Editoriale – Il comunismo, la semplicità difficile a farsi

Paolo Ferrero

Il Comunismo ha una storia lunghissima e bella: parla di chi si ribella ai potenti. Marx gli ha dato un fondamento scientifico. La Rivoluzione Russa, nella semplicità delle sue parole d’ordine – “la pace, la terra ai contadini” – ha dato una soluzione positiva alle enormi questioni che la borghesia aveva creato  (la guerra) o non era in grado di risolvere.

I partiti comunisti nascono, sulla spinta della Rivoluzione Russa, come l’avanguardia di questo movimento universalistico che, a partire dalla classe operaia e dai contadini, agisce concretamente la liberazione di tutte e tutti gli sfruttati e in prospettiva di tutto il genere umano. E’ un messaggio fortissimo quello che emerge dalla rivoluzione e – come esemplificato dallo slogan “fare come la Russia” – va oltre la politica tradizionale o l’ideologia e parla a tutte e tutti gli sfruttati.

L’adozione del nome comunista e l’espulsione dei riformisti vengono posti alla base della costruzione della Terza Internazionale, per segnalare la radicale rottura con gruppi dirigenti socialisti e socialdemocratici.

Questi ultimi, oltre ad aver appoggiato le rispettive borghesie nell’orribile massacro della prima guerra mondiale, avevano condotto in prima persona la repressione della rivoluzione tedesca con l’uccisione, qualche settimana prima del congresso di fondazione dell’internazionale, di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Per ridare credibilità e forza al messaggio universale della prospettiva socialista, occorreva cambiare nome: da socialista a comunista.

Il comunismo 100 anni fa non era un fatto ideologico ma “la semplicità difficile a farsi”: la pace e la terra ai contadini, appunto. A quella semplicità dobbiamo tornare perché il comunismo non è una scelta religiosa o l’ideologia di un partito ma “il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”, cioè la ricerca della soluzione migliore a fronte delle contraddizioni e delle potenzialità generate dal modo di produzione capitalistico.

La Repubblica dei Soviet, dopo la sua uscita dalla guerra è stata immediatamente aggredita militarmente dalle nazioni occidentali e posta in una condizione di estrema difficoltà. Su questa realtà problematica il regime stalinista ha determinato una rottura di continuità in termini di concentrazione del potere nelle mani dei vertici del partito, marginalizzazione dei soviet, liquidazione della democrazia proletaria, repressione del dissenso. Il processo di destalinizzazione avviato con il XX congresso del PCUS nel 1956, nei suoi aspetti contraddittori, non è riuscito a modificare strutturalmente un modello politico ed economico che della centralizzazione aveva fatto un punto decisivo. L’Unione Sovietica è stata nel ‘900 un importante punto di riferimento mondiale per i movimenti di lotta, ma gli errori e gli orrori dello stalinismo, l’incapacità di dar vita successivamente a un  processo di riforma all’altezza della domanda sociale, hanno drasticamente ridotto la forza del messaggio di liberazione insito nella parola “comunismo”.

Nonostante questo, il movimento comunista è stato il protagonista indiscusso e insostituibile delle battaglie per l’emancipazione di miliardi di persone nel corso del ‘900: dalla lotta antifascista al ruolo determinante nella sconfitta del nazismo, dalle lotte di liberazione anticoloniali e antiapartheid alle lotte per la giustizia e la libertà in tutti i paesi capitalistici. Il miglioramento delle condizioni di vita di centinaia di milioni di proletari dei paesi occidentali, la nascita del welfare e il keynesismo,sarebbero state impossibili senza il decisivo contributo del movimento comunista in ogni paese alla costruzione delle lotte e all’emancipazione delle classi popolari.

Il ruolo del PCI

In Italia, il ruolo decisivo giocato dalle comuniste e dai comunisti nel biennio rosso, nella opposizione al fascismo, nell’organizzazione della resistenza e della lotta armata al nazifascismo, nella costruzione della democrazia e nello sviluppo delle lotte e delle conquiste sociali, ne ha determinato il forte peso politico, culturale e sociale. Le comuniste e i comunisti sono stati protagonisti fondamentali dell’uscita dal paese dal fascismo, dalla monarchia e dalla povertà, della conquista della libertà e della costruzione della democrazia costituzionale. In questo contesto di piena e incontestata legittimità del ruolo dei comunisti nella storia del paese, la scelta della maggioranza del gruppo dirigente del PCI di farsi crollare addosso il muro di Berlino, è stata un atto nichilista e criminale che ha distrutto un enorme patrimonio di idee e di forza in cambio della cooptazione di una parte dei gruppi dirigenti nel ceto politico liberale occidentale.

Questa azione politica deflagrante è stata preceduta da una moderazione politica e in particolare sindacale che, abbandonando il ruolo di punta avanzata del movimento di trasformazione sociale, ha assunto l’ideologia e la pratica dei sacrifici e della concertazione, contribuendo non poco alla distruzione dei diritti conquistati negli anni ‘70 e alla perdita del rapporto di fiducia con milioni di lavoratori e lavoratrici.

In definitiva in Italia, dove esisteva il più grande partito comunista dell’occidente, dove il ciclo di lotta degli anni ‘70 aveva sedimentato un tessuto sindacale e di organismi e di democrazia di base tale da rappresentare forme di contropotere, l’assunzione da parte della maggioranza delle classi dirigenti del movimento operaio del punto di vista dell’avversario è stato un fenomeno più esteso e profondo che altrove. Parallelamente, l’offensiva padronale, oltre a recuperare margini di profitto e di rendita, ha avuto come obiettivo fondamentale la distruzione della soggettività operaia e proletaria che si era costituita nel ciclo di lotte degli anni ‘70. 

Rifondazione Comunista

In questo contesto è nato il Movimento per la Rifondazione Comunista: promosso da una gran parte delle compagne e dei compagni che si erano opposti allo scioglimento del PCI ed in cui confluirono Democrazia Proletaria e molte altri compagni e compagne “senza partito”.

Il Movimento della Rifondazione Comunista, poi diventato partito, ha abbozzato una risposta su più livelli:

  • in primo luogo scegliendo il nome di Rifondazione Comunista dove l’un termine qualificava l’altro. Non la pura prosecuzione dell’esperienza comunista, ma la necessità di una sua rifondazione a partire dalla centralità del tema della libertà, della lotta allo sfruttamento del lavoro e della natura, della lotta al patriarcato. Il comunismo come libertà degli umani dal bisogno materiale, dallo sfruttamento, dall’oppressione, in tutte le loro forme.
  • In secondo luogo ricollocando il centro dell’iniziativa politica nella società, nella capacità di costruire mobilitazione, coscienza e opposizione sociale.
  • In terzo luogo allargando le forme di collaborazione e lavoro politico con organizzazioni e movimenti che non si definiscono comunisti, consapevoli che molte delle persone che si battono per una società di liberi e di eguali oggi non si definiscono tali.
  • In quarto luogo battendosi contro i trattati europei e ogni riforma costituzionale e istituzionale finalizzata al bipolarismo e alla semplificazione autoritaria.

La trentennale lotta di Rifondazione Comunista ha avuto una funzione di positiva controtendenza contro il liberismo ed ha operato con pochi risultati all’aggregazione di forze sul terreno dell’alternativa ai due poli liberisti. Non siamo riusciti, sin qui, ad aprire una nuova fase politica che ci permettesse di uscire dalla difensiva, di aprire un nuovo ciclo di lotta per il socialismo. Con questo obiettivo continuiamo il nostro impegno.

Neoliberismo

A partire dagli anni ‘80 si è sviluppata a livello mondiale la globalizzazione neoliberista: un impasto di politiche reazionarie e di modifiche strutturali dell’economia che ha determinato un enorme aumento della concorrenza nel mondo del lavoro.  In questo quadro si è scatenato un anticomunismo finalizzato al totale annichilimento della classe lavoratrice e a distruggere ogni idea di alternativa al capitalismo. Questa ideologia barbarica viene presentata come l’espressione naturale della concorrenza, che travolge i lavoratori ed esclude i monopoli. La concorrenza vale solo ai piani bassi e serve a disciplinare il lavoro, ma appare ai popoli come un dato oggettivo. Il diktat dei poteri forti si salda così, grazie anche a una enorme azione di propaganda che non ha pari nella storia dell’umanità., con il senso di impotenza dei proletari. Come giustamente riporta Mark Fisher, nel libro Realismo capitalista: “E’ più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”.

Questa percezione angosciante si nutre della concorrenza sfrenata tra i lavoratori, della percezione della scarsità e della crisi del socialismo come alternativa, praticabile, al capitalismo. 

La crisi strutturale della politica

La concorrenza furiosa in un contesto di presunta scarsità è quindi il punto fondamentale dell’ideologia dominante che si fa senso comune. Tanto quello del centro sinistra, che sottolinea il valore positivo della concorrenza e della globalizzazione, tanto quello del centro destra in cui il nazionalismo razzista viene presentato come una forma di difesa dalla sfrenata concorrenza sovranazionale.

L’offensiva neoliberista, con l’ingabbiamento degli stati democratici all’interno di regole liberiste  (dai trattati commerciali internazionali all’Unione Europea) per arrivare alle riforme costituzionali ed elettorali, ha obbligato gli Stati a politiche di austerità finalizzate a distruggere il welfare e ha puntato a impedire la contrattazione sindacale.

Tutto questo ha determinato una crisi verticale della democrazia e delle forme storiche di partecipazione popolare, dal movimento sindacale alla politica. Il trasferimento di potere dalle istituzioni elettive e democratiche ai trattati liberisti sovraordinati agli Stati, voluto dal ceto politico liberale di centro destra e centro sinistra, ha oggettivato il neoliberismo: questo è il senso dell’espressione “pilota automatico” cara a Mario Draghi.

Il capitalismo globalizzato ha quindi modificato i rapporti di forza tra le classi a scapito del lavoro. La crisi del sindacato e dell’azione politica nasce qui: il capitale – attraverso globalizzazione economica e offensiva politica – ha puntato a impedire la contrattazione sindacale e le riforme sociali. Questa situazione, facilitata dalla subalternità della parte maggioritaria della sinistra, ha determinato frantumazione e passività sociale, plasmando un nuovo modello antropologico fondato sull’individualismo e la concorrenza sfrenata. E’ in questo contesto di distruzione dell’identità e della coscienza di classe che, nei paesi del nord del mondo, assistiamo a pesanti forme di degenerazione, con proletari maschi bianchi che non di rado reagiscono alla perdita dei diritti facendo propria la subcultura misogina e razzista delle destre fascistoidi. Parallelamente, di fronte all’impotenza e all’inefficacia dell’azione legislativa e contrattuale, è cresciuta l’idea che per cambiare le cose sia necessario “scuotere la pianta” in modo molto più forte. Nella difficoltà a praticare la contrattazione, nell’inefficacia della politica sigillata nella gabbia d’acciaio neoliberista,  si riaffaccia non a caso il tema dell’attualità della rivolta, della sua necessità qui ed ora, come ci hanno mostrato i gilet gialli francesi. Il neoliberismo ha aggredito pesantemente le forme in cui la classe operaia e la sinistra hanno fatto politica nel secondo dopoguerra: dobbiamo difendere le vecchie ma soprattutto di inventarne di nuove!

Socialismo o barbarie

Il capitalismo neoliberista si è imposto con una narrazione apologetica di se stesso, fondata sul nascondimento nel terzo mondo della sfera della produzione operaia, sull’esaltazione del salto tecnologico come liberazione: dal capitalismo delle fabbriche inquinanti a quello del consumo fondato sulle vetrine lucenti. Il capitale, con la sua capacità innovatrice, avrebbe quindi mostrato sul campo di essere il migliore dei mondi possibili.

Questa narrazione apologetica è progressivamente andata in crisi di fronte alla constatazione che la competitività esasperata non si ferma davanti a nulla, e distrugge i diritti sociali, la natura, la pace sul pianeta: addirittura punta a trasformare la manipolazione del vivente in una nuova fonte di accumulazione del capitale, alludendo a nuove e più inquietanti gerarchie sociali. Sul piano del rapporto tra gli stati, siamo passati dalla coesistenza “pacifica” alla strisciante terza guerra mondiale non dichiarata. Sul piano dei comportamenti individuali vediamo allargarsi uno spaesamento solitario che non di rado resuscita odi nazionalisti, razzismo e la peggior misoginia.

Non solo il sistema basato sul profitto non ha risolto le sue contraddizioni, ma il neoliberismo  le ha allargate in modo abnorme, così come si sono allargate le diseguaglianze e la distruzione dell’ecosistema.

Il nodo di fondo è che il capitalismo ha esaurito la sua spinta propulsiva e ha imboccato una strada distruttiva per l’umanità. Come segnalava Marx nel Manifesto del Partito Comunista, la tragica alternativa alla “trasformazione rivoluzionaria di tutta la società” è “la comune rovina delle classi in lotta”, la barbarie planetaria. Questo disastro oggettivo non determina automaticamente la maturazione di una coscienza comunista o anticapitalista. Anzi, il neoliberismo, dopo aver colonizzato largamente l’immaginario mondiale cancellando l’idea stessa di alternativa, alimenta con la sua crisi l’espansione delle subculture concorrenziali, razziste, nazionaliste e fondamentaliste. Del resto era così anche durante la prima guerra mondiale: ogni massacro, ogni battaglia costituiva il presupposto per una nuova offensiva suicida, ogni sconfitta alimentava il desiderio di vendetta. Fino a quando qualcuno non propose di organizzarsi per sparare ai propri ufficiali invece che ai soldati della trincea di fronte….

Riconoscere i germogli…

Questo non significa che non esistano movimenti di lotta su scala mondiale.

Il lavoro sfruttato si è esteso. Nei paesi di nuova industrializzazione, si è esteso nella forma del lavoro salariato nella grande fabbrica, nei paesi a capitalismo maturo, permeando e plasmando quasi ogni forma di lavoro al di là delle forme giuridiche che assume. Gli sfruttati ai fini della valorizzazione del capitale non solo non sono scomparsi, ma si sono moltiplicati enormemente e nel sud del mondo lottano.

In secondo luogo, il lavoro di cura non pagato ma fondamentale per l’accumulazione del capitale, grazie al movimento delle donne, è stato riconosciuto ed è diventato un tema politico a livello mondiale. Anche qui ci troviamo dinnanzi a nuove forme di coscienza che – non accettando come naturali la divisione del lavoro tra generi – minano alle radici la riproduzione del sistema.

In terzo luogo, è del tutto evidente che l’estendersi e l’approfondirsi delle contraddizioni capitalistiche producono soggetti in conflitto con il capitale in settori molto più ampi di quelli propri del lavoro. I soggetti che nel contesto dello sviluppo capitalistico ne subiscono lo sfruttamento, ne registrano il carattere direttamente distruttivo per le loro vite o ne colgono il carattere sistematicamente frustrante per le loro aspettative, sono aumentati. Pensiamo solo al già citato movimento delle donne per la forza e alla radicalità con cui si è sviluppato negli ultimi decenni o pensiamo al movimento ambientalista e generazionale di Friday For Future; al movimento antirazzista o pacifista. Il tema della intersezionalità, della comprensione che non esiste un soggetto della trasformazione già dato in natura, ma che questo è il frutto di una costruzione sociale, culturale e politica di incontro dei diversi soggetti conflittuali e potenzialmente antagonisti, è il vero tema che abbiamo dinnanzi oggi. La centralità non riguarda un soggetto ma il dialogo tra i soggetti che lottano.

Covid, un punto di svolta

Abbiamo detto che la pandemia del COVID rappresenta il punto di svolta della crisi ed evidenzia il carattere devastante che hanno i rapporti sociali capitalistici. Che la distruzione della natura produca effetti nefasti sull’umanità ora e non tra cent’anni diventa un punto evidente a livello mondiale. Nella vicenda del Covid viene a maturazione la  crisi della globalizzazione neoliberista e il complesso delle sue ideologie: si globalizzano malattia e pericoli; addirittura le classi dirigenti devono cambiare musica e mettere mano alla governance.

La vicenda del Covid – che non avrà soluzioni miracolistiche ed è destinata a durare nel tempo – spezza gli equilibri preesistenti e accentua le  contraddizioni: dai tentativi di Big Pharma di aumentare ricchezze e potere all’esplodere più virulento dei nazionalismi, al maturare di una nuova coscienza sui destini comuni dell’umanità. Nella crisi tutto si polarizza e come accadde nella prima guerra mondiale, compito dei comunisti e delle comuniste è quello di indicare una strada, di proporre una soluzione.

Nella pandemia dobbiamo quindi aprire una nuova fase del movimento comunista, che ritrovi la sua funzione sociale, umana, universalistica che accompagna “il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”. Dobbiamo uscire dal sovraccarico politico ed identitario che ha oggi il termine comunismo al fine di poterlo indicare come soluzione concreta per i grandi problemi dell’umanità. Il comunismo non è un fatto privato che riguarda l’identità dei comunisti e delle comuniste ma una possibilità positiva e concreta per l’umanità. Come fu nella rivoluzione Russa con la parola d’ordine della pace e della terra ai contadini.

Una nuova fase del comunismo

La nuova fase deve essere innanzitutto caratterizzata dalla demistificazione dell’ideologia dominante al fine di conquistare una corretta rappresentazione del reale. Non basta contrapporre idee o desideri a quella che è percepita come una realtà immodificabile: la sconfitta è inevitabile. Occorre evidenziare che la realtà è diversa da quella che appare, e quindi che le possibilità e le alternative sono diverse da quelle imposte nel dibattito pubblico. Come giustamente sottolineava Marx polemizzando contro i giovani hegeliani, non basta contrapporre alle frasi dei nostri avversari altre frasi. Ogni generazione di comuniste e comunisti è chiamata a  fare la propria “critica dell’economia politica”, a rinnovare continuamente l’opera di demistificazione dell’ideologia dominante.

Tre mi paiono i nodi principali su cui concentrarsi che, parallelamente, suggeriscono anche elementi di proposta politica.

A) Non esiste alcuna scarsità dovuta alla mancanza di soldi. L’umanità non è mai stata così ricca di merci e di denaro, le banche centrali inondano di liquidità l’economia. Alla base della crisi non c’è nessuna scarsità economica ma piuttosto una cattiva distribuzione e un cattivo utilizzo dell’abbondanza. Si tratta quindi in primo luogo di redistribuire la ricchezza e di usarla con obiettivi diversi da quelli dell’accumulazione del capitale, che non ha più alcuna giustificazione materiale per costituire il canale privilegiato di comando sul lavoro. Nell’abbondanza si può superare la logica del profitto e della concorrenza per costruire relazioni sociali basate sulla cooperazione e sulla solidarietà.

B) La disoccupazione segnala che il lavoro è molto produttivo e ne basta meno: il capitale ha difficoltà a riprodurre il lavoro salariato in un contesto di enorme sviluppo della produttività. La soluzione non consiste nel lavorare di più al fine di confermare i rapporti sociali capitalistici, producendo così milioni di disoccupati, l’abbassamento dei salari ed in definitiva la crisi. La soluzione consiste nel lavorare di meno, redistribuendo il lavoro produttivo e quello riproduttivo, costruendo relazioni sociali che superino la divisione in classi della società, i ruoli e le gerarchie sociali.

C) L’elemento scarso è la natura, che la logica del profitto sta distruggendo. Non si tratta di un fenomeno lento ma di una emergenza immediata, come il Covid evidenzia. Pandemie, profughi, accaparramento delle risorse, razzismo, guerre. Il volto della catastrofe ambientale e climatica è la guerra civile mondiale. E’ necessaria una radicale riconversione ambientale delle produzioni e dell’economia, finalizzata all’equilibrio nel rapporto tra l’umanità e la natura, al superamento dello sfruttamento del lavoro e della natura. Serve un comunismo verde.

Si potrebbe proseguire, ma il punto fondamentale è che l’umanità oggi è a un bivio: o la devastazione della vita sul pianeta o la cooperazione e il rispetto della natura al fine di godere comunemente di una nuova possibile libertà nell’abbondanza.

Socializzare la ricchezza, redistribuire il lavoro produttivo e riproduttivo, tutelare l’ambiente, sviluppare la libertà degli individui sociali: queste semplici parole d’ordine parlano di un comunismo popolare, della rivoluzione necessaria, come la pace e la terra ai contadini nel 1917.

Curare le radici…

Se gli obiettivi possono essere convincenti e condivisibili, resta l’enorme problema di come si passa dalla situazione attuale a quella auspicabile. Tanto più che il neoliberismo ha portato alle estreme conseguenze l’individualismo competitivo: oggi le persone sono spinte a comportarsi come imprese in guerra tra di loro. La definizione dei percorsi concreti attraverso cui i soggetti possono modificare se stessi e la propria condizione è quindi il punto decisivo per far uscire la nostra prospettiva politica da un orizzonte puramente idealistico, valido per chiacchierare nei giorni di festa ma impraticabile durante la settimana. Occorre individuare le strade attraverso cui modificare i rapporti di forza tra le classi e costruire una soggettività antagonista al capitale. Tra i tanti due punti mi paiono da sottolineare.

Il primo punto è la ricostruzione di una soggettività del lavoro, di classe.

Se il ciclo di lotta degli anni ‘70 era fondato sulla centralità assorbente della lotta operaia, oggi la condizione lavorativa appare come un buco nero: un obbligo necessario e maledetto al contempo. Il lavoro non è luogo di costruzione o di espressione di soggettività e nullo il ruolo politico che giocano i milioni di persone che quotidianamente lavorano. Parliamo della precarietà del lavoro, ma conosciamo poco di come il lavoro si svolge e come vivono, pensano e desiderano coloro che lavorano.

Per questo mi pare siano necessari due elementi analitici: in primo luogo la ripresa di un lavoro di inchiesta e co-inchiesta con i lavoratori e le lavoratrici. E’ necessario scandagliare la soggettività del lavoro in una condizione in cui tutto è cambiato e la pandemia, con l’estensione dello smart working ci consegna un paesaggio ulteriormente terremotato. Inchiesta operaia si sarebbe detto un tempo, inchiesta con i lavoratori e le lavoratrici, qualunque sia la forma giuridica del loro rapporto di lavoro dobbiamo dire oggi. Che il lavoro sia scomparso dagli schermi radar, ridotto a pura oggettiva necessità, costituisce il principale successo del capitale e la base materiale su cui cresce l’ideologia reazionaria dell’eterno ed immodificabile presente.

Occorre poi produrre una seria analisi dello sviluppo del macchinismo, dell’organizzazione del lavoro e dell’impresa post fordista. Sapevamo tutto sulla catena di montaggio, sappiamo pochissimo di come funziona il capitalismo delle piattaforme, della centralità della logistica, della rete. Il  lavoro ha cambiato forma e sovente condizione giuridica: la demistificazione dei rapporti di potere insiti nell’uso della tecnologia informatica, nelle piattaforme, nell’impresa 4.0 è un punto decisivo per capire le basi materiali dello sfruttamento del lavoro oggi. La ripresa del conflitto di classe non è un optional ma un punto decisivo per la costruzione di una alternativa di sistema.

Un secondo punto riguarda la riscoperta della nozione marxiana di comunità: la costruzione di luoghi comunitari in cui sia possibile la maturazione e l’aggregazione di una coscienza critica. Oggi abbiamo una fortissima frantumazione sociale che fa si che le persone si ritrovino da sole di fronte ai problemi. Storicamente il quartiere operaio, la casa del popolo prima e il luogo di lavoro poi, sono stati i luoghi concreti in cui si è rotta la solitudine degli individui, in cui si è aggregata una comunità operaia. Questo tessuto comunitario popolare, non direttamente politico ma intrecciato con le organizzazioni sociali e politiche del movimento operaio, oggi è in larga misura andato perduto, ma non ne è venuto meno il bisogno.

Occorre dar vita a comunità aperte, solidali, che intreccino la possibilità dell’incontro, del mutualismo solidaristico e del conflitto sociale. La rottura dell’angoscia impotente dell’individuo isolato passa attraverso la costruzione di spazi comunitari che affrontino i problemi delle persone, svolgano attività di solidarietà e mutualismo, cooperino tra di loro, producendo conflitto di classe e capacità di trasformazione. Con un sistema politico compiutamente liberista e con la difficoltà a produrre contrattazione efficace, la costruzione di tessuti comunitari densi, in cui il mutualismo si intrecci con il confitto sociale, ci parla della possibilità dell’alternativa. L’esperienza della Val di Susa ci parla di questo così come la forza del popolo boliviano, che è riuscito a sconfiggere un golpe, risiede proprio nel tessuto comunitario in cui “nessun proletario è da solo” e “un’offesa a uno è un’offesa a tutti”.

Il soggetto della trasformazione

La costruzione della soggettività del lavoro e di un tessuto comunitario popolare e solidale sono punti decisivi, ma non esauriscono il tema della costruzione del soggetto della trasformazione. A questo riguardo, mi pare che innanzitutto occorra superare due vulgate, entrambe errate, che albergano nel movimento comunista.

La prima vulgata è fondata sull’idea che il capitalismo, nel suo sviluppo, produca “naturalmente” il suo becchino. Questo becchino ovviamente può mutare nel corso del tempo: dalla classe operaia alla moltitudine per arrivare all’intellettualità frutto della globalizzazione e della rivoluzione digitale. Secondo questa vulgata il soggetto rivoluzionario, prodotto automaticamente dallo sviluppo del capitale, è sempre operante, basta riconoscerlo.

La seconda vulgata ritiene che la classe operaia – e quindi per estensione il complesso dei soggetti conflittuali prodotti dallo sviluppo capitalistico – non sia in grado di andare oltre ad un orizzonte sindacale e quindi che occorra necessariamente importare dall’esterno la coscienza di classe.

Queste due impostazioni – spontaneismo o coscienza esterna – sono a mio parere idealistiche, inefficaci e sbagliate. Per porsi seriamente l’obiettivo di una nuova fase di lotta al capitale, occorre elaborare una teoria che superi in avanti questi schemi e impari dalla pratica. Mi pare infatti evidente che il soggetto della trasformazione non è il semplice frutto delle contraddizioni del capitale e nemmeno un autoproclamato soggetto “esterno”.

Se guardiamo al ciclo di lotte degli anni ‘70 o alle esperienze latinoamericane tutt’ora in corso, mi pare che la costruzione del soggetto dell’alternativa parta da una interazione cooperativa, duratura e non gerarchica, tra diverse istanze coalizzate: le strutture di autorganizzazione conflittuali della classe lavoratrice e del complesso dei movimenti sociali, le esperienze mutualistiche e comunitarie, le reti di movimento, gli intellettuali portatori di saperi sociali diffusi, le strutture sindacali, le strutture di rappresentanza istituzionale, i partiti comunisti o comunque rivoluzionari. Non spontaneismo o coscienza esterna ma processo di costruzione cooperativo e plurale della soggettività alternativa sul piano sociale, culturale e politico. Non un soggetto centrale attorno a cui aggregare gli altri, ma l’intersezionalità, la capacità di dialogo tra soggetti che si riconoscono e che a partire dai diversi percorsi di liberazione costruiscono una nuova soggettività e nuove relazioni sociali. Perché la costruzione plurale, intersezionale, del soggetto della trasformazione e l’efficacia del conflitto contro il capitale, sono tutt’uno.

L’esperienza latinoamericana ci dice che la costruzione di una soggettività alternativa ai poli politici esistenti, oggi assume tratti populisti. Condivido e credo sia necessario sperimentare su questo terreno, perché la qualità del processo di trasformazione va misurata sulla capacità di sviluppare soggettività sociale antagonista, non sulla corrispondenza a qualche immagine stereotipata della rivoluzione.

Il partito comunista

Il partito comunista non è in sé il soggetto della trasformazione ma dovrebbe svolgere un ruolo decisivo nella sua costituzione. Questo a partire dalla considerazione di Marx secondo cui i comunisti: “(…) non hanno interessi separati da quelli dell’intero proletariato. (…)  e si distinguono dai restanti partiti proletari solo perché, da un lato,  nelle diverse lotte nazionali dei proletari essi pongono in evidenza e affermano gli interessi comuni di tutto il proletariato, indipendentemente dalle nazionalità; dall’altro, perché essi esprimono sempre l’interesse complessivo del movimento nelle diverse fasi in cui si sviluppa la lotta tra proletariato e borghesia.”

“L’esprimere sempre l’interesse complessivo del movimento” chiede con ogni evidenza una capacità di direzione politica effettiva, fondata su analisi, proposte, capacità di coordinamento, mediazione, formazione di dirigenti sociali, politici e culturali, costruzione di linguaggi comuni che sono fondamentali per la costruzione cooperativa del soggetto della trasformazione.

La guerra tra i poveri costituisce l’espressione concreta dell’attuale forza del capitale mentre il nostro obiettivo è la costruzione di un soggetto della trasformazione fondato sulla cooperazione tra gli strati popolari, che punta all’unità di questi e della classe lavoratrice. Non si tratta di un passaggio automatico o semplice. Occorre avere luoghi comunitari in cui incontrarsi, individuare il comune nemico di classe, trovare le forme per costruire conflitti efficaci, scoprire i linguaggi per dialogare tra soggetti diversi, inventare un immaginario comune che permetta il comune riconoscimento.

In questa situazione, il partito comunista non deve essere una parzialità accanto ad altre, magari in concorrenza per occupare qualche spazio in più. Il ruolo fondamentale del partito comunista , la sua ragion d’essere “nell’interesse complessivo del movimento”, la sua funzione di “direzione politica”, consiste nell’inventare i linguaggi attraverso cui i diversi soggetti possano dialogare, le forme attraverso cui lottare, gli immaginari attraverso cui sognare, le strade attraverso cui ottenere risultati concreti. L’esercizio dell’egemonia non è altro che la capacità, riconosciuta, di fornire risposte giuste e concrete per rafforzare e sviluppare il complessivo movimento di trasformazione di cui il partito è parte.  Oggi la funzione dirigente del Partito comunista non può in alcun modo risolversi nella sfera della rappresentanza, ma deve essere centrata proprio sullo sviluppo del “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”. Questo chiede una concezione non ideologica del comunismo e una modifica profonda della forma stessa del partito comunista per come l’abbiamo conosciuto nel secondo dopoguerra.

Lode al comunismo

Qualcuno pensa che la parola comunismo sia oramai inutilizzabile. Io penso al contrario che sia irrinunciabile. Buona parte della battaglia politica oggi riguarda il significato che viene dato alle parole perché attraverso le parole si da forma alla realtà e si può immaginare il suo cambiamento. Non a caso cercano di abolire le parole che rappresentano la società divisa in classi: padrone, operaio, classe operaia, sfruttato, sfruttamento, sono parole scomparse dal lessico pubblico. Parole sovversive, perché classiste, vengono bollate come superate. Oggi vige la colpevolizzazione della povertà e così sono scomparsi gli sfruttati e apparsi gli sfigati: se stai male è colpa tua, non di qualcuno che ti  sfrutta ma tua che sei un fallito e non sei in grado di emergere. Poi vi sono le parole stravolte, rubate: ad esempio la parola riforma che oramai è sinonimo di misura liberista antipopolare. Anche la parola “sinistra” è stata fortemente colonizzata e stravolta nei suoi significati. La parola “comunista”, non essendo addomesticabile, viene sfigurata, denigrata, stravolta. Il comunismo è il nemico numero uno perché le comuniste e i comunisti hanno avuto l’ardire di fare la rivoluzione, di rovesciare la piramide sociale, di cambiare il corso della storia. Al comunismo viene così attribuita ogni nefandezza.

La lotta sul significato della parola comunismo deve quindi essere fatta, fino in fondo, perché è decisiva per tenere aperta la possibilità dell’alternativa. Se il comunismo fosse il male assoluto, il capitalismo sarebbe eterno. Il comunismo è la parola simbolo della lotta allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo: per questo non basta dire cosa non è ma occorre dire cosa è. Occorre riempire la parola “comunismo” di quei significati positivi che motivano la nostra lotta politica.

In primo luogo svecchiando le immagini. I primi nemici del comunismo siamo noi se continuiamo a rappresentarlo in iconografie centenarie. Il comunismo è domani, non ieri. Non è una condizione da restaurare o un album di famiglia ma una libertà da  costruire, con pratiche adeguate. Il comunismo è a colori; non in bianco e nero. Ed è un comunismo verde: lottiamo per la liberazione del lavoro produttivo e riproduttivo e per costruire l’armonia con i cicli naturali, individuali e collettivi.

Il fine ultimo del comunismo è la libertà, di cui l’eguaglianza è la precondizione. Libertà delle donne e degli uomini in un contesto in cui rapporti di produzione socialisti, cioè cooperativi, permettano la riproduzione sociale senza la riproduzione di classi sociali, gerarchie o ruoli sociali fissi sulla base del genere, del colore della pelle o altro. Infatti noi riconosciamo e pratichiamo il conflitto di classe perché vogliamo superare la società divisa in classi e cioè costruire una “nuova umanità”. Al posto della barbarie capitalistica.


Immagine da pixabay.com

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