Gramsci: fascismo come rivoluzione passiva

Guido Liguori

Nel dibattito pubblico internazionale il concetto gramsciano oggi più diffuso è quello di «rivoluzione passiva», usato – a volte a sproposito – per interpretare fatti e politiche anche molto diverse, da quelle neoliberiste ai regimi progressisti latinoamericani. Ma cosa significa questo concetto, a partire da Gramsci, e come può realmente aiutarci a spiegare i fenomeni contemporanei?

Come è abbastanza noto, il concetto che Gramsci ha reso famoso era stato usato da Vincenzo Cuoco nel suo “Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli”, pubblicato nel 1801, poco dopo la fine della Repubblica giacobina partenopea, sconfitta dalle truppe sanfediste anche per l’incapacità delle élites rivoluzionarie (per di più aristocratiche o intellettuali) di attivare il popolo interpretandone le esigenze e i bisogni. Con altro significato, l’espressione era stata già usata dal rivoluzionario americano Thomas Paine, e da questi Cuoco l’aveva tratta, usandola in modo originale, per esprimere la sua convinzione della non adattabilità della Rivoluzione francese al contesto italiano, o quanto meno della difficoltà di “esportarla” in altri paesi. Del resto, nel Novecento, anche i comunisti dovranno imparare a proprie spese che “la rivoluzione non si esporta”.

Gramsci dunque trae (anche se probabilmente in modo indiretto, leggendo Croce o De Ruggiero) il concetto di rivoluzione passiva da Cuoco: nel “Primo quaderno”, un piccolo quaderno scolastico a righe coi margini laterali rossi, completamente riempito in una cella del carcere di Turi nel 1929-30, troviamo infatti scritto: «Ci può e ci deve essere una “egemonia politica” anche prima della andata al Governo e non bisogna contare solo sul potere e sulla forza materiale che esso dà per esercitare la direzione o egemonia politica. Dalla politica dei moderati appare chiara questa verità ed è la soluzione di questo problema che ha reso possibile il Risorgimento nelle forme e nei limiti in cui esso si è effettuato di rivoluzione senza rivoluzione o…» (con una aggiunta a margine scritta in epoca posteriore) «…di rivoluzione passiva secondo l’espressione di V. Cuoco».

Diversi mesi più tardi, nel “Quaderno 8”, Gramsci scriverà ancora: «Sia la “rivoluzione restaurazione” del Quinet che la “rivoluzione passiva” del Cuoco esprimerebbero il fatto storico dell’assenza di iniziativa popolare nello svolgimento della storia italiana, e il fatto che il “progresso” si verificherebbe come reazione delle classi dominanti al sovversivismo sporadico e disorganico delle masse popolari con “restaurazioni” che accolgono una qualche parte delle esigenze popolari, quindi “restaurazioni progressive” o “rivoluzioni restaurazioni” o anche “rivoluzioni passive”».

Assunto per spiegare il carattere non popolare del Risorgimento, il concetto di rivoluzione passiva viene poi applicato da Gramsci – e questo è il fatto per noi più interessante, e che assicurò al concetto vasta fortuna – ai principali fenomeni storici del Novecento: all’americanismo, al fascismo e anche al socialismo sovietico. Nata come categoria storiografica, esso era divenuto nei “Quaderni del carcere” di Gramsci una categoria teorica applicata a fenomeni diversi, nuovi allora, tutti da comprendere. In che modo viene utilizzata? Cosa ci dice di fatti storici così differenziati e a prima vista opposti?

Riformismo dall’alto

Riguardo al fascismo, ad esempio, Gramsci scrive nel “Quaderno 10” che «si avrebbe una rivoluzione passiva nel fatto che per l’intervento legislativo dello Stato e attraverso l’organizzazione corporativa, nella struttura economica del paese verrebbero introdotte modificazioni più o meno profonde per accentuare l’elemento “piano di produzione”, verrebbe accentuata cioè la socializzazione e cooperazione della produzione senza per ciò toccare (o limitandosi solo a regolare e controllare) l’appropriazione individuale e di gruppo del profitto».

Questo avviene, specifica più volte Gramsci, quando gli «elementi attivi», ovvero l’iniziativa popolare, sono scarsi. In questo caso, i cambiamenti anche strutturali resisi indispensabili non sono guidati dalle forze rivoluzionarie, ma da diversi fenomeni politici prodotti dalla classe al potere. Infatti, mentre nel Risorgimento la rivoluzione passiva indicava i modi “non rivoluzionari”, non popolari, con cui si aveva avuto il passaggio di potere tra due classi diverse (dall’aristocrazia alla borghesia, nella fattispecie), nel Novecento Gramsci usa questa categoria per descrivere i processi di cambiamento del governo della produzione e della società da parte della stessa classe al potere: in primo luogo la borghesia.

La rivoluzione passiva è passata infatti a significare un intervento dall’alto che le classi dirigenti compiono per fronteggiare la crisi economica di fine anni Venti e ridefinire i rapporti tra Stato e mercato, tra politica ed economia. Il che avviene perché il vecchio liberalismo non solo non riesce a fronteggiare le ricorrenti crisi, ma non ce la fa più neanche, con i suoi vecchi strumenti elitari, a governare la società di massa nata a fine Ottocento e “attivata” dalla Grande guerra. Dopo la quale – anche grazie alla Rivoluzione d’ottobre – le masse sono entrate in fermento, hanno espresso una nuova soggettività, un nuovo protagonismo, una nuova voglia di contare, di prendere il potere, di cambiare le regole del gioco scrollandosi di dosso il falso mito delle leggi immutabili del mercato e dell’economia.

Questo hanno fatto per Gramsci l’americanismo col New Deal, coi lavori pubblici, e ancora prima con il fordismo-taylorismo, con gli alti salari che esso assicurava a una classe operaia ipersfruttata, è vero, ma anche ben remunerata e gradualmente inserita nella nascente “società dei consumi”. Il capitalismo statunitense era anzi per Gramsci (e aver capito questo chiuso in un carcere fascista ci appare straordinario, e fa capire la sua dimensione intellettuale) il vero nemico del movimento comunista internazionale, il vero “cavallo vincente” della borghesia con cui si sarebbe alla fine dovuto fare i conti. Come in effetti fu.

Una risposta all’Ottobre

Anche l’evoluzione della “costruzione del socialismo” in Unione Sovietica venne letta da Gramsci con le lenti della rivoluzione passiva: quella russa era una situazione molto arretrata, in cui la classe operaia era scarsamente sviluppata e le masse contadine costrette in un contesto semifeudale, nella quale dunque, dopo la rivoluzione, la “politica” (il partito, lo Stato) aveva dovuto sopperire a tali limiti assumendo l’iniziativa necessaria per “costruire il socialismo”.

Gramsci da una parte reputa necessaria questa opera di sostituzione delle forze sociali da parte di una soggettività “giacobina”, dall’altra mette in guardia contro i pericoli che ciò alla lunga avrebbe comportato: pericoli di «statolatria», dice con il linguaggio un po’ criptico che usa in carcere, ovvero pericoli di eccessiva delega allo Stato e al partito, e quindi di mancanza di protagonismo delle masse, delle classi popolari, di crescita politico-culturale dei “subalterni”, che avrebbero corso così il rischio, alla lunga, di depoliticizzazione, di “morfinismo politico”.

Il fascismo, lo Stato fascista, erano considerati una risposta (come in modi diversi l’americanismo, del resto) alla Rivoluzione d’ottobre. Non solo una risposta reazionaria, antioperaia e antipopolare, fatta a colpi di manganelli. Ma anche una risposta nel senso di tentativo di costruzione di uno Stato nuovo, di un nuovo rapporto tra Stato, società ed economia, che senza sovvertire il capitalismo vi immettesse gli «elementi di piano» indispensabili, permettendogli di sopravvivere alle crisi ricorrenti, e soprattutto, in prima istanza, a quella terribile del 1929 che aveva preso avvio dal “crollo di Wall Street”.

Il fascismo operava cioè (come anche l’americanismo) il tentativo di costruire una situazione intermedia tra il liberalismo ottocentesco, basato sullo Stato “minimo” e sul suo relativo non intervento nel gioco economico e nel governo delle masse, e lo Stato socialista, la cui azione si fondava dalla fine degli anni ’20 sulla pianificazione integrale, sui piani quinquennali, sul dirigismo statale assoluto, dunque realizzato dall’alto.

Anche il fascismo, con il suo “corporativismo”, o con il salvataggio delle grandi banche e la fondazione dell’Iri, o con le istituzioni create per organizzare la società, le masse, la loro vita quotidiana, anche con interventi oggettivamente a favore dei lavoratori (come Togliatti avrebbe analizzato in modo approfondito nelle sue “Lezioni sul fascismo” tenute a Mosca nel 1935), era a suo modo una “rivoluzione”, un cambiamento profondo: un nuovo modo di porsi delle istituzioni di fronte alla società e all’economia – pur senza dimenticare che il capitalismo restava sostanzialmente intoccabile per il fascismo (nella appropriazione privata dei profitti, come nota Gramsci) e che la demagogia mussoliniana aveva a tratti anche esaltato il liberismo, ma per creare poi invece uno Stato che tentava di immettere elementi di razionalizzazione e regolamentazione per limitare i catastrofici effetti del mercato.

Il fascismo, insomma, si mosse con spirito inventivo per salvare il capitalismo e per rendere “passive” le masse. I cambiamenti necessari dovevano avvenire senza provocare scossoni, rivoluzioni “attive”, rivoluzioni vere e proprie, basate sulla soggettività popolare e proletaria.

Neoliberismo

Dunque il fascismo è stato certo una feroce reazione antioperaia e antipopolare, ma anche, per Gramsci, il tentativo di costruire uno Stato nuovo, una società nuova: per il comunista sardo, il fascismo non era solo reazione, ma opera di cambiamento attivo, di trasformazione, sia pure per passivizzare le masse. Per questo era considerato una rivoluzione passiva.

Resta il dubbio che – gramscianamente parlando – la rivoluzione passiva possa essere usata oggi per definire l’azione neoliberista e neoconservatrice, come quella delle destre al governo. Sono fortemente repressive e retrograde, ma col fascismo, col suo statalismo, col suo “interventismo” nella società, non c’entrano molto. Mentre tentativi di rivoluzione passiva appaiono piuttosto quelli di forze spesso ritenute a torto o a ragione di sinistra, che operano interventi economici (anche apprezzabili) in favore delle masse, ma senza creare contropotere, senza far crescere – ecco il loro limite – la soggettività delle classi popolari, lasciandole dunque nella loro subalternità.

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