e confessionali, accreditati e non, della scelta prevalente delle donne di rivolgersi al ginecologo privato, che sembra assicurare un minimo di continuità, di conoscenza personale e possibile affidamento. La differenza di reddito segna un solco per tutta la vita. I Consultori sono sempre più simili ad ambulatori e, come li definì un ricercatore sono come “dei feriti al margine della strada “[vii], ora anche in procinto di essere travolti dalla nuova organizzazione territoriale delle Case di comunità. Che fare per difenderli e rigenerarli? Non solo lotta e vertenzialità, ma riaprire lo spazio della gestione sociale, da pretendere e da reinventare. Ora non esiste più, bisogna ricostruirlo anche giuridicamente, nei Consultori e in tutta la sanità pubblica, che, mentre viene investita da un nuovo processo di privatizzazione e aziendalizzazione (anche grazie al PNRR), rimane una struttura verticale, gerarchica, autoritaria, impenetrabile come una sfinge.

Giovanna Capelli, femminista, è componente dell’Esecutivo del Partito della Sinistra Europea ed è Responsabile Sanità della Segreteria Lombarda di Rifondazione Comunista. Già insegnante di lettere e preside nella scuola pubblica.


 [i]abrogato nel 1978 dalla legge 194 sull’IVG. 

[ii] Sent. Corte Cost. 27/1975. In questo modo la consulta rende possibili le interruzioni di gravidanza caratterizzate da un grave rischi per la salute della madre.

[iii] L.R. 6 settembre 1976, N. 44

[iv] Medicina Democratica n 25/1981, n.29/ 1982, n.35/ 1983

[v] L.R. 6 settembre 1976, N. 44

[vi] Medicina Demcratica, n.35, pag. 26 

[vii] https://www.linkiesta.it/blog/2011/11/il-consultorio-familiare-ovvero-un-ferito-ai-margini-della-strada/  Giambattista Scirè

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