Editoriale – Comunicare e immaginare

Dmitrij Palagi

Ma io non ti capisco

Capita di non capirsi, anche fra compagne e compagni. Facendo riferimento a esperienze non condivise, dando per scontato cose che non lo sono, richiamando immagini non riconosciute. Per fare un esempio: al rientro da un picchetto antisfratto, se si racconta quanto avvenuto, una persona in possesso di un solo appartamento (dove vive) spesso si identifica con le grandi proprietà, non con chi rischia di finire per la strada, magari perché considera la sua situazione un punto di arrivo. Quindi meglio pensare di aver “scavalcato” questo tipo di problemi e giudicare chi “non ce la fa” come colpevole della sua condizione. Il tema dell’abitare attraversa in modo particolare il nostro Paese: ha a che fare con l’inclusione, ma anche con la possibilità delle nuove generazioni di uscire dal proprio nucleo di appartenenza senza aspettare per decenni la stabilità lavorativa. Altra espressione con cui si può pensare a immagini diverse è classe operaia: come scritto nel numero sul “caso italiano” è importante comprendere a cosa si riferisce, perché le generazioni più giovani è facile si immaginino solo la categoria metalmeccanica con tuta blu e caschetto.

Quando si verifica una situazione di incomprensione è utile fare un passo indietro, per poter poi procedere più velocemente, altrimenti la discussione rischia di svilupparsi sul niente.

Per dire qualcosa, è fondamentale avere un’idea di quanto si vuole dire: forse siamo arrivati a un punto in cui dovremmo confrontarci su aspetti su cui presupponiamo di concordare, mentre magari ci esprimiamo con termini a cui diamo accezioni difformi. Rifondare.

Non è raro ascoltare frasi come queste: “l’analisi è giusta, i contenuti li abbiamo, ma non riusciamo a farli conoscere”. Meno di frequente il punto sollevato in una riunione può essere: “non riusciamo a farci capire”. Un’altra domanda da porci deve essere aggiunta: tra di noi ci capiamo? Lo diamo per scontato, nonostante la difficoltà nel creare nascita di nuovi percorsi, coinvolgendo generazioni diverse: in alcuni contesti l’età diventa ragione di frattura. Riteniamo valga la pena verificarlo, magari attraverso presentazioni e discussioni della rivista: momenti di dialogo e confronto.

È, forse, l’unico modo per andare avanti, o almeno per avanzare insieme, come dimensione collettiva, senza tralasciare nodi fondamentali dati per assunti senza adeguati chiarimenti.

Quando si vuole stampare un manifesto ci si rivolge a una tipografia, quando si pubblica sulle reti sociali si imparano le regole previste dalle piattaforme, o ci si affida a chi è abituato a usarle, magari coinvolgendo le generazioni native digitali. Quando ci si esprime si parte dall’assunto di avere un messaggio, da adattare al mezzo con cui verrà trasmesso. Talvolta la tecnologia appare una panacea: risulterebbe sufficiente reclutare specifiche figure militanti, o assumere i necessari profili professionali. Una sorta di dipartimento per la propaganda, anche se questo termine è oggi connotato negativamente, almeno in Occidente, perché associato a un cattivo uso delle tecniche di persuasione, a finalità manipolatorie proprie dei regimi totalitari. 

Nonostante il giudizio morale sull’adulterazione, questa continua a far parte della quotidianità nella “libera” società capitalista, ben oltre il confine delle fake news: considerare ineludibile la necessità di una comunicazione esclusivamente performativa ha conseguenze anche sulle qualità dell’informazione e del dibattito pubblico. Anche perché l’invito è solo uno, quello di ricercare il “successo”: il valore di verità si confonde con il numero di persone che lo ritiene vero. Se un concetto si oppone al sentire comune, non c’è dato che tenga. Un rapido esempio. “Gli zingari rubano i bambini”: nella “società della trasparenza” come fa a resistere un simile pregiudizio, nonostante non esistano casi con cui è possibile ipotizzarne la veridicità? Eppure, scrivere una frase pubblica su questo tema, in modo corretto, rischia di esporre a offese e contestazioni. Quindi meglio tacere. Bisogna evitare di fuorviare chi ascolta e legge, ma al contempo occorre tenere sempre alta l’attenzione: non si può annoiare, specialmente in un mondo saturo di impulsi. Non conta il tempo di chi pensa e si esprime, al centro c’è l’attenzione di chi riceve, divenuta un valore di mercato ed essa stessa merce, da vendere a chi sa offrire il meglio (che magari può essere il comportamento di un gatto molto buffo, che raccoglie più like e condivisioni rispetto a un’ostica lezione sulla caduta tendenziale del saggio di profitto). Semplificare, chiarire, decostruire: nell’illusione di un’universalità del linguaggio con la quale si possa arrivare a chiunque nello stesso modo. Si rimuove quanto siano artificiali i meccanismi formativi delle nostre percezioni.

Le piattaforme digitali si sono imposte con le loro logiche: gli altri media, dalla stampa alla televisione, spesso ricorrono a un post o un tweet, nel caso delle figure istituzionali. Per eventi sportivi o musicali sfruttano immagini o video, con cui si definiscono nuovi alfabeti e universi di significati.

Pacificamente si accetta questo paradigma: chiunque può leggere quanto affido alla rete, quindi dovrò saper esprimere qualcosa alla portata di chiunque. Si tratta di un pensiero ingenuo e sbagliato, dato il fenomeno delle bolle, luoghi virtuali in cui le persone sviluppano interazioni basate sul condividere visioni del mondo simili, o comunque compatibili tra di loro (anche laddove fossero in netto contrasto, comunque c’è un elemento di riconoscimento fra le parti).

Provando a sintetizzare: da molto tempo ci si concentra sulla comunicazione politica mediatica più che su quella interpersonale, ritenendo inevitabile come i mezzi determinino in modo esclusivo e totalizzante la cornice in cui poter sviluppare la relazione tra soggetti e soggettività.

Capire dove siamo per capire dove andare

Sappiamo a cosa ci opponiamo, ma per fare concreti passi in avanti dovremmo tornare a confrontarci, sistematicamente e non occasionalmente, su cosa vogliamo, anche in prospettiva, per un futuro che non sia solo l’immediato domani. Esplicitare quali idee ci vengono in mente se parliamo di futura umanità, mettendo a confronto generazioni, storie ed esperienze diverse tra loro, accomunate dalla volontà di costruire un mondo in cui poter stare bene. Sui social si trovano conferme o dure contestazioni (più spesso offese): raramente riescono a essere luoghi di dialogo, sono più simili ad arene, in cui raccogliere applausi ed evitare fischi.

Se sul lungo periodo siamo tutte e tutti morti, nel breve si rischia di ridursi al solo commento.

L’ipotesi di questo editoriale è che nel concentrarci sul tema della visibilità e dell’esterno, si sia perso qualcosa in profondità. Nel rugby è la palla ovale a determinare la linea di fuorigioco; infatti, la si può passare solo all’indietro e chi la ha in mano deve avere tutta la sua squadra di supporto, alle proprie spalle, per avanzare, altrimenti si entra impropriamente nel campo avversario e il pallone passa all’altra formazione. Magari siamo finiti in fuorigioco senza accorgerci che la sfera è rimasta indietro? Capita, se l’obiettivo è avanzare per avanzare, fino a non capire neanche esattamente dove siamo e in che fase della partita ci troviamo, dimenticandosi del senso dello stare insieme.

Al traino dei numeri

Gli algoritmi favoriscono la diffusione nella rete degli autoscatti, l’esposizione del sé in foto, la condivisione di passaggi di vita emotivamente significativi: la laurea, l’inizio di un legame sentimentale, un lutto. È possibile far funzionare un profilo collettivo, di un’azienda o di una qualsiasi organizzazione, ma resta notevolmente più semplice gestire quella della singola persona. Il successo delle realtà commerciali “nella rete” è spesso garantito dalle abilità delle e dei social media manager, in grado di giocare sul piano dell’ironia, partendo dall’autoironia. Se devo parlare di qualcosa da rendere desiderabile, farlo con leggerezza favorisce la possibilità di riuscirci. Mica sto cercando di cambiare il mondo, voglio giusto venderti la mia birra, o magari una bara, o una maglietta (i riferimenti sono a Ceres, Taffo e Feudalesimo e Libertà).

Qui può essere utile una parentesi. Prendersi troppo sul serio non aiuta a comunicare: ancora più tossica è l’incapacità di esercitare il dubbio su ciò che si pensa, evitare di mettersi in discussione, limitarsi a giudicare quanto ci circonda e ritenersi portatori di una verità indiscussa e indiscutibile, individuando come unica criticità la ricerca della forma più utile di veicolazione del messaggio. Così ci si condanna a essere travolti dalle risate, su lungo periodo (nella migliore delle ipotesi). Questa sembra essere uno dei principi ancora non assunti da chi fa politica, in un contesto dove ci si muove senza grande consapevolezza, esclusivamente al traino delle tendenze.

Presupponiamo di dover automaticamente sovrapporre un fenomeno di massa con la sua efficacia, correndo dietro ai numeri in una loro apparente neutralità.

Prendiamo alcuni fenomeni completamente diversi tra loro. Sanremo, nella serata finale di questo anno, ha superato i 13 milioni di spettatrici e spettatori. La fiera Lucca Comics&Games (dedicata al fumetto, ai giochi da tavolo, ai videogiochi e a molto altro) è andata oltre le 500.000 visite nel 2019. Khaby Lame, su TikTok, ha valicato i 100 milioni di follower.

Prima della pandemia si usava misurare la riuscita di un’iniziativa chiedendo quante persone fossero presenti. Ora si contano le visualizzazioni e le condivisioni. Si parla di un generico pubblico, in cui si tengono insieme interazioni diverse. Per contribuire a determinare la classifica dei “più visti” di Netflix, fino al 2021, era sufficiente aver guardato i primi due minuti di un prodotto. Ovviamente i like ottenuti dalla “Bestia” di Salvini hanno un loro ruolo, da soli però sarebbero utili quanto quelli della pagina Marxisti per Tabacci, maggiori dei consensi effettivamente dati nelle urne al politico democristiano. Non troviamo il tempo per approfondire cosa si nasconda dietro alle cifre proposte dalle piattaforme, ma le inseguiamo, in una corsa destinata a non avere fine, esaurendo tutto il fiato a disposizione.

I numeri sono importanti, ma hanno il loro contesto

Ci sono ragazze e ragazzi assenti da Facebook, perché si tratta di un luogo su cui trovano i loro genitori, quindi per incontrare le nuove generazioni si passa su Instagram, dove in questa fase funzionano molto le storie. Poi c’è Twitter, a cui si rivolge un’utenza specifica, di riferimento anche per la stampa tradizionale. Si aggiungono continue novità, come Clubhouse, nato nel 2020 e basato sullo scambio istantaneo di messaggi audio, per alcune settimane fenomeno del momento, a cui hanno prestato grande attenzione molte riviste. Ogni spazio è adatto a un certo tipo di contenuti, a un determinato modo di condividerli. Ognuno di essi richiede tempo, conoscenze ed energie: è inevitabile utilizzarli, specialmente per chi è rimasto fuori dal Parlamento e non può più accedere alle risorse disponibili per chi ha rappresentanza nazionale (non è solo una questione di soldi, ma anche di accesso ad alcuni canali e di percezione di esistenza). Tuttavia, il pericolo è dimenticarsi cosa si vuole dire e a chi ci interessa comunicarlo.

Le parole sono importanti, così come i numeri, purché non li si astragga dal loro contesto, da chi li genera ed elabora. Un evento in presenza, magari in una piazza in cui sventolano le bandiere, annunciato con volantini e manifesti, ha più livelli di efficacia: le persone presenti, chi è venuto a conoscenza dell’appuntamento pur non partecipando e chi passando ne prende atto, anche senza ascoltare gli interventi. I totali a cui abitualmente ci si riferisce per gli eventi telematici sono un insieme dei diversi livelli: servono a poco se presi isolati e senza una specifica strategia.

Se c’è solo il campo di gioco del capitale

Deve essere chiaro quanto il sistema politico si sia schiacciato progressivamente sui campi sviluppati dal capitale. Occorre tornare a bilanciare l’investimento in ricerca di visibilità con la cura del rapporto tra le persone, anche perché la società dello spettacolo e il mito della trasparenza hanno mescolato quanto prima si riteneva separato. Anche molti dibattiti interni si sono spostati drammaticamente sulle piattaforme pubbliche, che pubbliche non sono. 

L’esclusione di CasaPound da Facebook è stata ragione di semplicistica felicità, data l’assenza di un ruolo di qualsiasi istituzione democratica nel confermare questa decisione. Le compagne e i compagni sperimentano l’unilateralità di questo tipo di decisioni quando pubblicano contenuti a supporto del PKK o per chiedere la libertà di Öcalan, considerati di natura terroristica. Spazi curati per anni finiscono per essere cancellati in modo unilaterale e sostanzialmente inappellabile: si è a casa di altre persone, ci si deve adeguare a chi “comanda”. L’Unione Europea si sta interrogando anche su questi aspetti, ma senza un coinvolgimento ampio della politica e dell’opinione pubblica. Le aziende digitali fanno di tutto per rimanere nascoste, fingendo di non interferire sui nostri comportamenti, facendo percepire le loro regole come “naturali”. In realtà definiscono il perimetro di cosa è dicibili e mostrabile, senza sottostare ad alcuna autorità pubblica: si sostituiscono, comprandoci con i loro servizi. Se un Circolo verifica l’efficacia della propria pagina Facebook e investe tutto su questo tipo di comunicazione, una volta eliminato il suo profilo, che può fare?

Questi sono però i casi più estremi, anche perché – ribadiamo – i soggetti gestori dei social hanno tutto l’interesse a non mostrarsi: più problematica è la ricerca del “successo”, l’incitamento a seguire regole artificiali, date per universali e scontate. Chi ha stabilito che il dolore individuale funziona più di una proposta di azione collettiva, o che un link di YouTube è destinato a essere visto meno della foto del proprio corpo mentre si guarda il mare? Eppure, giudichiamo l’efficacia comunicativa solo sulla base di questi numeri, senza considerare altri parametri.

L’alterità necessaria

Esporsi solo per farsi commentare, in barlumi di percettibilità pubblica, condanna a essere una parte marginale del sistema, limitandosi a rincorrere quanto avviene intorno: organizzarsi per agire anche dall’interno a favore del suo superamento presuppone che esista altro. Un altro da far vivere nel presente, senza limitarsi ai residui del passato. Come impedire a Rifondazione di diventare un museo, in cui aspirare al massimo ad assumere giovani figure professionali appassionate alla storia, per custodire un simulacro di comunismo?

La centralità potrebbero assumerla anche altri numeri, come per esempio: le iscritte e gli iscritti, le “nuove tessere”, quelle lasciate dopo uno o due anni, il tempo disponibile per la militanza, le riunioni a cui si chiede mediamente di partecipare a un “quadro”. Fanno parte della cura di una comunicazione apparentemente interna, ma che inevitabilmente influisce su quella verso l’esterno.

Colmare le distanze tra immaginari

Un’esperienza virtuosa sembra essere quella del Collettivo di Fabbrica GKN e del gruppo di supporto Insorgiamo. La notizia del licenziamento ricevuto improvvisamente via mail, ha dato un drammatico protagonismo nazionale allo stabilimento di Campi Bisenzio, dove era presente un nucleo operaio avanzato sul piano della coscienza di classe e dell’esperienza militante. Si è scelto di rompere con il rituale delle crisi aziendali, spostando la lotta nelle piazze, richiamando a una presenza fisica, attraverso video, messaggi da girare nelle chat, mail, post, tamburi, fumogeni, cori, assemblee, cortei, parole d’ordine. Una comunità capace di recuperare dal passato le pratiche e immergerle nel presente, senza schemi predeterminati, facendo forza su centinaia di storie (familiari e politiche) diffuse in tutta l’area metropolitana. Noi esistiamo, non accettiamo di sparire, vogliamo resistere, con chiunque vorrà essere al nostro fianco, senza piangerci addosso e senza arrenderci a forme di nichilismo distruttivo, perché abbiamo la consapevolezza che questa fabbrica appartiene al territorio: un messaggio chiaro, veicolato efficacemente e che a livello locale si è saputo affermare in modo nuovo (almeno per il XXI secolo italiano), partendo dal luogo di lavoro, dalla condizione soggettiva vissuta, per allargarsi attraverso una cura specifica posta alla relazione con il resto, rifiutando l’autoreferenzialità e ricercando condizioni simili, con cui condividere e allargare la visibilità.

Se per parlare di comunicazione e immaginario, tra persone iscritte a uno stesso partito (non di massa), si arriva – talvolta – a prendere atto che ci sono registri linguistici incapaci di riconoscersi, è evidente la necessità di farne oggetto di riflessione. Normalmente chi è più giovane si sottopone al giudizio di chi ha più esperienza, dando per scontato di essere nel torto, oppure pensa di aver capito tutto ritenendosi particolarmente intelligente. Ma se stiamo vivendo in una fase dove “il vecchio non muore e il nuovo non può nascere”, potrebbe essere utile evitare la dinamica dello scontro e trovare uno specifico spazio per questo tipo di discussione. Ritagliare, nelle nostre quotidianità, luoghi e momenti in cui parlare dei nostri linguaggi, di come li usiamo con ciò che sta fuori dal partito. Perché al momento la sensazione è di una frammentarietà e una frantumazione incapace di creare legami: rischiando che non sia solo un problema di forma, ma anche di sostanza.

Generazioni diverse

Chi è nato dopo l’uscita della sinistra di classe dal Parlamento italiano, perché dovrebbe avvicinarsi a una forza politica extraparlamentare da tre legislature (con la parentesi del ritorno a Strasburgo)? Le risposte migliori sarebbero quelle legate a pratiche portate avanti nel presente, a un riconoscimento di utilità da parte delle nuove generazioni. Purtroppo, la sensazione è che al momento prevalga il peso del passato, dall’iconografia del socialismo reale alle esperienze nel movimento dei movimenti (“quelli di Genova 2001”). 

Per esemplificare: parlare di Berlinguer avendo vissuto il periodo in cui è stato segretario del PCI è inevitabilmente diverso rispetto a quanto fatto da Pierpaolo Farina (classe 1989), il curatore di www.enricoberlinguer.it, un sito web di relativo successo, da cui è derivato anche un libro ben distribuito, con prefazione di Eugenio Scalfari. Ancora diverso è l’immagine berlingueriana di chi appartiene alla generazione Z (indicativamente nata tra il 1995 e il 2010), con esperienze inevitabilmente diverse anche tra loro, magari legate ai genitori, ai percorsi scolastici, a quanto trovato casualmente in rete. L’obiettivo dovrebbe essere non quello di costruire un unico profilo biografico, approvato ufficialmente dal comitato centrale, ma mettere a confronto punti di vista diversi, rimettendo in ordine i documenti, le informazioni e anche i giudizi, per permettere alla discussione di vivere nel presente e trovare spunti sull’oggi: il tutto in una comunità aperta che si riconosce come tale.

Diradare le nuvole che coprono il sole dell’avvenire

Nel Novecento si è sviluppato un efficace racconto collettivo di emancipazione delle classi lavoratrici, passato per la sconfitta del nazismo e la Liberazione dell’Italia. Una storia di successo, in cui affondano le loro radici anche i “trenta gloriosi” dell’Occidente. Questa può avere ancora una sua funzione? O è meglio liberare il comunismo da ciò che è stato, senza gettare la camicia sporca (per usare l’espressione di Lenin, quando decise di rompere con la II internazionale e dare vita alla III, in rottura con i partiti socialisti)? 

Se ancora nel 2001 il movimento alter-mondialista offriva la possibilità di tradurre l’anticapitalismo in termini contemporanei, affiancandosi alla storia del socialismo reale, oggi una giovane e un giovane rischiano di avvicinarsi alla falce e martello solo per legami affettivi, o per il fascino di bei tempi andati, mai vissuti. Un rifugio, in cui sopravvivere.

Nelle piazze l’opposizione allo stato di cose presenti però è visibile. In particolare, a prendere voce nelle proteste è chi non ha voce in questa società: giovani, donne e persone discriminate per il colore della propria pelle, chi non può accontentarsi di essere vittima. La rassegnazione per loro è un lusso, socialmente insostenibile per chi non ha le risorse economiche per restare all’interno del paradigma dominante, in cui i diritti civili e ambientali vengono separati da quelli sociali.

Se viviamo in una società dove tre persone su quattro dichiarano di non riuscire a immaginare il futuro, il comunismo deve essere più di un punto di arrivo, in una storia rivolta inevitabilmente al progresso. Il mito della “locomotiva in marcia” potrebbe essere del tutto inefficace in questa fase, se a mancare è il domani da contendere all’avversario di classe: preliminare è la ricostruzione completa di un senso dell’avvenire.

Il mito della sconfitta

La condizione di sconfitta, in cui ci troviamo, può trasformarsi in opportunità, soprattutto se riesce a farsi elemento comune con chi si sente ai margini dello stato di cose presenti: non c’è dispositivo narrativo più forte di chi si rialza dopo la caduta, per non arrendersi.

Un nuovo racconto collettivo, che parta non solo dai bisogni materiali, ma anche dagli immaginari: la ricostruzione di un’appartenenza comune (che non si esaurisce nel perimetro del partito) passa anche dalla capacità di far incontrare il nuovo con il vecchio.

Dopo una sconfitta, ci si rimette in piedi, ci si prende cura di chi è rimasto a terra, si cerca di riconoscere i danni e di capire come ripartire. Ritrovare le disperse e i dispersi, ridare una percezione di utilità al rimettersi insieme, coinvolgere nuove energie: si tratta di una pratica di per sé rivoluzionare, in un mondo dove ci si vuole imporre di essere tutte e tutti in concorrenza tra di noi. Se però la comunicazione interna non funziona, la cosa non funziona, neanche verso l’esterno.

Riconoscersi e capirsi

Le nuove generazioni sono quelle nate in un mondo dove nessun altro mondo sembra possibile: a loro si offre uno scenario apocalittico, soprattutto sul piano dei cambiamenti climatici. La loro capacità di rispondere con gli scioperi globali deve essere sostenuta in ogni modo, perché ha a che fare anche con la rottura del senso di impotenze e rassegnazione.

A loro però non si può chiedere di ripetere le pratiche del passato, con un semplice ricambio di energie. Irresponsabile sarebbe anche chiedere a chi non ha esperienza di riscattare all’improvviso una sconfitta epocale, fornendo soluzioni miracolose.

Anche perché non stanno bene, o meglio, non stiamo bene. Il peso delle disuguaglianze e della precarietà ha devastato la salute mentale di ogni fascia di età, magari con declinazioni diverse. Prenderne atto, sul piano politico e sociale, è un dovere. Non per imporre la felicità come un dovere: a quello ci pensa il capitalismo, trattando ogni disagio come una patologia individuale da risolvere con i farmaci. Si può però farsi carico della rimozione di ciò che impedisce di stare bene, a partire dalle condizioni materiali e arrivando a ricostruire orizzonti di senso con cui dare di nuovo un significato al domani.

La depressione e i casi di ansia sono invece un tabù, nelle nostre comunità. Si pensa che l’unica azione possibile sia quella psicologica e psichiatrica. Eppure, sul piano della medicina legata al corpo, è ormai pacifico come non conti solo il farmaco, nel percorso di cura. Neanche è obbligatorio dover stare bene. L’importante è la persona, con i suoi bisogni e la possibilità di vivere la propria condizione di fragilità con dignità. Questa è stata una conquista, messa in discussione da decenni di tagli al sistema sanitario nazionale, ma ancora evidente, specialmente nel contesto pandemico in cui ci troviamo.

Recuperare il rimosso

Un passo ulteriore in avanti da fare è quello di riconoscere il rimosso dalle nostre società della comunicazione: la malattia, il dolore e la morte. La Covid-19 ha ricordato all’umanità i suoi limiti, ma il sistema fa di tutto per tornare velocemente a farcene dimenticare, riducendo tutto su un piano di eterno presente, in cui consumare merce ed essere merce, alimentando sensi di inadeguatezza e la frammentazione delle esistenze.

Come farlo? Impossibile stabilirlo a priori. Una compagna, durante un’iniziativa con Massimo Carlotto, scrittore impegnato anche a raccontare la solitudine come segno del nostro tempo, è stata molto chiara in un suo commento: «le solitudini tra di loro non comunicano, altrimenti non sarebbero tali». Intercettarle, recuperarle dai margini in cui si sono rifugiate, richiede nuove pratiche, nuovi linguaggi, nuovi immaginari, con cui rinnovare le comunicazioni, scegliendo a chi ci vogliamo rivolgere in prima battuta, ritrovando “le nostre e i nostri”, a partire da chi abbiamo accanto.

Costruire immaginari

Delle indicazioni ci sono, a partire dall’autocoscienza femminista e dell’esplicitazione del problema di cui ha scritto anche Mark Fisher, spesso citato anche nei nostri articoli e durante le nostre iniziative, sul realismo capitalista che toglie ogni possibilità di pensarsi fuori dalla gabbia del presente e sulla necessità di politicizzare la depressione. Nella storia recente si sono avute quindi delle testimonianze su come il rapporto tra soggetti e soggettività possa dare vita a immaginari con cui riconoscere ed elaborare collettivamente la propria sofferenza.

Difficile tradurre in parole delle pratiche: vuol dire far prevalere la presa in carico dei bisogni sulla ricerca di visibilità: guardare, riconoscere, ascoltare e unire, più che farsi vedere e ottenere riconoscimenti.

Costruire immaginari, per ridare profondità al comunicare, è una prassi necessariamente collettiva, basata sul confronto e lo scontro, destinata a nutrirsi di ciò che c’è, per ottenere quello che sarà.

Questa è la linea da presidiare, per avanzare, senza lasciare indietro nessuna e nessuno: riprendere in mano la palla, per non limitarsi alla difesa, scegliendo insieme quali sono le tappe da percorrere per riscattarci dalla sconfitta.

Il numero 9 di Su la testa vuole contribuire ad aprire una discussione sui nodi richiamati, da proseguire nei prossimi mesi, per dare delle risposte alle analisi e alle domande che troverete nelle prossime pagine.

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