Fratture sociali e sistema politico

Francesco Campolongo*

Il politologo Stein Rokkan ha teorizzato la relazione tra fratture sociali e culturali e la strutturazione dei sistemi partitici. Questo rapporto non avviene in maniera deterministica: i maggiori conflitti sociali e culturali possono alimentare la nascita e il consenso di determinati partiti che, a loro volta, ne alimentano e rafforzano la centralità con la loro azione politica.

Così, il politologo esplicita un rapporto dialettico tra istituzioni e società, tra struttura e attori del sistema politico, che mette costantemente in relazione la dimensione sociale con quella politica, la struttura delle opportunità politiche con le tattiche e la possibilità degli attori politici.

Un concetto che risulta particolarmente interessante perché trasla nella scienza politica quella relazione dialettica tra struttura e sovrastruttura che, grazie al lascito gramsciano, svincola il marxismo da un certo determinismo meccanicista. Dunque, non basta l’esistenza di una rilevante frattura sociale perché questa divenga politicamente rappresentativa, ma servono soggetti politici con la capacità di costruire e rappresentare una determinata domanda politica, trasformando quel conflitto sociale in una dimensione politica rilevante che costringa gli altri soggetti politici a schierarsi dall’una parte o dall’altra.

La frattura di classe, per esempio, che ha articolato i sistemi politici europei per tutto il Novecento, è stata il prodotto sia delle trasformazioni sociali determinate dallo sviluppo capitalistico sia della lunga organizzazione di soggetti politici che hanno organizzato, prodotto e articolato la domanda politica di classe. In alcuni casi (pensiamo all’indipendentismo leghista), alcune domande politiche coagulano tendenze diverse (egoismo economico territoriale, antipolitica, localismo) in proposte che, se pur storicamente poco consistenti, riescono ad avere ugualmente molto successo grazie alle capacità degli attori politici.

Un altro elemento fondamentale, indubbiamente, risulta essere l’assetto istituzionale ed elettorale, visto che leggi elettorali meno democratiche contribuiscono a una minore permeabilità e rappresentatività del sistema politico e sociale. Non necessariamente, dunque, condizioni sociali e oggettive favorevoli per una determinata frattura si tramutano meccanicamente nella sfera politica o, meglio ancora, le forme di rappresentanza di determinate domande politiche si possono articolare intorno a specifiche fratture talvolta apparentemente distanti dalla fisionomia sociale di quel conflitto stesso.

Un operaio scontento per il proprio salario potrebbe ritenere più importante votare per la propria sicurezza, poco importa se mosso da una percezione indotta; oppure potrebbe difendere il suo salario, votando contro i migranti come conseguenza ingannevole di una costruzione ideologica diffusa nella società.

L’esistenza di una diseguaglianza e di uno specifico conflitto, per quanto possa essere rilevante, non assicura la sua rilevanza politica e, allo stesso tempo, è difficile che una proposta politica efficace sia capace di essere rappresentativa senza articolare più proposte intorno a quella socialmente percepita come più urgente.

Se questo è il quadro dal punto di vista della relazione tra sociale e politico-istituzionale, dall’altra parte, invece, anche la struttura del sistema politico, le leggi elettorali, il ruolo e la funzione del Parlamento favoriscono una maggiore o minore rappresentatività di specifiche fratture.

Bipolarismo, Postdemocrazie e indebolimento della frattura di classe

Tornando alla frattura di classe, dunque, intorno a questa si erano man mano articolate la frattura di genere, ecologica e democratica contenute sotto l’ombrello rappresentativo della divisione destra e sinistra. La sinistra, dunque, rappresentava il conflitto di classe e molto di più.

Il sistema politico italiano si è articolato per anni in maniera plurale, con la prevalenza della frattura destra/sinistra, e con un assetto proporzionale che ha favorito la rappresentanza di interessi diversi e la permeabilità politica del conflitto sociale. La svolta neoliberista degli anni ‘80 e la caduta del Muro, assieme alle trasformazioni legate alla globalizzazione e alla diffusione anche a sinistra del neoliberismo, hanno contributo a indebolire la frattura di classe, se pur con intensità diversa per contesto nazionale.

La globalizzazione e le sue forme di governance regionale hanno favorito una diversa concezione della democrazia a bassa intensità e partecipazione. L’uniformazione ideologica neoliberista, favorita dall’egemonia della “fine della storia”, si è accompagnata con una profonda ristrutturazione dei sistemi politici occidentali segnata da un tendenziale processo di bipolarizzazione, nel nome del modello anglosassone, con due partiti principali, uno a destra e uno a sinistra, che si contendono, da soli o in alleanza, il centro dello scenario politico.

La lotta politica non diviene più uno scontro tra diverse concezioni del mondo, rappresentate da partiti di massa, che trovano sintesi e mediazione nel Parlamento, ma diviene una lotta tra leader per il governo. In questo contesto, la funzione del governo viene già disegnata dal contesto egemonico del “nessun altro mondo è possibile”, per cui bisogna semplicemente eseguire lo spartito unico degli interessi dettati dal capitalismo globale.

Il sistema politico italiano, in effetti, si è radicalmente trasformato in nome della “governabilità”, ovvero della necessità di garantire un processo di riforme neoliberiste costato caro ai/lle cittadini/e, partendo dai sacrifici del ‘92, passando per la flessibilizzazione del mercato del lavoro e le privatizzazioni. Nel contesto europeo siamo il grande malato economico, senza crescita da anni e con un sostanziale processo di de-industrializzazione, perché siamo quelli che, prima e più di altri, hanno applicato austerità e privatizzazioni. Politiche, queste, eseguite indistintamente dal centrodestra e dal centrosinistra, all’interno di un quadro in cui le opzioni diverse rimanevano strette nel ricatto del voto utile e nell’impotenza di determinare, visti i rapporti di forza, cambiamenti rilevanti al governo.

Un problema, quest’ultimo, favorito anche dalla forza dei vincoli esterni, come la natura autoritaria e iperliberista dell’UE, in un contesto in cui l’ipertrofia di leadership personali e lo strapotere delle élites politiche si è accompagnato con una compagna culturale e ideologica di denigrazione della politica stessa, alimentata contemporaneamente dalla retorica del civismo e del tecnicismo, che ha favorito la dismissione delle capacità di intervento statale. L’Italia, dunque, diviene una compiuta post-democrazia, segnata da un progressivo distacco della partecipazione popolare dai partiti e dalla politica, segnalataci dalla diminuzione radicale della partecipazione elettorale, dell’affiliazione partitica e dalla fedeltà elettorale, con un sistema politico ristrutturato intorno a un bipolarismo normalizzante, e in cui vince sempre l’ipotesi neoliberista.

Bipolarismo: una tigre di carta?

Tuttavia, l’incapacità della politica di regolare il mercato provoca disagio e insicurezza sociale, aumentando la sfiducia verso gli attori politici. Nel contesto italiano, inoltre, sia per ragioni culturali di lungo periodo che per le conseguenze del 1992 (Tangentopoli, stragi di mafia, etc.), la sfiducia politica diviene un fattore strutturante della domanda elettorale.

Inoltre, il declino della comunità del lavoro, intesa come comunità organizzata, sindacalmente e partiticamente, favorisce l’articolazione del disagio sociale prodotto dalle politiche neoliberiste all’interno di un quadro simbolico spesso ambiguo e contradditorio. In un clima di crescente antipolitica e depoliticizzazione di massa, favorita dall’alto, matura una forma di critica sistemica costantemente egemonizzata da forme di radicale critica ai partiti, se non alla politica tout court, quella che viene comunemente definita ‘antipolitica’. 

Ma questa formula, tanto fortunata quanto confusa, rischia di complicare piuttosto che chiarire la situazione. Potremmo dire che in Europa, come in altri contesti, matura la convinzione che i principali attori dei nostri sistemi politici, ovvero i principali partiti di centrodestra e sinistra, siano incapaci di mantenere le promesse di sviluppo, benessere e sicurezza economica che il sistema promette.

Spesso questa sfiducia viene amplificata dalla corruzione, anche solo percepita, per cui la rivoluzione politica non passa più per la frattura di classe, nonostante le condizioni oggettive che la renderebbero politicamente rilevante, ma per una critica semplificata e violenta alla qualità della democrazia e ai suoi attori.

Nel contesto italiano, da Segni al Movimento 5 Stelle passando per lo stesso Berlusconi, la stagioni del civismo e la rottamazione renziana, ritroviamo un variegato album di manifestazioni “antipolitiche” che sono manifestazioni differenti, per direzione e natura, dello stesso fenomeno. Le post-democrazie hanno favorito l’esodo dei cittadini dalla politica, in termini di militanza e partecipazione elettorale, ma la destrutturazione dello Stato e delle sue politiche progressiste favorisce un disagio sociale che trova nell’odio verso la classe politica e i principali partiti la forma principale di critica sistemica in un contesto senza grandi ideologie di massa.

Scompaiono dalla percezione collettiva le classi, le élites economiche e la rivoluzione sociale, ma rimane la politica, forse più debole che mai, come obiettivo della critica di massa. Tutto questo, però, ha favorito una graduale erosione del bipolarismo, ovunque segnato dalla diminuzione radicale della somma dei voti dei principali partiti. In molti casi, questo si è tradotto, soprattutto, in un’ulteriore frantumazione del sistema partitico, e in un differente equilibrio all’interno dei poli, mentre, solo in specifici momenti e in determinati contesti, all’interno del polo di sinistra è avvenuto il sorpasso sui partiti socialisti.

Cosa ci insegna la crisi del 2008

Le crisi agiscono da detonatore, aprendo possibilità prima insperate nei sistemi politici; esse rompono gli equilibri e trascinano in basso gli attori principali.

Certo, la crisi deve essere di una certa intensità e, che ci piaccia o meno, a guidare la rivolta elettorale contro i principali partiti non è la convinzione di una rivoluzione sociale, ma il rifiuto di una classe politica immorale e corrotta, di un sistema politico e istituzionale incapace di dare soluzioni efficaci.

Anni di depoliticizzazione di massa plasmano anche la fisionomia dell’alternativa, che assume quasi sempre la forma di una risposta ai problemi democratici, e di un rinnovamento radicale della classe politica.

Nel 2008, dopo la crisi, in Spagna e in Italia si sono affermati due partiti (rispettivamente, Podemos e Movimento 5 Stelle) che hanno rotto il bipolarismo grazie alla denuncia della casta, a una proposta di democrazia partecipativa e, in secondo ordine nella percezione collettiva, a proposte di maggiore giustizia sociale. La stessa Syriza ha vinto in Grecia come rappresentante dell’orgoglio nazionale contro la troika: come si spiegherebbe, altrimenti, l’alleanza successiva con Anel (partito di centrodestra), se pensassimo alla vittoria di Syriza come espressione semplicemente di una vittoria di sinistra?

Nel contesto italiano, l’enorme crisi sociale apertasi a causa dell’azione di un governo devastante potrebbe rappresentare l’apertura di un’occasione politica, aumentando nel medio-breve periodo la sfiducia verso un quadro partitico che appoggia quasi unitariamente questo governo. Tuttavia, questo non è né scontato né meccanico.

Inoltre, ancora una volta, non basterà rappresentare le ragioni sociali dei nostri, ma articolarle in una proposta di rinnovamento e radicalizzazione democratica segnata da un cambio della classe politica e dal superamento di una democrazia in cui i cittadini non decidono più nulla.

Il recente passato ci dimostra che ci si può muovere fuori dal bipolarismo senza essere minoritari, a patto di articolare questione di classe e questione democratica, che spesso si nasconde dietro la foga popolare contro la classe politica.


* Francesco Campolongo è ricercatore di sociologia politica all’Università di Padova. Si è occupato di populismo, democrazia e classi popolari. É segretario del circolo di Rifondazione Comunista di Cosenza e componente del “Cantiere delle idee”.


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