Ecco s’avanza uno strano soldato. Catena del valore, logistica, lotte dei facchini

Roberto Montanari*

“Ci hai mai pensato che le lotte nella logistica oggi, Italia 2020, sono forse le uniche, assieme a quelle dei rider, a non avere carattere difensivo?” (Sergio Bologna – il manifesto 22 maggio 2020)

“… L’integrazione della classe operaia dentro il sistema diventa necessità vitale per il capitalismo: il rifiuto operaio di questa integrazione impedisce al sistema di funzionare.” (Mario Tronti – Quaderni Rossi, 1962)

Se vi è un indubbio talento del capitale, questo consiste nella sua capacità di mutamento; un istinto addirittura superiore a quello dei virus poiché non cambia solo se stesso, ma pure il contesto in cui si sviluppa, antagonisti compresi.

Il boom economico degli anni ’60, le trasformazioni geopolitiche postcoloniali, il protagonismo operaio in Occidente e non solo, la digitalizzazione, la globalizzazione dei mercati, hanno portato all’intuizione padronale codificata nei primi anni ’80 da Michael Porter con la formula del “vantaggio competitivo”, concretizzatasi poi nelle catene del valore.

Un’architettura produttiva che aggiunge valore al valore

Le differenti fasi dell’attività aziendale sono state analizzate e suddivise in sezioni per comprendere la capacità di contributo di ciascuna alla creazione del valore aggiunto.

La catena del valore è una sorta di ossimoro dell’organizzazione produttiva capitalistica nella quale la frammentazione è finalizzata a mettere in concorrenza tra loro le parti che cooperano distinte, ma unite per il massimo profitto della filiera.

Il segmento logistico ha l’importante funzione di velocizzare il più possibile il ciclo di rotazione del capitale nel percorso che porta il denaro a trasformarsi in merce.

Le attività operative sono quindi supportate da: logistica in ingresso (movimentazione di materiali a supporto delle linee di produzione), logistica in uscita (stoccaggio del prodotto finito, e movimentazione verso il mercato), logistica distributiva (dentro la grande distribuzione organizzata, nell’ultimo miglio del commercio online), assistenza al cliente (confezionamento, servizi post vendita, ritiro prodotti difettosi e riconsegna).

L’essere una piattaforma naturale baricentrica ai grandi corridoi internazionali da Singapore a Rotterdam, alla “Via della seta”, sul Mediterraneo, nonché deindustrializzazione e delocalizzazione delle attività produttive hanno fatto della logistica uno dei pilastri dell’economia italiana.

Parliamo quindi di un’attività articolata e stratificata che richiede un elevato livello di composizione organica del capitale, con professionalità ben distinte per specializzazioni: per la logistica del freddo e del fresco (settore alimentare), del bianco (elettrodomestici), del fashion (confezionamento, moda), del bricolage, della consegna a domicilio etc.

Non si tratta di teorizzare alcuna centralità, ma è fuori dubbio il peso di questo settore della catena del valore nell’organizzazione del conflitto di classe, nell’efficace attacco ai punti deboli del capitale, nel lavoro di ricomposizione della classe sia nelle forme di resistenza odierne, che nella prospettiva della costruzione di un blocco sociale anticapitalista.

Non una nuova/altra classe, ma “soggetti nuovi che producono nuovamente conflittualità”

Pur essendo collocato in segmenti distinti dalla produzione, il lavoratore della logistica rappresenta a tutti gli effetti la figura classica del proletario, che coopera alla creazione di ricchezza così come la spiega il Moro di Treviri: “…il valore d’uso delle cose non si realizza che nel loro consumo, e il loro consumo può renderne necessario il cambiamento di luogo, quindi il processo di produzione aggiuntivo della industria dei trasporti. Il capitale produttivo investito in questa industria aggiunge perciò valore ai prodotti trasportati, in parte mediante trasmissione del valore dei mezzi di trasporto, in parte mediante aggiunta di valore ad opera del lavoro di trasporto. Come in ogni produzione capitalistica, quest’ultima aggiunta di valore si suddivide in reintegrazione del salario e in plusvalore.” (Il Capitale – libro II – capitolo VI – Costi di circolazione § III Spese di trasporto).

Il nuovo millennio si è quindi presentato con una struttura produttiva estremamente parcellizzata sul piano globale, con un tipo di lavoratore “pensato” per essere inconsapevole della complessità dei processi, isolato nel suo segmento, ricattato dalla precarietà del mercato del lavoro, emarginato nel contesto sociale in cui vive. Ma i conti sono stati fatti male.

Un po’ ovunque, ma specialmente in Italia, a partire dalla prima decade del nuovo secolo i facchini e i corrieri hanno dato vita a un ciclo di lotte durissimo e inaspettato che ricorda l’esplosione operaia del 1969. … Ricorda, ma è cosa diversa, molto diversa.

Intanto i lavoratori della logistica hanno agito conflitto senza riuscire a produrre egemonia. Non c’è stata alleanza con altri strati sociali, sono mancati gli intellettuali, solo ora si sta strutturando un rapporto col movimento degli studenti, soprattutto la linea di frattura non ha riguardato il piano politico-istituzionale, è stata ed è pienamente sindacale, contenuta nel perimetro di un intransigente sindacalismo di classe, non collaborazionista e compatibilista come quello di Cgil-Cisl-Uil, ma centrato sulla resistenza a forme di sfruttamento ottocentesco e sulla difesa della propria dignità.

Le multinazionali e i players della logistica applicano a fondo il paradigma di Porter. Tutto viene esternalizzato nel sistema degli appalti che schiera accanto a sparuti gruppi di lavoratori diretti dipendenti dei committenti una classe operaia di serie B che con peggiori condizioni economiche e normative lavora in cooperative farlocche, società di servizio, o sotto forma di finte partite Iva. Questo far west è stato plasticamente descritto come un eccesso di esternalizzazioni nella prima grande inchiesta giudiziaria portata avanti nel 2011 dall’allora procuratore aggiunto Ilda Boccassini che arrivò a commissariare 5 filiali milanesi di TNT gestite dalle n’drine reggine e dal clan dei Flachi. 

Sono gli anni del lavoro nero, delle buste paga false, del furto di TFR, ferie, dell’inquadramento ai livelli più bassi, dell’obbligo di straordinario non pagato, degli infortuni sul lavoro trasformati in incidenti domestici, dei contratti a tempo determinato rinnovati col ricatto e per un numero di volte infinito, dei caporali che ti chiamano al lavoro senza preavviso, ecc. ecc.

E’ questo il contesto in cui è nata quella rivolta operaia che ha avuto il merito di riportare legalità e un po’ di contropotere nel magazzino. Sia ben chiaro stiamo parlando di un percorso che ha sanato aspetti macroscopici, ma non ha ancora risolto il problema dello sfruttamento brutale tuttora esistente.

“Artigiani”, non protesi della macchina

Nei sottili disegni del capitale facchino e corriere avrebbero dovuto essere mere pedine di un lavoro disperso molecolarmente sul pianeta, artefici di attività senza qualità, parti inconsapevoli di una macchina diffusa e inafferrabile. Questo però non si è realizzato perché l’umile lavoro di facchinaggio, paradossalmente al contrario del lavoro di catena dell’operaio massa fordista, sarà pure sovrapponibile e ripetitivo, ma richiede una conoscenza dei processi approfondita. Gli algoritmi con cui Amazon predispone un ordine non considerano, ad esempio, la solidità del packaging di un prodotto e se quindi si impilano confezioni rigide sopra pacchi di prodotti più fragili tutto il pallet va a gambe all’aria. Il corriere che consegna a domicilio conosce meglio di qualunque programma digitale gli itinerari, le consuetudini dei clienti, lo stato delle strade e del traffico.

Torna utile, ancora una volta, il riferimento al Marx del Frammento sulle macchine per spiegare che il lavoratore logistico interpreta il rapporto con la rulliera, il carrello, il furgone, considerandoli quali strumenti di lavoro: “… lo strumento, che l’operaio anima – come organo – della propria abilità e attività e il cui maneggio dipende perciò dalla sua virtuosità” (K. Marx, Grundrisse).

Non vi è carrellista che non si consideri uno Schumacher della logistica o pikerista che non si ritenga direttore organizzativo.

Questo abbozzo di consapevolezza è elemento che produce un istintivo rifiuto di integrazione da parte dell’operaio, una forma di autonomia spontanea che spesso si interseca con il rifiuto dell’emarginazione etnica in un settore con elevato numero di lavoratori migranti.

La piena coscienza di classe non è per nulla compiuta, ma solide sono le basi per ottenerla.

Ovvio che il sistema si stia attrezzando per ingabbiare il conflitto; le lotte trovano sempre più spesso risposte repressive: dalle manganellate dei questurini, agli interventi della “sicurezza” privata, passando per le denunce, i fogli di via, i respingimenti delle richieste di cittadinanza, l’arresto dei sindacalisti conflittuali e, non da ultimo, la prospettiva richiesta da più parti di assoggettare il settore della logistica ai vincoli della legge 146/90 con un attacco frontale al diritto di sciopero.

Nuovi scenari dopo la pandemia, la guerra, le inchieste sul sistema degli appalti

Questi tre fattori concorrono a disegnare un nuovo contesto nel quale contraddizioni differenti vengono univocamente usate per intensificare lo sfruttamento del lavoro vivo.

La fragilità delle economie non pianificate ad affrontare gli effetti del Covid, la scarsità di rifornimenti, la dipendenza dalla forniture cinesi, ha generato il cambio di strategia dalla logistica del just in time (stoccaggio di scorte al minimo) a quella del just in case (aumento delle scorte per poter affrontare ogni evenienza).

La guerra della Nato, con la rottura della globalizzazione e la tendenza al friendshoring (rapporti economici solo con paesi politicamente amici) costringe le attività produttive in un mercato più ristretto con minori margini di profitto.

A ciò si aggiunga la bomba giudiziaria delle inchieste sulle evasioni fiscali, contributive e il caporalato nel sistema degli appalti che ha coinvolto multinazionali logistiche del calibro di DHL, BRT, GLS, GEODIS, ESSELUNGA, le quali stanno barattando una lievità delle pene con percorsi di reinternalizzazione dei servizi e dei lavoratori.

Tutto ciò avviene con un ovvio incremento di costi sia in termini di ammortamento di capitale, che di spese di magazzinaggio che rischiano di far alzare il costo del segmento logistico sul prodotto finito (un 7/8% medio, dato divenuto ormai stabile in questo ventennio secondo il Centro Studi Subalpino).

Dentro questa percentuale il trasporto incide per il 44%, il magazzinaggio per il 24%, l’inventario per il 25%. In particolare i costi di trasporto sono costituiti per il 30% dal gasolio, il 26% dal costo del lavoro, il 12% da assicurazioni e pedaggi autostradali, il 32% da manutenzione e pneumatici.

Quindi? Quindi per risparmiare i padroni della logistica tendono a creare in Italia gli stessi standard lavorativi e salariali dei paesi in cui si è delocalizzato: si aumenta il lavoro precario, il part time, il lavoro flessibile, la durata del tempo di lavoro (Cgil-Cisl-Uil firmano convintamente accordi nazionali che prevedono l’aumento delle ore settimanali da 39 a 44), si alzano ritmi e carichi di lavoro (fino a 200 consegne al giorno per un driver, fino a 170/180 colli ora per un facchino).

In conclusione.

La resistenza a questi spiriti animali del capitale dovrà riscaldare l’autunno 2023 con la lotta per il salario minimo e l’introduzione del reato di omicidio sul lavoro, per aumenti strutturali non collegati alla produttività, per la riduzione dell’orario di lavoro, per la riappropriazione del tempo di vita, per un contropotere nel magazzino che liberi dal dominio di capi e capetti.

Il buon esito passa però dalla costruzione di rapporti di forza non solo dentro il segmento logistico, ma anche dalla capacità di connessione con gli altri pezzi della catena del valore, strutturando quella categoria operaia che deve mettere assieme ai facchini, i settori del manifatturiero e della distribuzione.

I lavoratori della logistica in modo forse sgrammaticato, talora ruvido, una scelta di campo l’hanno fatta: è quella di contendere palmo a palmo il terreno ai padroni perché è col conflitto che riescono ad ottenere risultati. Offrono un’indicazione al resto del movimento operaio e anche alla sinistra politica e sociale. Si è utili socialmente se si riesce ad essere gli organizzatori di quel conflitto che produce frattura, efficacia e spostamento in avanti, se si riesce ad essere gli organizzatori di quel conflitto che trasforma i proletari in classe. 

Bisogna provarci, bisogna osare, on s’engage e puis… on voi; non è detto che a Waterloo, stavolta si sia noi a perdere.


* Roberto Montanari. Militante di USB componente dei coordinamenti nazionali Lavoro Privato e Confederale del sindacato. Fa parte della struttura operativa del settore logistica di USB seguendone le attività nel nord Italia. Nel luglio 2022 è stato sottoposto alle misure restrittive della libertà (arresti domiciliari assieme ad altri 7 sindacalisti) con l’accusa di “associazione a delinquere” per l’estorsione di migliori condizioni contrattuali. Accusa rigettata dal Tribunale di Bologna per tutti gli 8 imputati poiché i fatti addebitati sono stati riconosciuti come attività sindacale.


Foto di Luigi Narici/ Agf da repubblica.it

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