Il caso del M5S

Giuliano Santoro*

Se la politica cambia insieme al modello di produzione, allora è bene dirsi che nulla sarà più come prima. Il modo in cui viviamo, comunichiamo, interagiamo con il mondo, è figlio della rivoluzione digitale. La straordinaria occasione per capire come questi fattori si siano collocati nello scenario italiano è fornita dalla storia, nient’affatto lineare e piena di ambivalenze e contraddizioni, del Movimento 5 Stelle. Non intendiamo questa formazione come il mostro che arriva a turbare un equilibrio dato. Al contrario, ci troviamo di fronte l’esempio più cristallino, e a suo modo più genuino, di partito dell’era digitale.

Dopo Forza Italia, anticipazione globale della videocrazia, e prima del Partito democratico di Matteo Renzi e della Lega di Matteo Salvini, il M5S ha tracciato la strada. O meglio, ha palesato le nuove condizioni dentro a un contesto specifico: quello di un paese che non ha avuto di fatto alcune esperienza di new economy e di innovazione, reduce da un ventennio in cui si è consumata l’estinzione della sinistra dal parlamento e in cui si sono affermate due forme specifiche della politica e due varianti del populismo: la Lega Nord e Forza Itaia. Il M5S, dunque, ci interessa perché rappresenta la via italiana alla politica nell’era del digitale. Per capire in che modo proviamo a elencare alcune delle caratteristiche tipiche del capitalismo delle piattaforme digitali e incrociamole con la storia della piattaforma-partito che chiamiamo M5S.

Il massimo dello spontaneismo, il massimo della banalizzazione

Riflettendo sulla cultura al tempo del digitale, l’analista statunitense Douglas Rushkoff teorizza un mondo all’interno del quale non esistono più narrazioni lineari ma soltanto eterne dirette h24, dentro alle quali pure succedono delle cose ma senza il continuum passato-futuro. La vita è questo continuo scorrere, questo continuo tentare di afferrare l’eterno presente. Magari ci sono link, cunicoli spazio-temporali, ma si spalmano dentro a uno scenario in cui non esiste progressione degli eventi ed è difficile riconoscere la relazione tra causa ed effetto.

Ma che ne è della politica? Rushkoff prende a esempio i due movimenti sviluppatisi negli Stati Uniti nei primi anni 2000, sotto la presidenza Obama: Occupy e il Tea Party. Entrambi hanno elaborato lo scenario che Rushkoff chiama “presente continuo” e offerto reazioni opposte, una da destra e una da sinistra, al collasso delle grandi narrazioni. “Il Tea Party vuole saltare alle conclusioni, mentre il movimento Occupy cerca di mantenere l’indeterminatezza”, scrive Rushkoff. Da un lato “i membri del Tea Party intendono cancellare il caos di un mondo privo di storie definitive” offrendo soluzioni facili, quelli di Occupy con il loro assemblearismo “vogliono abbracciare quel caos e farlo loro al fine di far emergere nuove forme di narrazione”. Per lungo tempo, in maniera straordinaria, il M5S è stato entrambe le cose: banalizzazione e partecipazione caotica.

Uno vale uno, ma poi decide il Capo

Gianroberto Casaleggio, che pure diceva ai suoi di abbassare sempre il livello del discor- so, conosceva i manuali di organizzazione del lavoro creativo postfordista: bisogna prospera- re nel caso, lasciare briglia sciolta e controllare poche cose ma in modo ferreo. Ciò ci conduce al secondo elemento che mette in relazione l’economia digitale al M5S: in questi contesti chiunque (in teoria) può fare quello che vuole ma c’è sempre bisogno di qualcuno che detenga poteri assoluti. Che si tratti di Richard Stallman per Linux o di Jimmy Wales per Wikipedia, qualsiasi progetto che si muove sullo scenario digitale, anche quello che sembra il più aperto, ha bisogno di un plenipotenziario che metta fine alle discussioni infinite o sancisca regole ed eccezioni. Nel Movimento 5 Stelle l’utopia a-gerarchica dell’«uno vale uno» ha sempre avuto bisogno, anche nei momenti di maggiore apertura e spontaneismo, del principio di autorità, dei fondatori nelle vesti del padre-padrone benevolo e del comico-garante.

«I cavalieri senza macchia e senza paura di cui Assange è il volto pubblico sono hacker che si presentano come sacerdoti-custodi di una tecnologia liberatrice, pronti a sfidare il sistema a costo della propria libertà», ha scritto il collettivo Ippolita.

«Ci sono delle contraddizioni, naturalmente, ma è tutto per il nostro bene. La più evidente, è che la battaglia per la trasparenza necessita di un’organizzazione semi-segreta, opaca, con una gerarchia occulta, finanziamenti occulti e un unico leader pubblico, un capo carismatico capace di bucare la telecamera e battersi a duello con gli altri capi del mondo, i presidenti, in una logica di guerra mediatica. Nessuna mediazione, nessuna fatica, nessun impegno: la verità tutta insieme, una sola, quella dei documenti che la tecnologia di Wikileaks vi offre, vi renderà liberi».

La rete non è il media che sostituisce gli altri ma quello che li ingloba tutti

Dal punto di vista culturale un mezzo di comunicazione di massa si afferma quando deve rispondere alla domanda generata dal medium precedente. Dunque, la relazione tra televisione e web è molto stretta, e il modo in cui il personaggio televisivo Grillo ha colonizzato la Rete continuando a comportarsi come se fosse in televisione ne è la straordinaria testimonianza. Come aveva teorizzato Umberto Eco parlando di “neotelevisione”, da anni ormai la tv ha smesso di essere uno schermo che lo spettatore si limita a guardare. La relazione neotelevisiva investe un pubblico che avverte di poter stare dentro, diventando pubblico in studio, aspirando a diventare protagonista, rispondendo ai quiz da casa e infine tele-votando. «La trasmissione la fate voi!» era il tormentone del bravo presentatore interpretato da Nino Frassica in Indietro tutta.

Eppure, la mossa retorica con la quale Beppe Grillo ha seppellito mediaticamente i dinosauri della politica e dell’informazione italiana e ipnotizzato milioni di elettori sta proprio nell’annuncio fittizio di una nuova era, di una cesura storica di cui la rete sarebbe portatrice. Gianroberto Casaleggio non era un genio e tantomeno un grande stratega (chi ha lavorato con lui dice che al contrario, semmai la sua dote era quella di saper prendere le giuste decisioni nel breve periodo). Ma Casaleggio aveva capito che il personaggio televisivo Grillo poteva entrare nella sfera digitale proprio in quanto personaggio televisivo. Il che dimostra che un nuovo media non mangia i vecchi media, così come non è successo che la radio sia stata uccisa dalla televisione, al contrario di quello che diceva la nota canzone.

Grillo arriva sul web mentre le masse iniziano a scoprire lo strumento. Milioni di italiani digiuni di culture digitali e figli del ventennio berlusconiano come avrebbero potuto utilizzare la rete? Difficile che all’improvviso scoprissero le fatiche della discussione tra pari e della democrazia diretta. Grillo ha offerto loro una via di uscita. Ha portato in rete la comunicazione verticale della tv. Ha costretto la televisione a inseguirlo, facendo in modo che i suoi fans si organizzassero dal basso (è la cultura convergente della quale scrisse Henry Jenkins, con toni ottimistici circa l’indole partecipativa dei nuovi spettatori). Da uomo di televisione e da consumato testimonial, Grillo sa bene che l’assenza pesa più di una presenza. Per questo le sue apparizioni su YouTube usato come una televisione on demand sono il corrispettivo delle videocassette che Berlusconi manda alle televisioni per annunciare la sua discesa in campo. E per questo quando il M5S ha conosciuto il suo primo boom elettorale, nel 2013, i comunicatori della Casaleggio Associati scelsero e addestrarono pochi e selezionati volti televisivi (è anche accertato che li abbiano portati a sbiancarsi i denti!) e li utilizzarono come nuovi testimonial. I video dei loro interventi in aula, orazioni spesso fuori tema pensate solo per l’audience digitale, servivano a usare il Parlamento come location autorevole di piccoli spot che diventavano virali grazie a Facebook.

Le bolle dell’audience digitale

Ma se con Bernard Manin parliamo di democrazia del pubblico, e di comunicazione che prende il posto dell’organizzazione, allora dobbiamo capire a che tipo di pubblico ci riferiamo. Con la fine della televisione generalista i media digitali inseguano la sommatoria delle tante nicchie di audience; allo stesso modo la nuova politica riesce a federare diverse congetture senza essere costretta a farne una sintesi coerente. Allo stesso modo in cui le piattaforme digitali costruiscono diversi canali e assecondano le differenze che costituiscono la platea degli utenti, il Movimento 5 Stelle moltiplica le sue parole d’ordine mettendo insieme parole che provengono da diverse culture politiche e sensibilità. Si dirà che in politica le contraddizioni diventano incoerenza. Ma un’altra caratteristica tipica della piattaforma digitale per eccellenza, Facebook, mostra come le nicchie di audience difficilmente interagiscano tra loro, si scontrino. È ormai noto che il social network di Zuckerberg tenda a restringere il campo delle nostre relazioni attorno alle affinità più strette: l’algoritmo seleziona le interazioni e ci sottopone solamente gli aggiornamenti di chi è più simile alle nostre caratteristiche. È in questo modo che le differenze dell’elettorato del Movimento 5 Stelle non diventano mai contraddizioni, si affiancano e trovano il modo di coesistere. Almeno fino a quando il M5S non è diventato stabilmente una forza di governo. Di più: da quando i dirigenti del M5S non hanno dichiarato esplicitamente che il loro obiettivo era piantarsi al centro dello scenario politico per diventare l’ago della bilancia di ogni possibile maggioranza (come ha fatto Luigi Di Maio).

La Piattaforma Rousseau e la democrazia diretta da Zuckerberg

Non è una novità che gli imprenditori vogliano cambiare il mondo o si sentano investiti da una missione sociale. Nel caso degli grandi oligopolisti del digitale gli obiettivi aziendali sono quasi sempre accompagnati da un messaggio politico. Il paradosso è che a nessuno pareva strano che Zuckerberg dicesse di voler portare concordia nel mondo: tutti saremmo diventati amici nel Villaggio globale! Ma nel 2017, dopo che il mito di Facebook e della rete come macchina in grado di diffondere intelligenza e armonia era stato incrinato dalla vittoria alle elezioni presidenziali statunitensi di Donald Trump, da Menlo Park hanno corretto un po’ il tiro. E hanno divulgato un manifesto nel quale si immagina una società fatta di tante piccole comunità che si mette in relazione grazie alla infrastruttura Facebook. Il social network non garantisce che tutti siamo più buoni ma consente di chiudersi in comunità per proteggersi dai cattivi.

Antonio A. Casilli, chiedendosi qual è la performatività di questo messaggio, afferma che questa narrazione contiene una visione che è anti-statalista e libertariana di destra. “È una visione comunitaria nel senso peggiore del termine, di rottura delle basi di lealtà che reggevano gli stati moderni, sostituiti da logiche di mercato”, afferma Casilli. – “È una visione che, sincera o non sincera, spinge gli utenti a comportarsi di conseguenza. Anche perché sono sotto il controllo degli algoritmi che stabiliscono ad esempio cosa possono guardare, con chi possono connettersi”. Nel suo piccolo, il Movimento 5 Stelle ha sempre lavorato ad un’ipotesi del genere. Come è noto, nel M5S non sono mai state celebrate assemblee nazionali e tantomeno congressi. Tutti possano parlare con tutti a patto che ciò non avvenga in una dimensione di discussione collettiva. La piattaforma Rousseau, attesa per anni come panacea ai problemi di democrazia interna, funziona esattamente in questo modo: tu puoi parlare con gli eletti, presentare loro una proposta, attingere ai consigli di qualche altro gruppo locale, ma non esistono spazi di elaborazione collettiva.

Marco Deseriis, docente di Media and Screen Studies alla Northeastern University di Boston, è tornato in Italia per occuparsi di M5S e Rousseau. La sua ricerca coniuga l’analisi politica dei meccanismi di potere e quella più tecnica dei sistemi informatici. Se ne evince che i rapporti di forza disegnati da Rousseau costruiscono quella che Deseriis definisce “relazione asimmetrica” tra rappresentanti e rappresentati. Detto in altri termini, Rousseau era concepito a uso e consumo di chi stava nei palazzi e non di chi preme dal di fuori, funziona in maniera tale da minimizzare l’impatto dei conflitti tra chi governa e chi è governato. Per questo è molto difficile che utilizzando Rousseau si registrassero contrasti tra la base del M5S e la sua rappresentanza politica, i cosiddetti “portavoce” nelle istituzioni. Stando ai numeri elaborati da uno studio di Lorenzo Mosca, i meccanismi che si volevano partecipati di scrittura delle leggi si giovano di sempre meno contributi degli attivisti: il numero medio dei commenti per ogni progetto di legge era in caduta verticale, passato da 446 nel 2014 a 63 nel 2017, l’anno del trionfo elettorale dei grillini. “Quei processi – argomenta Deseriis – comportano una serie di attività (come l’acquisizione di conoscenze specifiche, il dare priorità ad alcuni temi, la creazione di alleanze tattiche con altre forze politiche) che da Rousseau sono strategicamente lasciate fuori”.

Basti guardare ai forum di discussione, che sono disegnati “in modo da consentire uno scambio di opinioni tra iscritti e rappresentanti (che hanno diritto di replica), ma non tra gli attivisti stessi”. Nella logica del sistema di Casaleggio si sacrificano le interazioni tra utenti, si può discutere con gli eletti ma non tra elettori. Ne risulta che l’azione collettiva perda centralità: è soprattutto il voto lo strumento tramite il quale chi aderisce al M5S può contribuire alla formazione della “volontà generale”, per utilizzare la nota espressione del filosofo Jean-Jacques Rousseau dal quale la piattaforma prende il nome. Ne deriva un partito di individui atomizzati, di consumatori della polemica quotidiana. Di certo non un corpo collettivo vivo e pensante. Un dispositivo che comunica dall’alto verso il basso, magari utilizzando i nuovi media ma con video e proclami affidati ai portavoce-testimonial, ormai insediatisi all’interno di una dispendioso set: i palazzi del potere.


* Giuliano Santoro, giornalista, scrive di politica e cultura su “il manifesto”. È autore, tra le altre cose, di Un Grillo qualunque e Cervelli Sconnessi(entrambi editi da Castelvecchi), Guida alla Roma ribelle (Voland), Al palo della morte (Alegre Quinto Tipo).


Immagine da pxhere.com

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