Furio Jesi e lo spazio politico del mito

Leonardo Croatto*

Alcuni anni fa, a margine di un percorso di formazione sindacale, partecipai insieme ad altri alla sperimentazione di un modulo sulla comunicazione politica. La prima lezione fu una panoramica storica a partire da La psicologia delle folle di Le Bon per arrivare alle campagne elettorali moderne. Alla fine della lezione una compagna presente al corso, sindacalista di grande esperienza, dichiarò: “non capisco a cosa ci serve questa roba. Noi parliamo coi lavoratori in assemblea e spieghiamo come stanno le cose, se siamo comprensibili e autorevoli non abbiamo bisogno di altri strumenti.” La sperimentazione si chiuse con quell’episodio pilota, non ebbe mai un seguito.

La convinzione che “spiegare bene”, inteso come fornire informazioni oggettivamente corrette, sia un’arma invincibile della politica l’ho incontrata molte altre volte, in diversi contesti. Ricordo bene quando, a un incontro in cui si discuteva di immigrazione, uno dei relatori propose – con ottimi riscontri da parte del pubblico – di smettere di fare appello ai buoni sentimenti, all’umanità, e, invece, provare a convincere i soggetti ostili che i migranti non rappresentano un pericolo per la società insistendo sui dati: più grafici che dimostrassero l’assenza di correlazione tra immigrazione e criminalità, per esempio.

L’idea leibniziana che si debba rendere qualsiasi ragionamento simile a quello dei matematici, che ogni disputa possa essere risolta attraverso il calcolo, determinando in maniera oggettiva chi ha ragione e chi ha torto, è senza dubbio affascinante sia per chi ha ricevuto un’educazione prevalentemente scientifica sia per i materialisti dialettici. Purtroppo, una valutazione anche abbastanza superficiale delle dinamiche sociali, del comportamento dei nostri simili, dovrebbe bastare a convincere anche i più ardenti positivisti che il cervello umano non funziona affatto come una macchina squisitamente razionale. 

Questa premessa mi è utile per chiarire il contesto in cui è avvenuto il mio incontro con Furio Jesi, ed in particolare con il Furio Jesi “politico” (quello di Cultura di Destra e di Spartakus, per capirsi). Jesi ha risposto a un interrogativo sul quale giravo a vuoto da tempo: per quale motivo, anche nelle condizioni in cui siano a disposizione tutti i dati necessari per fare delle scelte informate e consapevoli, la gente prende decisioni sbagliate, al limite dell’autolesionismo?  Cosa spinge un lavoratore a basso reddito a sostenere un partito che propone una tassa piatta al 15% per chiunque? Non è evidente che il maggior beneficio è per chi paga molte tasse e non per chi ne paga molto poche? Non è evidente che il pesante taglio alle entrate si scaricherà sui servizi pubblici di cui proprio chi ha redditi bassi ha maggior bisogno?

Il mio rapporto con Jesi non è quindi di tipo accademico – non ho alcuna preparazione formale nelle materie di cui lui si è occupato nella sua carriera di studioso – ma, potrei dire, militante. Jesi è stato per me, ed è ancora, uno straordinario strumento di chiarimento su alcune dinamiche del pensiero umano intimamente legate all’attività politica.

Il Furio Jesi mitologo 

Furio Jesi è stato, nonostante la sua breve vita, uno studioso dalla incredibile varietà di interessi, tutti affrontati con grandissima intelligenza, profondità e creatività e con una straordinaria attitudine a creare correlazioni tra una disciplina e l’altra. Questa sua conoscenza di vasti ambiti della produzione intellettuale umana, e la capacità di costruire relazioni, rende illuminanti le sue valutazioni antropologiche. Jesi, inoltre, non ha mai avuto timore di dare ai suoi studi una piega esplicitamente politica, ed è proprio nelle connessioni con la politica che i suoi lavori sul mito hanno colpito il mio interesse.

Che cos’è il mito per Furio Jesi e perché riguarda profondamente chi fa politica? Jesi ha a lungo studiato gli aspetti simbolici, culturali, linguistici che producono un mito, ne favoriscono la diffusione e ne determinano l’utilità per fini strumentali. Il mito si produce attraverso un dispositivo che lui chiama “macchina mitologica”: un meccanismo dalla struttura non direttamente rilevabile che produce le “emozioni, sensazioni, convinzioni che una persona o un gruppo di persone si fanno ascoltando delle narrazioni”. Il mito vivente, quello che agisce direttamente sulle persone che lo incontrano, non è quasi mai riconducibile al modo in cui si è generato: il mito si manifesta per come si diffonde nello spazio e nel tempo e per gli effetti che produce; quasi mai se ne conosce la reale origine. Per questo motivo, Jesi ritiene più interessante capire come funziona la “macchina mitologica” che studiare il contenuto reale del mito. Il mito non ha una sostanza intima, ma la sua forma è rilevabile dagli effetti evidenti che produce sulla realtà.

Si dice – non conosco esattamente i contorni di questa vicenda  che potrebbe essere essa stessa un mito – che fu il modo con cui i giornali costruirono la colpevolezza dell’anarchico Valpreda a seguito della strage di Piazza Fontana che spinse Jesi a studiare come si costruisce un colpevole e come si trasferisce questa certezza di colpevolezza ad altri. Come si inventa una notizia e come la si rende virale, si direbbe con un linguaggio contemporaneo. Lo studio della macchina mitologica è quindi lo studio di come un mito si produce e come questo diventa così convincente, credibile e appetibile da replicarsi, diffondersi e sopravvivere alle epoche. Non è un caso che Jesi abbia dedicato un suo saggio (L’accusa del sangue) alla macchina mitologica antisemita, di cui vengono ricostruiti, partendo da un episodio avvenuto a Damasco nel 1840, i riverberi diretti verso il presente e provenienti dal passato.

Il potere del mito

Il mito, in questo senso, non è quindi una manifestazione divina, non è racconto di gesta eroiche. Il mito è una vera e propria tecnologia; è legato all’arte e alla letteratura, ma, a differenza di altre produzioni culturali, ha una sua specifica capacità di fascinazione che ne agevola la replicazione e ne favorisce la diffusione. Il mito produce effetti sulla capacità di chi lo assorbe di leggere la realtà. Il mito muove le coscienze, modella i frame cognitivi, genera azioni concrete. 

Anche il mito della mitologia ha una sua forza: la mitologia riesce, nel senso comune, a non apparire mai come strumento nelle mani di qualcuno; il suo apparire come sapere superiore e ancestrale, a disposizione di quei pochi eletti, di un’aristocrazia, che ne riesce a cogliere l’essenza vera, le consegna un potere che viene dall’essere essa stessa mito.

Questo potere esercitato dai miti, questa capacità di intervenire su chi li subisce modificandone gli strumenti di lettura della realtà ha, evidentemente, una sua utilità pratica. Jesi – ma credo che la definizione sia precedente a lui – parla di “tecnicizzazione del mito” quando il mito viene costruito e diffuso per un fine, per ottenere un preciso effetto, per orientare scelte, per produrre atti concreti.

La forza politica del mito ci è già evidente nella nostra pratica politica quotidiana. Conosciamo tutti quali siano i valori, le “idee senza parole” (espressioni prive di significato, pronunciate sempre con la maiuscola) intorno alle quali precipitano le azioni: Sangue, Patria, Onore, Fede, ma anche Speranza, Riscatto, così come altre che hanno segnato la storia. Il lavoro – a mio avviso imprescindibile, per chi fa politica – dello Jesi mitologo indaga sui meccanismi antropologici e culturali profondi che caricano parole, eventi e racconti di quella forza capace di piegare le coscienze. 

Se Cultura di Destra è una potentissima analisi della matrice culturale dei fascismi storici e ne mette in luce le fascinazioni per l’occultismo, per il primitivismo, per l’invenzione storica e ovviamente per l’antisemitismo, l’analisi di Jesi interviene anche su analoghe manifestazioni mitologiche che parlano ad altre ideologie. La fascinazione per le “idee senza parole”, il loro utilizzo strumentale, il ricorso al mito tecnicizzato non appartiene solo alla destra; tutte le ideologie si servono di miti tecnicizzati per favorire la propria diffusione. Se cerchiamo un esempio di come anche a sinistra si sia fatto uso di miti tecnicizzati, il libro di Barbara Imbergamo Mondine in campo racconta come lo stereotipo della mondina, quella di Riso amaro, combattiva, bella e trasgressiva sia quasi completamente inventata. Alla produzione dell’immagine della mondina ha dato un contributo significativo il quotidiano socialista Il lavoro, costruendone artificialmente il mito e proiettandolo sullo scenario politico.

Il cervello umano ha una naturale propensione ad appassionarsi alle storie, a entrare in risonanza in maniera naturale coi racconti – se correttamente costruiti – molto più di quanto ha predisposizione all’analisi razionale dei fenomeni. L’intuizione che la “scenarizzazione” della realtà potesse sostituirsi alla realtà stessa nella percezione degli individui l’aveva avuta anche Guy Debord, ma oramai il modo in cui il cervello risponde a immagini, stereotipi, metafore e messaggi per costruire i propri strumenti di decodificazione della realtà è ambito di studio su cui lavorano, da decenni, diverse discipline: dalle neuroscienze alla linguistica alla psicologia. 

In tempi recenti l’arte di costruire storie funzionali a uno scopo è diventata strumento principale del marketing, e, per reazione, a sinistra si è attribuito allo storytelling un valore ontologicamente negativo (atteggiamento, a mio avviso, decisamente idealista). Se anche Jesi ci mette in guardia, in Spartakus, dal pericolo di utilizzare le stesse strutture simboliche dell’avversario capitalista rischiando di venirne risucchiati, rischiando che una rivoluzione evocata ma non preparata si trasformi in una rivolta di breve durata, è pure vero che, perché la rivoluzione avvenga, è necessario che da molti questa rivoluzione sia sperata, desiderata, sognata, prima ancora che capita.


* Leonardo Croatto chimico di formazione, sindacalista per passione. Segue, per la FLC CGIL, i settori privati dell’educazione e della formazione, oltre alle dinamiche di privatizzazione dei sistemi d’istruzione.


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