Destra, immaginario e consenso

Guido Caldiron*

Annunciata dalle prime significative affermazioni elettorali degli anni Novanta, la comparsa della nuova destra nel panorama della politica internazionale rappresenta ormai un fenomeno assodato. La novità che si è andata però imponendo nel corso dell’ultimo quarto di secolo è che una tendenza indicata come l’esito di un malessere momentaneo, un epifenomeno atto a incarnare il risentimento e la rabbia montanti verso i ceti politici tradizionali, la crisi della globalizzazione o fasi di crisi economica e sociale (il cosiddetto “voto di protesta”), sembra aver messo radici nelle nostre società fino a divenire una delle caratteristiche di fondo dell’offerta politica mainstream. Senza tornare in questa sede sullo stucchevole dibattito intorno alla forma migliore per definire tali fenomeni (nazional-populismo, nuove destre, estrema destra, ecc), è il senso complessivo di questa sfida che è utile cogliere.

L’istituzionalizzazione della nuova destra

Perché il tema di fondo, come suggerisce Cas Mudde, docente dell’Università della Georgia e membro del Center for Research on Extremism dell’ateneo di Oslo, è l’avvenuta e piena istituzionalizzazione della nuova destra, il fatto che partiti e movimenti a vario titolo riconducibili a quest’area governino o abbiano governato Paesi importanti e rappresentino una componente essenziale della scena politica globale. Nell’introduzione a Ultradestra (Luiss, 2020), Mudde sottolinea come, mentre si accingeva a concludere il libro (maggio 2019), “tre dei cinque Paesi più popolosi del mondo hanno un leader di ultradestra (Brasile, India e Stati Uniti), e il più grande partito politico al mondo è la destra radicale e populista del Partito del popolo indiano (Bjp). All’interno dell’Unione Europea, due governi sono interamente guidati da partiti populisti radicali di destra (Ungheria e Polonia), altri quattro includono partiti di questo tipo (Bulgaria, Estonia, Italia, Slovacchia), e due sono retti con il supporto di un partito populista di destra (Danimarca e Regno Unito)”. Una fotografia a cui si può aggiungere come gli ultimi anni abbiano visto imporsi sul piano internazionale i temi di fondo agitati da queste forze; su tutti, quelli relativi all’immigrazione ma, perlomeno nel mondo occidentale, anche “le riflessioni” sull’identità culturale nazionale e spesso sui ruoli di genere nello spazio pubblico. Allo stesso modo, accanto all’affermazione delle nuove destre, si deve registrare l’adozione di analoghi temi “identitari” da parte di settori importanti del tradizionale mondo conservatore: possiamo citare, oltre al caso dei Repubblicani americani di cui si dirà poi, la linea adottata dai Tory in Gran Bretagna, che ha contribuito alla Brexit nel 2016, le posizioni assunte dai Liberal-democratici giapponesi sotto la guida di Shinzo Abe o, ancora, le durissime politiche anti-immigrati seguite dagli esecutivi liberali in Australia. Un quadro a cui si associano le partnership di governo tra conservatori e nuove destre e che dà corpo all’idea che stia prendendo forma una sorta di “destra plurale” all’interno della quale percorsi eterogenei possono convergere.

L’importanza del nemico

Da quanto detto fin qui, vale a dire dalla constatazione che le nuove destre non incarnano più soltanto un atteggiamento protestatario e anti-sistema, bensì una proposta di governo e, spesso, un’egemonia sul piano se non ideologico perlomeno culturale e del “senso comune”, deriva la necessità di misurare non tanto gli esiti delle performance istituzionali di tali soggetti, quanto piuttosto le modalità attraverso cui il loro appeal presso l’elettorato non sembra mutare malgrado il loro riposizionarsi da forze di opposizione spesso radicale in componenti a vario titolo governative. Si tratta di definire quali codici sensibili scelgano di utilizzare, e quali atteggiamenti adottino per cercare di preservare, una volta al potere, quella patina di “novità” e “irriducibilità” al ceto politico tradizionale che ne hanno in larga parte garantito il successo. Emblematici sono, da questo punto di vista, i due casi europei nei quali la nuova destra detiene da tempo le redini del potere: Ungheria e Polonia. A Budapest, dove Viktor Orbán ricopre la carica di Primo ministro dal 2010, alla guida di un esecutivo dominato dal Fidesz, partito nazionalista di centro legato alla nuova destra europea di Le Pen, Salvini e Meloni, malgrado abbia fatto parte fino allo scorso anno del Ppe, il tema di fondo della politica governativa è da sempre “la caccia” al nemico interno, la “quinta colonna” locale di poteri sovranazionali che avrebbero come obiettivo quello di annullare “la specificità” culturale, religiosa, perfino etnica che la maggioranza ha invece posto al centro della propria azione nelle istituzioni. Da questo punto di vista, la costante polemica nazionalista ha visto di volta in volta il premier indicare nella magistratura, la stampa libera, l’opposizione politica e i sindacati i “nemici” del popolo ungherese, mentre sullo sfondo, con aperti riferimenti alle retoriche complottiste e antisemite d’antan, si staglia l’ombra del “grande burattinaio”, l’imprenditore di origine ungherese George Soros, finanziatore di diverse ONG locali, che favorirebbe l’afflusso di immigrati per mutare il profilo etnico della popolazione magiara. Sorvolando sul fatto di governare da tempo l’Ungheria in base a tali principi, Orbán si è spinto anche oltre, evocando, già nel 2014, la necessità che il Paese adotti un sistema che ha definito come “democrazia illiberale” per preservarne le caratteristiche di fondo: “il nostro colore, le nostre tradizioni e la nostra cultura nazionale”, evitando che “si mescolino con quelle degli altri”. A tale scopo, vanno anche rifiutate, per l’uomo forte di Budapest, gran parte delle politiche della UE.

Analogamente, a Varsavia, dove dal 2015 il governo ruota intorno al partito “nazional-cattolico” Diritto e giustizia (PiS), componente in Europa del cartello dei Conservatori e dei Riformisti Europei guidato al momento da Giorgia Meloni, impegnandosi in una campagna contro l’autonomia della magistratura, per un rigido controllo del sistema dell’educazione pubblica e per una riduzione sistematica dei diritti delle donne, l’esecutivo ha sistematicamente cercato di rimuovere anche tutti gli organismi di controllo e verifica dei poteri, dipinti agli occhi della popolazione come ostacoli alla rivoluzione conservatrice che si intende operare. Più in profondità, come ha sottolineato Aleksander Smolar sulla rivista Pouvoirs (n°118), “opponendo al liberalismo la sua visione di una Polonia solidale, il PiS fa appello alle risorse della tradizione, al bisogno di comunità e di sicurezza”, contrastando gli stessi meccanismi della democrazia rappresentativa in nome di una “pedagogia patriottica” che punta all’identificazione dei cittadini con lo Stato eliminando ogni possibile contraddizione interna.

In altri casi, come quello statunitense ad esempio, è in nome di una legittimità popolare che sarebbe stata violata che si delinea il possibile ritorno al potere della nuova destra. Al momento del suo insediamento alla Casa Bianca, nel gennaio del 2017, Donald Trump aveva spiegato alla folla assiepata di fronte alla scalinata del Campidoglio come fino a quel momento “l’establishment” avesse “protetto se stesso, ma non i cittadini del nostro Paese”, visto che mentre i politici prosperavano, “i posti di lavoro se ne sono andati e le fabbriche hanno chiuso”. Questo era però il passato, proseguiva il miliardario newyorkese, visto che “tutto questo cambia, a partire proprio da qui e da ora, perché questo momento è il vostro momento: appartiene a voi”. Quattro anni più tardi, al termine di un mandato scandito dalla costante delegittimazione delle medesime istituzioni che era stato chiamato a guidare (allo stesso modo aveva scalato da outsider il vertice del Partito repubblicano in occasione delle primarie per la presidenza), il 6 gennaio dello scorso anno Trump ha esortato la folla riunita a Washington “a riprendersi” il Paese dopo l’esito a lui sfavorevole delle elezioni per la Casa Bianca: il risultato è stato l’assalto a Capitol Hill compiuto da migliaia di suoi sostenitori che, al grido di “We the People” (Noi, il popolo), frase che fa da preambolo della Costituzione americana, hanno cercato di rovesciare con la violenza il risultato del voto che aveva visto affermarsi il democratico Joe Biden. A distanza di un anno da quei fatti drammatici, tutto sembra indicare che potrebbe essere proprio Trump il candidato repubblicano nella corsa per la presidenza del 2024: una figura che ha guidato il Paese mettendo costantemente in discussione le basi stesse del funzionamento delle istituzioni democratiche fino ad arrivare a sostenere la tesi che il risultato del voto che lo ha sconfitto è stato una truffa.

E, per quanta ironia si possa aver fatto sul “momento Papeete” di Matteo Salvini dell’estate del 2019, quando il leader della Lega occupava per altro il delicato dicastero degli Interni, la sua richiesta di “pieni poteri” , arrivata allora, sembra inscriversi in questa tendenza delle nuove destre di governo ad agitare minacce interne e internazionali (di volta in volta, i migranti, ovvero non meglio identificati “poteri forti”), oppure il fatto di non avere le mani sufficientemente libere per svolgere fino in fondo la propria azione nelle istituzioni, per rinsaldare il proprio legame con un elettorato che potrebbe essere deluso del passaggio dalla critica al sistema all’occupazione del potere. “Chiedo agli italiani, se ne hanno la voglia, di darmi pieni poteri per fare quello che abbiamo promesso di fare fino in fondo, senza rallentamenti e senza palle al piede”, aveva affermato in quella circostanza Salvini, ribadendo come anche all’interno della compagine di governo c’era un “nemico” da sconfiggere per realizzare davvero quanto promesso ai cittadini.

Sul fondo, con le differenze del caso tra realtà nazionali e tra un partito e l’altro, emerge, accanto al ricorso a una sorta di mobilitazione costante delle proprie fila nei confronti di nemici potenti, l’idea stessa che queste forze possono esprimere nella conquista delle istituzioni, considerata non già come il punto d’arrivo bensì come il necessario passaggio verso una trasformazione ulteriore dello spazio sociale e simbolico della nazione. Può tornare utile in questa prospettiva l’analisi proposta di recente sulle pagine di Le Monde dallo storico Nicolas Lebourg, ricercatore del Cnrs dell’Università di Montpellier e membro del “Progetto sulla storia transnazionale dell’estrema destra” dell’Università George Washington, secondo il quale la nuova destra “può essere definita più attraverso la comune visione del mondo che esprime che nei termini di un programma politico tradizionale”. Due i punti essenziali di cui tenere conto. Da un lato, quello che si può definire come “il cuore” del progetto di tali forze, che esprime una visione organicista del proprio Paese: “vale a dire che difende l’idea che la società funzioni come un essere vivente, e che si tratti, prima di tutto, di rigenerare questa comunità unitaria, che si basi sull’etnia, la nazionalità o la razza”. Quanto alla proiezione verso l’esterno, tali forze “intendono rifondare l’ordine delle relazioni internazionali”. A queste caratteristiche, conclude Lebourg, si possono poi aggiungere “altri elementi comuni, e, in particolare, l’idea di opporsi a una decadenza della società, aggravata dal ruolo dello Stato, nel caso in cui costoro si presentino come agenti del cambiamento dotati di una sorta di missione di salvezza nazionale”.


Guido Caldiron è redattore delle pagine culturali de il manifesto. Studia da molti anni le nuove destre e le sottoculture giovanili, temai a cui ha dedicato inchieste e saggi. Tra le sue pubblicazioni, “Wasp. L’America razzista dal Ku Klux Klan a Donald Trump”, “I segreti del Quarto Reich”, “Estrema destra”, “Populismo globale”.


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