Essere comunisti. Ieri e oggi

Pubblichiamo con grande piacere il testo che segue, scritto e inviatoci da Maria Jatosti. Maria, nata a Roma nel 1929, è scrittrice, poetessa e – come ricorda anche in questa occasione – comunista. Ha lavorato per decenni nel mondo dell’editoria. A chi volesse sapere di più di Maria, consigliamo la lettura dei suoi romanzi: in particolare, Per amore e per odio (Manni, 2011), Tutto d’un fiato (dedicato ai suoi anni milanesi, pubblicato per la prima volta nel 1974 e uscito nel 2011 con Manni), Il confinato. Una famiglia nell’Italia fascista (pubblicato per la prima volta nel 1961, e oggi disponibile nell’edizione pubblicata sempre da Manni nel 2013).

Maria Jatosti

Eccomi di fronte alla domanda. Perché? Voglio subito dire che secondo me non è il perché che conta. Io nel partito comunista ci sono entrata come si entra dalla porta accanto in un luogo familiare. Comunista lo sono da sempre, in modo naturale. È stato mio padre a farmici. Mio padre, maestro di scuola, primo comunista di Avezzano, l’Aquila. Mio padre, figlio di un vecchio socialista, piccolo uomo romantico e indifeso che non sapeva stare zitto e che mescolava l’ideologia al pane quotidiano, all’insegnamento della storia, al tifo per la Roma. Mio padre che aveva sognato un mondo migliore ma che, in fondo, non aveva saputo combattere, non nel modo giusto. Mio padre, un uomo fregato. Ma queste cose io le ho raccontate in un romanzo uscito nel ’61, che si intitola Il confinato.

Per questo dico non conta il perché. Ciò che conta è il dopo e cioè il come. Bene, potrei raccontare che cosa ha significato per me entrare nel Partito Comunista Italiano negli anni dell’adolescenza. Era il ’47, ’48.

È stata la crescita, di pari passo al diventare persona, donna, il confronto, la fatica, le difficoltà, lo scontro quotidiano con il vecchio, con il conformismo, con il pregiudizio, con l’ipocrisia del mondo piccolo borghese cui appartenevo per ceto.

È stata la spavalderia, l’orgoglio di sentirmi e comportarmi da diversa, il sapere, il sentire, con tutto l’ardore dei vent’anni, di essere nel giusto, dalla parte della ragione.

È stata la scoperta di quella gente speciale, tenace, dura, tesa che si chiamava comunista.

È stato liberarmi di un abito che mi andava troppo stretto. L’assunzione cosciente della condizione di donna fra tantissime altre, ma, soprattutto, la ricerca e la conquista di una dignità, di uno stile, di un modo di essere.

“L’uomo nuovo”, si diceva, e non era una formula vuota. Ci sentivamo e volevamo essere nuovi e per questo eravamo disposti a pagare, giorno per giorno nello scontro con l’avversario politico, e con il nuovo fascismo persistente e rinascente, i nostri piccoli – e grandi – conti. Pronti a tutto.

Sarà bene ricordare, a proposito di centenari e di celebrazioni retoriche, che anni fossero quelli. Gli anni della mia giovinezza à bout de souffle. Consumate le nobili speranze accese dalla Resistenza, l’Italia, sconfitta, lacerata, strematada una guerra infame e rovinosa voluta dal fascismo, si scopriva repubblicana, democratica, libera, e, forte di una Carta costituzionale tra le più belle del mondo civile, si accingeva alla ricostruzione di sé. L’Italia operaia e contadina protagonista di battaglie non di rado cruente, sempre difficili, durissime che hanno faticosamente portato a conquiste storiche. Ma furono anche gli anni della militanza oscura, dei balzi in avanti e delle battute d’arresto, delle sconfitte, delle frustrazioni, della censura codina e bigotta, delle repressioni dei governi bianchi, della spaccatura in seno al movimento operaio, della restaurazione reazionaria, della rinascita di un fascismo subdolo e virulento, della guerra fredda, del maccartismo, della Corea…

Nel Pci non sono mai diventata una dirigente, un “quadro”, come si diceva. Credo che la carica maggiore che abbia ricoperto nella mia sezione, la storica Villetta della Garbatella, popoloso quartiere romano antifascista e resistente, dove ho vissuto parecchi anni, sia quella di responsabile delle ragazze o di agit-prop (più tardi responsabile della Commissione Cultura) visto che avevo letto qualche libro, me la cavavo con le parole e sapevo mettere insieme un volantino, un manifesto o uno striscione. La sezione era “il posto”, la casa, la famiglia vera, i compagni erano i fratelli, di ciascuno conoscevi e condividevi drammi e preoccupazioni, ci legava quella cosa magica di essere uniti nella stessa idea del mondo, della vita, tesi verso il medesimo obiettivo finale.

Ricordo il mio primo segretario in tuta blu, sbattuto fuori dalla fabbrica e gli altri, Wanda l’operaia, Carlo il bibliotecario, Benito, l’estremista, il facinoroso, che tornava regolarmente dalle manifestazioni con la giacchetta a brandelli e la testa spaccata. Ricordo i miei tre giorni alle Mantellate, il carcere femminile di Roma, le notti in questura, le manganellate, i compagni svenuti, insanguinati per le strade, gli insulti dei borghesi perbenisti, gli assalti dei fascisti… Ricordo la paura paralizzante, a diciott’anni, davanti alla folla, la gente che mi guardava, che aspettava da me la parola giusta: Vota Fronte, il Fronte vince. La sconfitta cocente nel ’48. La mia prima tessera del Pci, con la firma di Togliatti, porta quella data. Anche se da anni frequentavo già come simpatizzante, militando in organismi paralleli di massa.

Con gli anni appresi che è grazie soprattutto a “non procrastinabili assunzioni di responsabilità”, e solo quando la passione è sostenuta dalla scienza e dalla lucidità necessarie, che si può arrivare alla vittoria, ma, insieme alla scoperta dell’amore, imparai anche che per amare e per volere il bene di tutta l’umanità devi amare fortemente qualcuno.

“Avrei spavento… se dovessi persuadermi che esistono dei compagni che non alimentano la loro fede con l’amore, ma che sono arrivati alla fede soltanto per via dei libri che hanno letto o delle angherie che hanno subìto o del sudore che hanno versato”. Queste parole di un vecchio grande amico compagno scrittore, Vasco Pratolini, rispecchiano esattamente il mio essere comunista di allora. Poi, col tempo, è diventata norma di vita, scelta continua, rinnovata, naturale e ragionata insieme. Di essere comunisti non si smette mai. Io non ho mai smesso. Neppure negli anni della maggiore confusione ideologica o, peggio, della cosiddetta morte delle ideologie. C’è sempre stata in me, in cima a tutto, ferma e tenace, la fedeltà ultima, cocciuta, accorata, l’utopia che un mondo migliore si può e si deve volere.

Ci sono stati anche il dubbio, la fascinazione delle soluzioni “eroiche”, del grande sogno giovanile pazzo e fulgido, l’ubriacatura romantica del maggio francese, il ce n’est q’un début , il tutto e subitoil potere all’immaginazione e poi, passata la sbornia, in coincidenza con il mio ritorno a Roma, alle mie radici dopo una lunga parentesi milanese e ligure, è venuto il ritorno alla fedeltà, alla coerenza, al voler a tutti i costi tener presenti le ragioni di tanti, dei tanti, del fare parte con gli altri degli altri, per riaffermare la fede in un mondo migliore, giusto, pulito, onesto, dove la libertà sia quella libertà che consente a tutti di vivere dignitosamente da uomini liberi.

Liberi dalla paura e dal bisogno, dalla morte, dalla fame, dalla discriminazione, dall’idiozia, dall’ignoranza…

Liberi dall’arroganza e dal dispotismo di un potere ottuso e pervicace…

Liberi dalla dimenticanza, dall’indifferenza, dalla distrazione, dall’acquiescenza che è peggiore del consenso…

Liberi dalla tentazione e dalla deriva del lagno, della rinuncia e del disfattismo…

Liberi di credere nel diritto dell’Uomo alla Felicità.

Io ci credo.

Roma, luglio 2011


N.B. Questo scritto ricalca anche in parte una mia dichiarazione pubblicata in “Storie comunistepassato e presente di una sezione del Pci a Milano”, (la Sezione Brera della quale facevo parte in quegli anni) a cura di Giorgio Colorni, Feltrinelli, I nuovi testi, 1979. Essendo rimaste le ragioni della mia appartenenza, ancorché frustrata e disincantataradicalmente immutate.


Foto di “Luciano”, da wikimedia.org

Print Friendly, PDF & Email