I comunisti e la scuola
Diego Giachetti
Luigi SARAGNESE, I comunisti e la scuola, Roma, ed. Redstarpress, 2022, pp. 259, 25 euro.
Quello di Luigi Saragnese (I comunisti e la scuola, Redstarpress, Roma 2022) è un libro segnato dall’impostazione gramsciana, secondo la quale la storia di una istituzione, come quella di un partito, non può essere trattata come un fatto isolato dal resto della società. In questo senso il libro contiene due storie che s’intersecano e si spiegano l’una con l’altra: una storia politica e sociale dell’Italia al tempo della Prima Repubblica e una storia della funzione attribuita al sistema scolastico da parte delle élite governative, con le relative proposte comuniste volte a scardinare quell’ordinamento istituzionale, per consentire l’accesso ad un’istruzione eguale per tutti, finalizzata alla formazione di cittadini criticamente consapevoli e partecipi alla vita di una comunità democratica.
La fine della guerra lasciava in eredità l’impianto scolastico della riforma gentiliana del 1923. Comunisti e socialisti premevano per riforme sostanziali: scuola media unica e obbligatoria; riconsiderazione dell’importanza dell’istruzione tecnico-professionale; definizione dello stato giuridico ed economico degli insegnanti; soppressione della normativa fascista; fornitura gratuita dei libri di testo, del materiale scolastico e abolizione delle tasse scolastiche. Comune era l’idea di una scuola unitaria, costruita sul nesso lavoro-educazione-società, non solo di formazione teorico-astratta, ma di pratica democratica, di collaborazione e ricerca collettiva, promotrice di un nuovo umanesimo, sintesi tra sapere tecnico-professionale e intellettuale.
Il Pci, a partire dal 1955, assunse il tema scuola come uno degli aspetti prioritari della sua proposta politica. Mario Alicata, direttore della Commissione culturale del partito, proponeva un piano di riforma articolato in tre punti: edilizia scolastica e riforma dei patronati; creazione di organismi di partecipazione per studenti e genitori; estensione dell’obbligo scolastico gratuito a otto anni, senza insegnamento del latino nel triennio della media e rinnovamento dei programmi con l’introduzione dello studio della Resistenza e della Costituzione. La proposta comunista giungeva proprio mentre potenti spinte “oggettive” – sviluppo capitalistico accelerato, passaggio da un’economia prevalentemente agricola a una industriale, flusso migratorio interno – ponevano l’esigenza di una istruzione tecnico-scientifica non più subalterna alla cultura umanistico-retorica.
Gli anni Sessanta aprivano alle riforme del sistema scolastico a cominciare dal varo della legge (31 dicembre 1962) che istituiva la scuola media unica obbligatoria e gratuita. L’introduzione della scuola media comportò un aumento del numero degli alunni e delle classi a fronte di un’edilizia scolastica inadeguata. Soprattutto nella scuola media risaltò l’impreparazione didattico-pedagogica degli insegnanti, privi di una adeguata preparazione universitaria, eccezion fatta per le facoltà di Magistero, nel rapportarsi a una scolaresca con caratteristiche differenti da quella elitaria degli istituti liceali. L’incontro tra insegnanti e nuovi studenti medi lasciava sul terreno un incremento di bocciature e di abbandoni, una selezione di classe al tempo denunciata dal libro scritto dagli alunni di Don Lorenzo Milani della scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, del 1967.
L’altra riforma di struttura pensata dai comunisti riguardò la scuola media superiore proposta dal deputato Marino Raicich nel 1972, tesa a rivedere la tripartizione in licei, istituti tecnici e professionali, prospettando un processo formativo unitario, superando la divaricazione tra scuola di cultura e di professione, estendendo l’obbligo fino ai sedici anni di età, introducendo organismi collegiali, come venne in parte recepito dalla legge del 1974 sui decreti delegati e sullo stato giuridico degli insegnanti. La proposta di Raicich, scrive l’autore, fu l’ultimo colpo di coda di una riforma complessiva e strutturale del sistema scolastico. Dopo si ebbero aggiustamenti anche di rilievo, privi però di un disegno unitario mentre, sul finire degli anni Ottanta, dagli Stati Uniti provenivano pedagogie conservatrici, collegate alle categorie di capitale umano, meritocratiche, basate sull’assioma della competitività scolastica, luogo di addestramento al mercato del lavoro. Erano le avvisaglie della scuola azienda, produttrice di diplomati al minor costo possibile da inserire nel concorrenziale mercato del lavoro, a scapito della dimensione educativa democratica, collettiva e solidale del processo formativo.