Dove si nasconde il conflitto? Tra frantumazione, criminalizzazione e complottismo

Donatella Di Cesare*

1. Sebbene la pandemia abbia messo allo scoperto le disuguaglianze abissali, il principio esteso dell’indebitamento, la degradazione irreversibile dell’ambiente, le incognite dell’accelerazione tecnica, si continua a parlare oggi di «crescita» per indicare non la cura del mondo, bensì il profitto e l’extraprofitto.

E con questo si deve intendere non il prodotto interno lordo, bensì tutto quel che si dovrebbe evitare: crescita di guadagni illeciti, di rifiuti e scorie, di malessere e avvelenamento, di abusi e discriminazioni.

Mai come ora questo profitto appare non solo il sigillo dell’ingiustizia, la garanzia della povertà dei più, ma anche un asfittico vicolo cieco.

Forse più che altrove l’Italia è il laboratorio di un esperimento che ha ben pochi precedenti ed è rappresentato da Draghi, l’ipertecnico che guida la “ripresa”, che presiede al recovery fund, il premier-guaritore che si è fatto carico delle sorti di un paese malato di pandemia, ma anche, prima ancora, di cattiva politica. La novità non deve sfuggire perché ha conseguenze significative sulla società civile. Il tecnico non sembra un passaggio temporaneo, e soprattutto non ha un ruolo ancillare rispetto al politico. Dietro il tecnico spunta l’ingranaggio di una governance amministrativa che rende superflua e vacua la politica. Perché si tratta ormai di scegliere gli strumenti, i mezzi adatti allo scopo, mentre proprio lo scopo, la meta non è più in discussione. È questa già l’autosospensione della politica che avrebbe anzitutto il compito di guardare a visione alternative. Si può in tal senso vedere nel governo Draghi un passo decisivo verso il compimento della governance che amministra l’economia.

Ecco perché a questo proposito sono indispensabili le distinzioni. La pandemia è un’emergenza e va affrontata come tale; c’è un virus sovrano che per molto tempo si è appropriato dello spazio pubblico. Lo stato d’eccezione è quello della sospensione della politica in nome dell’amministrazione tecno-burocratica. Ed è ciò che ha ripercussioni sul lavoro, sull’esistenza, sui rapporti nella società civile.

2. La questione riguarda anche e soprattutto i conflitti che in questa fase si acuiscono, esplodono, ma rischiano poi di spegnersi molto presto, spesso in mancanza di nodi strategici che possano coagularli. I pericoli sono diversi e vanno dalla frantumazione delle lotte, alla criminalizzazione del dissidio, fino a una visione complottistica del potere che spesso condanna all’impotenza.

Sappiamo bene che in quest’epoca di industrie delocalizzate, precariato esteso, ma anche di smart working, isolamento, segregazione, il lavoro non fa più comunità. Ed è, anzi, il modo in cui ciascuno, in un’incessante competizione, gestisce il proprio “capitale umano”. D’altronde, come insegna la biopolitica, è ormai la vita intera, non più solo la forza lavoro, a essere richiesta e fagocitata. Rispetto alle proteste del passato, alle forme tradizionali di lotta, come lo sciopero, questa differenza è decisiva. La frammentazione sta dunque già all’inizio.

Non si esagera dicendo che manca una politica della rabbia, in grado di raccogliere la collera del singolo, le proteste disparate, le lotte diverse e lontane per sollevarle e indirizzarle verso gli obiettivi comuni. La giusta rabbia, spesso isolata, ripiegata su rivendicazioni personali, rischia di implodere in microconflittualità, di dissiparsi nell’odio cieco, di venire quotidianamente consumata dal mercato in modo che nessun deposito di sovversione possa compromettere l’orizzonte ultimo del capitale.

Tanto più questo avviene nella post pandemia, dove ogni conflitto viene già sempre depotenziato, sminuito, pre-giudicato in nome della “ripresa”. Questo modo di attutire e smorzare ogni protesta è diventato sistematico.

3. Ma connesso a questo è un pericolo per molti versi più grave, quello cioè della criminalizzazione. Se non è possibile fagocitare il conflitto, rendendolo dunque irrilevante nello spazio pubblico, allora l’altra via, ormai molto battuta, è la criminalizzazione. Si può dire che quel che la governance non riesce a istituzionalizzare viene semplicemente espulso dalla legalità. Si rimarca così il confine tra quel che è ammesso nello spazio pubblico e quel che è respinto.

Gli esempi sono innumerevoli. Se ne possono citare almeno due che, diversi fra loro, sono diventati emblematici e noti anche fuori dai confini. Anzitutto occorre ricordare la lunga e violenta criminalizzazione a cui per anni è stato sottoposto il movimento No Tav. Ma l’altro esempio, particolarmente significativo per le sue ripercussioni politiche, è il modo in cui lo Stato nella sua deriva sovranista e securitaria ha inferto un colpo durissimo al modello di accoglienza delineato e realizzato da Mimmo Lucano a Riace. Come sappiamo non si è trattato solo di accoglienza. Le vecchie case del borgovenivano concesse in comodato d’uso ai richie- denti asilo, mentre per le attività commerciali si favoriva l’autogestione. In breve, Riace era diventato modello di bene comune per stranieri e residenti. Non è un caso che questo modello ben funzionante di accoglienza diffusa aveva attirato l’attenzione del mondo.

A partire dal 2017 ha cominciato a prendere piede un subdolo piano di smantellamento di tutto quel che era stato costruito. Sono stati tagliati i finanziamenti al comune e Lucano, sindaco per tre mandati, è stato arrestato con numerose accuse pretestuose. Rispetto invece alla denuncia di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”, per aver aiutato una donna nigeriana a ricevere un permesso di soggiorno grazie a un matrimonio e per aver agevolato nella raccolta dei rifiuti due cooperative che impiegavano immigrati, Lucano ha sostenuto: “se è reato soccorrere chi è in difficoltà, mi dichiaro colpevole”.

La storia di Riace mette allo scoperto il significato della criminalizzazione che vuol dire depoliticizzazione. In altri termini chi provoca un conflitto non gestibile, ad esempio disobbedendo ai dettami della nuova necropolitica che indica nel migrante il nemico, viene interdetto dallo spazio pubblico e denunciato come fuorilegge. Non deve rispondere delle proprie azioni nello scenario della politica, bensì in tribunale, sul banco degli imputati.

Questo vale potenzialmente per ogni dissenso. Ma vale tanto più là dove viene per così dire minacciata l’architettura politica, in quelle lotte, cioè che mettono in discussione i confini stessi e l’ordine statocentrico. C’è da credere che questa criminalizzazione andrà sempre più aumentando e coinvolgerà ambiti e settori sempre più ampi.

4. Non si può infine trascurare la grande questione del complottismo che investe oggi la società civile con conseguenze devastanti per una politica di sinistra. Ed è preoccupante che tutto ciò non sia stato ben focalizzato e adeguatamente discusso. Non c’è dubbio, infatti, che il complottismo sia una dirompente arma di depoliticizzazione di massa. E perciò finisce per avere un effetto analogo a quello della criminalizzazione del dissenso.

Il complotto è diventato ormai lo schema prevalente attraverso il quale si guarda al potere. È questo, al fondo, il grande problema. Nel regno dell’economia planetaria il potere, lontano e scisso dalla sua fonte popolare, appare sempre più indiscernibile. Sfuggente, ubiquo, reticolare, proiettato sui canali della tecnica e sui flussi dell’economia, privo di centro e forse di direzione, non ha volto, non ha nome, non ha indirizzo. E tuttavia non è meno violento.

Il disagio avvertito da chi ne è colpito sta proprio nella difficoltà di localizzarlo. Si percepisce solo la presenza diffusa. Deriva da qui la crisi della rappresentanza. Il cittadino si sente ingannato; perciò diventa incerto, guardingo, sospettoso. Ed è giusto che continui a esserlo. Al sospetto e al dubbio non si deve rinunciare e l’anticomplottismo di maniera non è in nessun modo la via d’uscita.

Ma nella denuncia sistematica dei “poteri forti”, che confiscano la sovranità del popolo governando per il proprio profitto, il complottismo converge con molta parte del populismo di destra. Agitare l’incubo del caos, lo spauracchio dello “Stato profondo” e del governo planetario occulto, è un modo caricaturale, e tuttavia temibile, di cavalcare il malcontento indirizzandolo verso bersagli fantasmatici. Oppure votandolo all’impotenza, cioè a un potere negativo e a una condizione vittimaria.

Così si avalla una logica autodistruttiva che, se da un canto contribuisce allo svuotamento della politica, dall’altro porta la vittima a dibattersi in un labirinto sempre più spettrale. Anche sotto questo aspetto il complotto è il modo di orientarsi nel paesaggio complesso del capitalismo avanzato di chi, arrendendosi all’illeggibilità, che finisce per scovare società segrete e segreti agenti, anziché confrontarsi con i veri oppressori. In tal senso il complotto è una diversione politica.

Se la denuncia poliziesca si squalifica da sé, non è con l’epidemia di mille verità alternative che si contesta il potere. Questo significa, anzi, restare nell’ingranaggio e spingerlo avanti. Proprio perché il complottismo è un’arma di depoliticizzazione di massa, è necessaria una riflessione politica che contribuisca a congedarsi da quello schema esplicativo totalizzante che rischia di diventare il vicolo cieco di ogni lotta.


* Donatella Di Cesare è una filosofa, saggista e accademica che insegna Filosofia teoretica alla Università “La Sapienza” di Roma. Ha pubblicato numerosi libri, scrive su Repubblica e l’Espresso ed è una delle filosofe più presenti nel dibattito pubblico italiano e internazionale, sia accademico sia mediatico.


Foto da commons.wikimedia.org

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