Dove voleranno gli uccelli dopo l’ultimo cielo?

Ali Rashid*

Scorrono l’immagini, si susseguono . la mente cessa di pensare : gli Ddifici crollano, corpi smembrati e feriti  cessano di chiedere aiuto.

Una mae ninin u mae

U mae Ierfe grasse au su

D’ame d’ame…

Il mio bambino il mio

Il mio

Labbra grasse al sole

Di miele di miele

Tumore dolce benigno

Di tua madre

Spremuto nell’afa umida

dell’estate, dell’estate

E ora grumo di sangue orecchie

E denti di latte

E gli occhi dei soldati cani

Arrabbiati

Con la schiuma alla bocca

Cacciatori di agnelli

Continua cosi.

A inseguire la gente come selvaggina

Finché il sangue selvatico non gli ha spento la voglia

E dopo il ferro in gola i ferri della prigione

E nelle ferite il seme velenoso della deportazione

Perché il nostro della pianura al molo

Non possa più crescere albero né spiga né figlio

Ciao bambino mio l’eredità è nascosta

In questa città che brucia

Nella sera che scende

E in questa grande luce di fuoco

Per la tua piccola morte.

Fabrizio de André scrisse questa canzone, Sidun, nel 1984 per esprimere la sua testimonianza dopo l’invasione del Libano nel 1982 e la distruzione dei campi di palestinesi intorno alla città di Sidone molto prima del 7 ottobre 2023.

Inutile cercare buone notizie provenienti dalla Palestina e da Gaza. Ogni giorno si allunga l’elenco dei soprusi e ogni giorno i soprusi acquistano maggiore legittimità. Vano lo sforzo di raccontare il genocidio, come è vano il tentativo di raccontare 75 anni di persecuzione con piccoli e grandi crimini contro l’umanità:

Sono 75 anni di inesorabile annientamento di un popolo e la sua storia di fronte alla prepotenza e al trionfo dei coloni conquistatori. Le immagini che arrivano dalla Palestina mettono davanti agli occhi di chi vuole vedere il contrasto radicale tra due realtà, storie, nonché condizioni di vita ,angosce e prospettive. E non dal 7 ottobre.

Sulla parte preponderante dello schermo, appare uno stato trionfante e sicuro di sé, che si è fatto forza in tutti questi anni dall’immagine della vittima per eccellenza della persecuzione e della vessazione di un tragico passato.

Arrogante e soddisfatto dalle sue conquiste, incurante e impermeabile alla sofferenza che ha inflitto e infligge, circondato, foraggiato e sostenuto dal peggio di ciò che la cultura occidentale ha prodotto, animato da un delirio di superiorità e dominio che nasconde a malapena l’angoscia latente che il meccanismo si possa inceppare.

Dopo 75 anni lo Stato d’Israele ha perso molto della sua ingannatrice vivacità culturale a favore di un’omogeneità selettiva dove prevalgono le tendenze religiose fondamentaliste e nazionaliste pseudo-fasciste contro ogni altro da sé (palestinesi in particolare), che pure non riesce più a nascondere le divisioni interne sulla base della provenienza etnica o dal tipo e di grado di religiosità di ogni gruppo. Uno stato etico (l’opposto di stato di diritto) dove la cittadinanza si misura sull’appartenenza al “popolo eletto” e un esercito forte e moderno circondato da un nemico forte e quindi da temere.

Cosi in ogni giorno in cui muoiono altre mille palestinesi e diversi migliaia finiscono in ospedali, devastati e distrutti come obbiettivi mirati, e altrettanti ancora sotto le macerie, tutto questo può diventare per Israele e per le cancellerie occidentali il diritto all’autodifesa.

Dall’altra parte, in un piccolo angolo dello schermo, uscendo dal dimenticatoio e pagando un alto prezzo di sangue, dentro il più grande carcere a cielo aperto del mondo, appare una moltitudine di tutte l’età correre in ricerca di un solo posto sicuro che non trova. Il confine della sua prigione si trasforma in una fossa comune priva di lapide.

Nel inferno di Gaza sono finiti tutti gli abitanti di città delle coste meridionali della Palestina un tempo floride, espulsi dopo il massacro di Lud e Ramleh nel 1948 per mano delle bande armate sioniste nella operazione militare Taher (“pulire”), come Ascalan, porto antico del mediterraneo, nodo importante dei traffici marittimi in tutte le epoche. Da lì, insieme al porto di Akka e di Tiro, sono partiti i primi Fenici per approdare sulla sponda occidentale del mediterraneo portando con sé il primo alfabeto.

A due passi da dove si insediò Abramo e sua moglie, ospitato dal Re cananeo di Gerusalemme Melchisedec (Malek al Sadek), raffigurato nei mosaici romano-bizantini della basilica di San Vitalke a Ravenna, prima ancora che  nascesse la sua stirpe che diede secoli dopo i discendenti ebrei e musulmani. Li sbarcarono le truppe più barbare e sanguinarie delle Crociate per dare il via al regno di Ascalan che si estendeva fino all’attuale Giordania.

A due passi dal confine settentrionale di Gaza, giacciono le rovine e ciò che resta della città di Magdal, dalla quale proveniva Maria Maddalena. Il nome della città significa in arabo “telaio”. In tutte le epoche ha rappresentato la città leader del tessile insieme a Damasco e Safad in Galilea.

Persino i disegni del ricamo nelle città dell’altra sponda mediterranea portano ancora l’impronta cananea di Magdal.

La storia non inizia il 7 Ottobre. Gran parte di Gaza fu distrutta durante l’operazione militare “piombo fuso” del 2008 e le successive tre guerre israeliane. Le rovine sono ancora li perché Israele non permette l’ingresso del materiale edile necessario per la costruzione.

L’unica centrale elettrica è spesso fuori uso per mancanza di carburante e la popolazione rimane al buoi e si interrompono tutti i servizi compreso gli ospedali.

Israele continua a sottrarre l’acqua dolce dalla falda di Gaza per irrigare le nuove colonie e insediamenti agricoli ai suoi confini, causando l’infiltrazione di acqua salina e privando la popolazione della acqua potabile. Oltre a trasformare in carcere a cielo aperto, l’emergenza rifiuti e delle acqua reflue la trasforma in una grande discarica.

Degli attuali 2.500.000 abitanti di Gaza, due terzi vivono nei campi dei rifugiati dal 1948, accatastati in una striscia di terra di 376 km quadrati. Dalla quale non possono uscire, e tutto quello che entra deve essere autorizzato da Israele. Quando uno di loro si affaccia alla finestra e guarda oltre il recinto, per sfuggire all’opprimente realtà, rivede il racconto mille volte ripetute di quello che un tempo eravamo, e non gli resta che il suo corpo, la carne viva contro un confine inventato, contro lo sbarramento di fuoco dei cecchini, nella speranza che qualcuno possa raccogliere questo grido di dolore contro l’occupazione, l’ingiustizia , il disprezzo come oggettiva narrazione che nobilita il sopruso e che agli occhi dei palestinesi non è che la Nakpa. La catastrofe.

Riguarda l’antica storia come la quotidianità del vivere, stravolgendo cosi la verità. Cosi i neonati di Gaza morti per interruzione della corrente elettrica, diventano effetto collaterale inevitabile, e così la distruzione di una intera città, la pulizia etnica, persino il genocidio diventano il diritto d’Israele all’autodifesa, sostenuto anche dal governo italiano.

Edward Said nel suo racconto Dopo l’ultimo cielo di molti anni fa scrisse cosi “ dal 1948 abbiamo una esistenza minore. Molta parte del nostro vissuto non è stata documentata, molti di noi sono stati uccisi, colpiti da lutti, azzittiti senza lasciare tracce, l’immagine che ci rappresenta ci diminuisce. Un gruppo umano con tutte le contraddizioni, attivo, simpatico, sensibile, coraggioso, vivace e tenace, ma prigioniero dell’ultima domanda espressa dall’ultima poesia di Mahmud  Darwush nel 1982 dopo l’uscita da Beirut e dopo il massacro di Sabra e Shatil: ‘Dove andremo, passata l’ultima frontiera? Dove andranno gli uccelli dopo l’ultimo cielo?’.


* Ali Rashid,  già primo segretario Ambasciata Palestinese di Roma ed ex parlamentare di Rifondazione Comunista. 

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