Dentro il movimento

Paolo Ferrero*

In queste giornate così piene di iniziative politiche mi suona strano dover intervenire in una discussione che verte principalmente sul rapporto tra partito e movimento. Mi pare infatti del tutto evidente che le dimensioni e la qualità politica del movimento in corso suonano – tra l’altro – come una clamorosa conferma della linea politica che abbiamo tenuto in questi mesi. Detto questo alle posizioni di Burgio e Grassi è doveroso rispondere; avrei preferito farlo negli organismi dirigenti ma li non sono state sollevate. Dando per richiamato l’articolo scritto da Franco Giordano che condivido integralmente, voglio soffermarmi su tre questioni.

Partito e movimento

Burgio, su Liberazione dell’altro ieri, ci dice che il partito dovrebbe costruire con il movimento “un rapporto e una relazione tra soggettività distinte”.

Il partito ha deciso negli organismi dirigenti una altra strada. Abbiamo scelto di stare fino in fondo nel movimento lavorando attivamente alla sua crescita. Abbiamo deciso di stare dentro il movimento sul piano degli organismi di coordinamento nazionali e per questo il PRC e i Giovani Comunisti stanno dentro il Genoa Social Forum a fianco di altre mille associazioni grandi e piccole. Abbiamo deciso di far parte del movimento nella sua costruzione materiale, concreta e così in tantissimi luoghi i compagni e le compagne di rifondazione sono tra i più attivi promotori dei fari social forum locali. Abbiamo cioè scelto di operare attivamente affinchè il movimento in quanto tale crescesse, si sviluppasse, esprimesse una propria soggettività. Soggettività che – è bene sottolinearlo – non è fissata in modo statico ma è in divenire.

Il GSF non è un altro partito con cui avere relazioni più o meno diplomatiche; è una “istituzione di movimento”, un coordinamento di esperienze radicate sul territorio che si riconoscono, si relazionano e si modificano a partire dalla comune opposizione al neo liberismo e dalla proposizione di politiche e modelli sociali a questo alternativi. Il movimento non è una “cosa” o un fatto statico con cui relazionarsi, ma la possibilità concreta che il malessere sociale e la diffusa paura per il futuro – che fino ad ora ha trovato sbocchi politici principalmente a destra – rompa la cappa dell’ideologia dominante costruendo prospettive e modalità espressive di un nuovo percorso di trasformazione sociale.

Il movimento sta incidendo sui rapporti di forza complessivi e permette che centinaia di migliaia di persone – in particolare giovani – inizino a pensare non solo che ribellarsi è giusto ma anche che ribellarsi è possibile. Dentro questo percorso portiamo i nostri contenuti e cerchiamo di imparare dagli altri. Abbiamo rifiutato la via del rapporto diplomatico con la dirigenza del GSF o il rapporto pedagogico col movimento in cui spiegavamo – dall’esterno – cosa era giusto e cosa sbagliato. Ci siamo conquistati nel “fare comune” il diritto di dire la nostra come parte integrante del movimento di massa. Per questo abbiamo partecipato come delegati – e non come invitati – alla Conferenza di Puerto Alegre.

Se non avessimo seguito questa strada e ci fossimo collocati fuori dal movimento costruendo un rapporto “tra soggettività distinte”, avremmo da un lato fortemente indebolito il movimento stesso e la sua possibilità di crescita; dall’altra avremmo condannato il nostro partito ad una posizione testimoniale, di chi esprime giudizi dall’esterno, e al massimo spera di trarre dal movimento qualche profitto elettorale. Questa scelta avrebbe determinato la residualità e il carattere elitario e non di massa del nostro partito. Abbiamo scommesso sulla costruzione del movimento standoci dentro fino in fondo perché questo rappresenta la possibilità concreta di riaprire a livello di massa la questione dell’alternativa di società, nella piena consapevolezza che la discussione sulle prospettive del movimento la si fa da dentro il movimento e non da fuori.

Contro liberismo o contro capitale?

Un secondo punto di discussione riguarda il rischio che i movimenti disancorati da una prospettiva di classe non si pongano contro il capitalismo ma – come ci dicono Burgio e Grassi – “rifluiscano inconsapevolmente (sic!) su piattaforme deboli e puramente compatibiliste”.

In primo luogo a me pare evidente che ogni movimento sociale a base di massa nasce contro delle forme specifiche di oppressione. È sempre stato così; schematizzando nel ’17 a partire dalla lotta alla guerra, nel 43/44 a partire dalla lotta di liberazione intrecciata con la lotta salariale, nel ‘69 contro lo sfruttamento in fabbrica, passando per le lotte anticoloniali, contro la guerra in Viet Nam, ecc. In altri termini mi pare che un movimento di massa per sua natura nasce principalmente contro forme specifiche del dominio capitalistico; chiedere ad un movimento di nascere contro il capitalismo in quanto tale è una utopia intellettualistica e non materialista. Lo sciopero dei metalmeccanici del 6 luglio non è stato fatto contro il Capitale ma contro la Confindustria a partire dal contratto e da questo può crescere. I movimenti sociali, partendo dal loro specifico, possono arrivare – nello scontro con l’avversario, nel dialogo con gli altri soggetti in lotta, attraverso l’acquisizione di rinnovati strumenti teorici – a padroneggiare la complessità delle relazioni sociali e quindi a condurre una lotta per la trasformazione sociale complessiva. Li dentro si gioca la nostra partita di comunisti.

Da questo punto di vista solo una terribile miopia politica può impedire di vedere come il movimento di Seattle rappresenti un esempio straordinario per la rapidità con cui ha colto i nessi e le relazioni generali. Dopo il preludio costituito dalla conferenza delle donne di Pechino, il movimento nasce a Seattle come movimento composito (lavoratori, ambientalisti, contadini, giovani, donne, ecc.) che identifica il comune avversario negli organismi internazionali a-democratici che distruggono i diritti di tutti su scala mondiale. L’identificazione dell’avversario comune è la base materiale della possibile unificazione del movimento perché come giustamente dice Marx “I singoli individui formano una classe in quanto debbono condurre una lotta comune contro un’altra classe; per il resto essi stessi si ritrovano l’uno contro l’altro come merci nella concorrenza”. Il movimento segna il suo passaggio alla maturità a Puerto Alegre in un incontro che è convocato sulla parola d’ordine “un altro mondo è possibile” che vara una piattaforma organicamente antiliberista; incontro – è bene ricordarlo – e che ha come spina dorsale il partito dei lavoratori e la centrale sindacale brasiliana.

Il movimento italiano partecipa ai comizi allo sciopero della FIOM e la FIOM partecipa alla manifestazione di Genova.

Cosa c’entri questo con Veltroni e come si possa dire che è “indispensabile evitare che l’attenzione concentrata su Genova (e in genere sulle critiche alla “globalizzazione”) servano in sostanza a sancire formalmente l’irrilevanza e, al limite, l’illegittimità di qualunque altro ambito di conflitto, a cominciare proprio dal conflitto operaio e sindacale in genere” (come affermano Grassi e Burgio sul Manifesto) non riesco proprio a capirlo.

Il punto politico è che la crescita di questo movimento rompendo la cappa ideologica dell’immodificabilità delle politiche economiche neo liberiste favorisce la ripresa del conflitto di classe e l’impegno dei comunisti oggi deve essere teso – all’interno dei movimenti – a costruire il massimo di dialogo e unificazione fra tutti i soggetti oppressi dalle materialità concreta in cui si presentano i rapporti sociali capitalistici.

La prospettiva

Da ultimo voglio toccare quello che a me pare il vero nodo politico che abbiamo dinnanzi come movimento. Dobbiamo evitare che la repressione di piazza che i governi hanno scelto a Napoli e in forme criminali a Genova, spinga il movimento in una spirale che si risolva nella lotta alla repressione o nella discussione sulle forme di autodifesa del movimento stesso.

È evidente che il governo cerca di trasformare il movimento in un problema di ordine pubblico e questo è il corrispettivo politico all’assenza di margini riformisti all’interno del paradigma neo liberista. Questo movimento, ponendo una domanda di radicale trasformazione del modello di sviluppo non è minoritario ma anzi è potenzialmente maggioritario tra la popolazione. La forza del movimento è quella di aver colto un punto di crisi reale dell’egemonia liberista (cioè della forma in cui si presenta l’attuale fase di sviluppo capitalistico oggi) e di proporne il rovesciamento.

Credo che ogni discussione sulle modalità di organizzazione delle forme di lotta debba avere al centro la scelta politica della non violenza. Questo perché è l’unica scelta che oggi permette una capacità espansiva del movimento sia sul piano del consenso che della partecipazione attiva.

Questo perché è l’unica scelta che permette al movimento di continuare a governare e a decidere le proprie caratteristiche, la propria soggettività. La concentrazione di potere e la forza degli apparati di coercizione degli stati – infiltrazioni comprese – è tale da sfigurare la fisionomia di qualunque movimento che si ponesse in termini “militari” il problema di forme di autodifesa.

Il punto non è quello di rimuovere il problema del potere ma quello di valorizzare la crescita di una articolazione dei poteri per limitare quello connesso al “monopolio della forza fisica legittima” degli stati. Gli zapatisti hanno scelto di deporre le armi per andare a Città del Messico facendosi “difendere” dal consenso popolare e dalla visibilità della loro azione politica sotto le telecamere di tutto il mondo.

Fino a quando i governi occidentali avranno il problema del consenso una partita decisiva si gioca sul terreno della costruzione di un senso comune di massa o, per banalizzare, della cosiddetta opinione pubblica. Per non fare che un esempio, organizzare meticolosamente la massima trasparenza delle lotte del movimento con la presenza di giornalisti, avvocati, testimonial, cioè di operatori del diritto e dell’informazione serve più di qualsiasi manico di piccone.

Il punto non è di scegliere la disorganizzazione. Il punto è scegliere una modalità di organizzazione che non si contrapponga frontalmente sul terreno della forza fisica ma che renda politicamente inefficace questa forma del potere valorizzandone altre. La “democratizzazione della vita quotidiana” per dirla con Lukacs è il terreno su cui può crescere il movimento di massa oggi. Sui modi concreti per realizzare questo percorso dovremo concentrare oggi la nostra attenzione.


* Abbiamo deciso di pubblicare, a proposito del dibattito che attraversò il campo della sinistra ai tempi di Genova 2001, l’intervento di Alberto Burgio e Claudio Grassi – all’epoca esponenti del Prc – pubblicato il 19 luglio del 2001 su “il manifesto”; un intervento di Paolo Ferrero uscito nei giorni successivi su “Liberazione” in risposta a Grassi e Burgio, ed espressione delle scelte che fece Rifondazione Comunista rispetto al movimento altermondialista e alle giornate genovesi. Infine, troverete un intervento di Dino Greco, all’epoca segretario generale della Camera del Lavoro di Brescia, scritto nei giorni immediatamente successivi ai fatti di luglio.


Immagine in apertura articolo da www.sempionenews.it

Print Friendly, PDF & Email