Due problemi esiziali per il PRC

Ramon Mantovani*

Ci sono due problemi nel partito che devono essere discussi e risolti. Sono la conseguenza dell’egemonia del pensiero dominante sulla concezione della politica e del partito. In questo modesto articolo mi soffermo solo su questi.

Alleanze e accordi. Strategie e tattiche

La parola “alleanze” è usata ormai da tre decenni per descrivere i processi politici che producono le coalizioni elettorali, Ingenerando, anche in una forza comunista come la nostra, diversi equivoci ed errori. Nella storia repubblicana il PCI ha per lungo tempo avuto un rapporto di alleanza con il PSI motivato dal comune obiettivo di superamento del capitalismo e sorretto dalla costruzione unitaria di grandi organizzazioni di massa. Alle elezioni, con il sistema proporzionale e con il potere reale affidato al parlamento e ai consigli negli enti locali, PCI e PSI presentavano liste diverse e poi poteva succedere che si formassero, a livello locale, governi di coalizione fra i due partiti ed altri partiti minori, facendo accordi programmatici. L’alleanza con i socialisti resistette nonostante l’ingresso del PSI nel governo, verso il quale il PCI fece un’opposizione costruttiva. Tutto questo finì con la svolta craxiana del PSI che ruppe col PCI e si alleò con la DC, diventando il partito rappresentante dei settori della borghesia emergente come Berlusconi. Ma il PCI, nel parlamento e negli enti locali, fece moltissimi accordi con i partiti laici contro la DC sui diritti civili e la laicità dello stato, e con parti significative della DC contro i partiti liberali di destra su molti temi sociali. Nessuno li avrebbe mai chiamati “alleanze”.

Con il disastroso sistema elettorale maggioritario, e l’obbligo di formare due coalizioni per avere il premio di maggioranza e il governo, i mass media e soprattutto i talk show hanno cominciato a usare il termine “alleanza” per indicare coalizioni molto composite al proprio interno, che avevano come unico obiettivo quello del governo dell’esistente. Così convivevano nella stessa coalizione del centrosinistra comunisti, liberali, cattolici, laici radicali o moderati, ex socialisti, ex comunisti, ex democristiani ecc. E nel centrodestra liberali, cattolici anche fondamentalisti, nazionalisti italiani, separatisti del nord Italia, ex fascisti, fascisti, ex socialisti, ecc.

Ora, la parola “alleanza” si può usare dandole diverse accezioni oltre a quella etimologicamente più corretta, e cioè relativa alle alleanze fra Stati in previsione o in esecuzione di conflitti militari. Ma dal punto di vista politico come si fa a definire “alleanza” quella fra comunisti e liberali? O quella fra separatisti del Nord e nazionalisti sciovinisti italiani?

Atteso che noi siamo comunisti è evidente che possiamo “allearci” solo con chi condivide per lo meno il superamento del capitalismo, anche se con tempi e forme diverse. Sia in Italia sia in Europa e non solo, esistono forze che si dicono di sinistra, ambientaliste e femministe, che pur non dicendosi comuniste possono essere nostre alleate, proprio perché condividono un obiettivo strategico come il superamento del capitalismo.

Nelle elezioni il sistema proporzionale non c’è più. C’è un sistema che fin dalla sua nascita noi tutti definimmo nemico e ideato per estromettere dalle istituzioni le forze antagoniste al sistema capitalistico. Il “voto utile” ad eleggere un governo (e non un parlamento rappresentativo delle classi e delle ideologie del paese) tende ad obbligarci ad entrare in coalizioni facendo accordi con forze non solo diverse ma perfino antagoniste a noi, rischiando di fare il loro gioco e di rimanere ininfluenti ed impossibilitati a produrre cambiamenti e conquiste per la parte di società che vogliamo rappresentare, oppure ad essere estromessi dalle istituzioni per effetto della logica stringente della legge elettorale e del voto utile. In altre parole il sistema vorrebbe condannarci o a essere dentro una coalizione in maniera subalterna o a essere testimoni ininfluenti sulla realtà e quindi altrettanto subalterni al sistema. L’accettazione di qualsiasi di queste due prospettive è un cedimento mascherato da obiettivi velleitari. Non si sconfigge la destra sposando gli obiettivi strategici del centrosinistra perché le politiche neoliberiste sono la benzina nel motore dell’acquisizione di consensi della destra. Tantomeno si può pensare che le lotte, poche e isolate in questa fase di sconfitta storica, siano in grado di rovesciare il sistema e nemmeno di conquistare obiettivi parziali senza rappresentanza nelle istituzioni. In realtà il PRC in questi 30 anni ha dovuto elaborare tattiche per entrare nelle istituzioni a tutti i livelli facendo scelte che in un senso o nell’altro contenevano contraddizioni. Purtroppo concepire ogni accordo elettorale (chiamato “alleanza”) con il centrosinistra o ogni rottura con esso, per una parte del partito, di volta in volta, è stato considerato un tradimento ed ha provocato scissioni motivate dal considerare gli accordi o le rotture problemi strategici, identitari, e non banali scelte tattiche. Se non si capisce che le scelte elettorali sono sempre tattiche e che il sistema maggioritario richiede di fare accordi e non “alleanze” per tentare di rappresentare gli interessi del proletariato antico e moderno nelle istituzioni, e se non si capisce che questi accordi o queste rotture contengono sempre controindicazioni che bisogna misurare bene per fare le scelte opportune, si finisce con lo scegliere una delle due parti in commedia previste dal sistema: o la subalternità o il settarismo impotente.

È tutto abbastanza complicato e non si può affrontare con le semplificazioni (anche queste frutto dell’egemonia avversaria) tipo: “mai col PD” o “sempre in alleanza contro le destre”. Purtroppo gli interlocutori possibili per unire la sinistra d’alternativa sono stati in entrambi i casi portatori di queste due linee subalterne. Bisogna invece usare intelligenza, avere chiara la strategia e mettere in campo una grande duttilità tattica, e bisogna sapere decidere mettendo nel conto contraddizioni alle quali non si può sfuggire né in un senso né nell’altro. Perché la politica per noi è utile solo a modificare la realtà e non a testimoniare la propria fede.

Propongo due esempi (che, ripeto, sono solo esempi): nei comuni e nelle regioni si possono fare accordi su punti programmatici che sono di loro competenza. Per dirlo brutalmente penso che si può fare un accordo contro la speculazione immobiliare e per proteggere i servizi comunali e la sanità dalle privatizzazioni anche con il PD che in parlamento vota l’invio delle armi in Ucraina, perché nessuno ci impedirà in consiglio, che non vota sulla politica estera, nelle piazze e dovunque di difendere le nostre posizioni e di dire anche in campagna elettorale: sì, abbiamo fatto un accordo su questi punti positivi, ma siamo contro la guerra ed anzi, anche per questo, vi invitiamo a votare noi nella coalizione.

E a livello nazionale penso si possa dire noi per tempo che proponiamo un accordo elettorale contro le destre se, e solo se, ci sono punti programmatici come, per esempio, l’abolizione del precariato, fermo restando che sui punti come la guerra noi continueremo a votare contro. È quasi sicuro che ci rispondano di no, ma almeno si saprà chi siamo noi e cosa vogliamo e chi sono loro. Certo per fare così bisogna avere un partito convinto e libero dall’egemonia che fino ad ora l’ha largamente dominato fino al punto di non fargli più distinguere strategia da tattica ed alleanze da accordi elettorali. Il che ci porta al secondo punto che voglio trattare, molto più brevemente del primo.

Un partito unito, culturalmente plurale, ma non organizzato per correnti

Per le origini e per le divisioni manifestatesi sulle scelte tattiche di cui sopra, il nostro partito è ormai da moltissimo tempo organizzato per correnti. Ma un partito comunista non può esserlo. Perché il suo compito è produrre azione, organizzando lotte, facendo battaglia culturale di cui l’analisi raffinata della società e delle sue contraddizioni è fondamentale, e agendo in rapporto con alleati e con altre forze politiche con le quali si possono fare accordi, elettorali o meno. Tutte cose che richiedono una discussione libera da vincoli di fedeltà a una corrente, nella quale ogni compagno e compagna possa dare il suo contributo senza dovere essere per forza in una corrente che predigerisce tutto per poi confrontarsi con altre correnti, trasformando gli organismi dirigenti in un parlamentino con le dinamiche proprie di un parlamento borghese dove ci sono un governo e opposizioni. È molto difficile perché basta che un gruppo, o peggio ancora un dirigente, formi una corrente per obbligare, suo malgrado, il resto del partito a fare lo stesso. Così le differenze nei congressi si radicalizzano, invece che cercare sintesi, per ottenere consensi allo scopo avere più posti negli organismi dirigenti, selezionandoli per fedeltà e non per capacità. Se poi si arriva al limite per cui chi si trova in minoranza su una decisione, invece di accettarla e tentare di applicarla lealmente, la boicotta e/o pratica all’esterno la propria “linea” si infliggono al partito ferite incurabili che producono abbandoni, rancori e deterioramento della vita interna. Così, banali divergenze tattiche, di cui non bisogna avere paura perché arricchiscono la discussione, diventano impropriamente strategiche. Così si usano pesi e misure diverse per valutare compagne/i e strutture del partito secondo gli interessi della corrente. Così per perseguire lo scopo della corrente, strutture locali reclutano solo persone affini alla corrente lì dominante e allontanano nei fatti le altre. Purtroppo questo è lo stato attuale del nostro partito. Oggi corriamo il rischio di trasformarci in una forza politica insignificante e, con il “mai col PD”, settaria. Per questo il prossimo congresso deciderà sulla vita o meno del nostro partito.


*Fra i fondatori di Rifondazione comunista, già plurideputato nelle liste del Prc e responsabile “esteri”; oggi membro del Cpn.

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