Il comunismo come mutazione

Rino Malinconico*

La nuova società e la nuova umanità

Gli ultimi decenni del Novecento e i primi decenni dell’attuale secolo hanno dovuto fare i conti (quasi mai ci sono riusciti, e spesso neppure hanno capito che proprio quei conti dovevano fare) con la consumazione delle vicende rivoluzionarie del “secolo breve” e con la crisi obiettiva della teoria – un marxismo largamente inteso in senso positivista – che le aveva lungamente accompagnate. Occorreva prendere di petto, e tuttora occorre farlo, una spinosissima questione di fondo, ovvero il dato inoppugnabile che la “nuova società” non aveva generato alcuna “nuova umanità”. Anzi, le gerarchie si erano incessantemente riprodotte anche all’interno dei Paesi che si dichiaravano non-capitalisti e che si presentavano all’esterno come sistemi socialisti.

Questa evidente difficoltà è stata lungamente spiegata col fatto che c’erano “i due tempi”: il tempo del socialismo come “emancipazione sociale” (a ciascuno secondo il suo lavoro); e il tempo del comunismo come “liberazione umana” (a ciascuno secondo i suoi bisogni). Ma era chiaro (per chi volesse vedere), ed oggi lo è ancora di più, che si trattava di una soluzione non solo debole sul piano della struttura argomentativa, ma anche continuamente smentita dall’insieme delle vicende storiche; e questo già prima del collasso dell’URSS e dell’attuale slancio dell’economia (capitalistica) cinese.

C’era stato, ovviamente, più di un tentativo, lungo l’arco del XX secolo, di mettere assieme “nuova società” e “nuova umanità”. Con tutte le sue contraddizioni, i suoi limiti, i suoi velleitarismi – e diversi suoi passaggi francamente inaccettabili –, soprattutto la rivoluzione culturale cinese cercò di andare in quella direzione. Si proponeva di “cambiare il mondo soggettivo”, di “toccare l’uomo nel più profondo dell’animo”, come recitava il primo dei famosi 16 punti approvati dal Comitato Centrale del partito comunista l’8 agosto del 1966.

Nel triennio straordinariamente ricco e straordinariamente tormentato vissuto dalla Cina tra il 1966 e il 1969, si affacciò, sia pure caoticamente, l’idea che, quasi quarant’anni dopo, sarà al centro della innovazione sudamericana dei concetti di socialismo e di rivoluzione.

Mi riferisco al fatto che, durante la rivoluzione culturale, la “presa del potere” consisteva era intesa essenzialmente nella come distruzione dei “quattro vecchi”: vecchi pensieri, vecchia cultura, vecchie consuetudini, vecchie abitudini.

L’esortazione di Mao alle Guardie rosse fu di “imparare a fare la rivoluzione, facendola”. La qual cosa significava essenzialmente che il potere da conquistare stava già tutto dentro l’agire rivoluzionario diretto e nella sua “presa di parola”. Prendere il potere nelle fabbriche, nelle comuni agricole e nelle università significava perciò convincere, dare corpo ad una pratica continua di “azioni e discussioni”, con l’obiettivo di trasformare se stessi assieme al mondo esterno; e farlo, appunto, con le armi della parola, con le armi della discussione critica e auto-critica.

Si trattò di un processo gigantesco e contraddittorio, con molti elementi impropri e distorcenti, che daranno luogo a tantissimi fraintendimenti, anche autorevoli (Eric Hobsbawm, ad esempio, nella sua ampia ricostruzione del XX secolo, l’ha addirittura ignorata, la Rivoluzione culturale, limitandosi alla astiosa definizione di “bizzarro cataclisma” inserito in “venti anni di maoismo, nei quali si combinarono la disumanità e l’oscurantismo di massa con le assurdità surrealiste”1); ma il Sessantotto europeo riprese largamente proprio quelle spinte, le stesse che agli occhi del grande storico inglese sembravano null’altro che “assurdità surrealiste”.

È sorprendente che nelle ricostruzioni del Sessantotto – così abbondanti in Italia e così intense nei vari ventennali, trentennali, quarantennali e, da ultimo, nel cinquantenario – sia stato regolarmente messo in ombra proprio il rapporto con la rivoluzione culturale.

È sorprendente perché nella coscienza di coloro che vissero quella stagione di lotte e di speranze come una vera scelta di vita, era proprio il Vento dell’est, per dirla col famoso film militante coordinato da Jean-Luc Godard, a soffiare fortissimo. Nei cortei e nelle assemblee si proclamava, in maniera persino ossessiva, che si dovesse fare, “qui e subito”, come in Cina.

Non stupisce, perciò che “Viva Mao” fosse, in quegli anni, la scritta murale di gran lunga più diffusa nelle città grandi e piccole d’Italia, Francia, Germania. Il fatto è che i settori più consapevoli del Sessantotto europeo, trent’anni prima del “movimento dei movimenti” seppero leggere – almeno parzialmente – l’imponente novità che disordinatamente veniva dall’Oriente, con quel singolare slittamento semantico dalla potestas alla potentia.

Potestas e Potentia

Potestas potentia: i due lemmi hanno la stessa origine, vengono entrambi dal verbo possum, dal suo participio aggettivato potens, ovvero “capace di”, “idoneo a” “che può fare”. Entrambi richiamano, perciò, l’elemento della “forza”. Ma mentre potestas attiene alla strutturazione delle regole sociali, comporta l’imperium, il comando, il classico ‘poterÈ dall’alto verso il basso, potentia concerne soprattutto il potere come verbo, il poter-fare, il potere di trasformare, creare, costruire. Gli scrittori latini utilizzavano potentia nel senso di ‘azione’, ‘capacità’, ‘efficacia’, persino come sinonimo di ‘virtù’. In tal modo, se potestas è connessa alla istituzionalizzazione delle relazioni sociali (che appunto vengono dette in linguaggio marxiano, e non solo marxiano, “relazioni di potere”), la potentia ci riporta all’azione trasformatrice. Nel Novecento tutte le rivoluzioni, quelle anticoloniali non meno di quelle “per il socialismo”, hanno avuto come obiettivo la potestas. Nessuna si è configurata come esplicitazione in sé della potentia. Il convincimento era che la potentia si completava esattamente col raggiungimento della potestas. Il Novecento non aveva l’idea – l’ha avuta parzialmente solamente nella Rivoluzione culturale cinese e nel Sessantotto occidentale – che la questione davvero decisiva non fosse quella di definire gli assetti, bensì di mettersi in cammino.

D’altra parte, il concetto di potentia si presta a letture diversificate ancor più di potestas.

Io, ad esempio, non lo assumo alla maniera dell’operaismo italiano, che lo ha circoscritto nei termini piuttosto tradizionali della “potenza rivoluzionaria”: prima come l’espressione della soggettività dell’operaio-massa, e più tardi come il modo di essere, spontaneo e naturale, delle moltitudini. In tale quadro, l’effetto che la potentia tenderebbe a produrre è l’attiva reazione dell’ordine capitalistico, costretto a ridisegnare continuamente se stesso e l’insieme sociale sotto la pressione della insorgenza proletaria. La tesi è quella originaria di Mario Tronti, il quale, pur prendendo le distanze dal Lenin presuntamente ‘iperpolitico’ della iconografia ufficiale della Terza Internazionale, poneva nei seguenti termini il rapporto tra gli operai e il Capitale:

Abbiamo visto anche noi prima lo sviluppo capitalistico, poi le lotte operaie. È un errore. Occorre rovesciare il problema, cambiare il segno, ripartire dal principio: il principio è la lotta di classe della classe operaia.2

L’idea è che il capitalismo, nonostante appaia il contrario, si muova sempre sotto l’influenza delle masse subalterne. Agirebbe unicamente per rispondevro pressione sociale, alle loro lotte e alla loro soggettività politica. E tale idea è poi trasmigrata linearmente nella scrittura negriana all’avvio del XXI secolo, con la globalizzazione imperiale che, da un lato, “sovrasta chiaramente la moltitudine e la assoggetta al comando della sua macchina pachidermica, un nuovo Leviathan”; dall’altra parte, considerata “da quella che abbiamo definito prospettiva ontologica, la gerarchia appare rovesciata. La moltitudine è la reale forza produttiva del nostro mondo, mentre l’Impero è un mero apparato di cattura che si alimenta della vitalità della moltitudine”. È puro “lavoro morto accumulato… che sopravvive soltanto succhiando il sangue dei viventi”3. L’immagine vampiresca del Capitale è di Marx. Egli la utilizzava per sottolineare l’obiettivo incombere, nella dinamica produttiva capitalistica, del ‘lavoro morto’ (i macchinari e il denaro investito) sul ‘lavoro vivo’ (le braccia dell’operaio e il suo impiego oltre il valore per cui è stato “comprato” dal capitalista). Non aveva alcuna pretesa di definire il movimento storico complessivo del capitalismo: era solo un modo efficace per ribadire il concetto di sfruttamento, l’appropriazione capitalistica del pluslavoro operaio. Negri e Hardt, invece, ripropongono l’espressione all’interno del discorso, che qualificano “ontologico”, sulla globalizzazione dei rapporti capitalistici; il che li porta, a mio parere, ad una idea riduttiva non solo del capitalismo ma anche della rivoluzione.

Intanto va detto che il capitalismo non vive unicamente nelle dinamiche economiche e politiche. In pari tempo, ed anzi soprattutto, esso tende ad essere l’“insieme”, socialmente strutturato, della vita reale. Si presenta come l’assetto complessivo del mondo moderno, come l’anima indispensabile dell’intera società. Di più: il capitalismo lo rinveniamo tangibilmente proprio negli individui concreti e nei loro concreti rapporti, sia sociali che privati. È in continua attività dentro di noi: nel senso che introduce incessantemente, e con straordinario successo, la società capitalisticamente strutturata nella coscienza medesima di ogni persona, ovunque si collochi nella scala sociale.

Quando il rapporto sociale di capitale viene visto come una semplice “modalità di funzionamento” dell’attività (costrittiva) di lavoro – o di “non funzionamento” o di “mal funzionamento -, e non lo si considera invece nel suo dato essenziale di presenza viva nel vivere concreto degli individui, la conseguenza, pressoché inevitabile, sarà proprio di sottovalutare il problema cruciale della rivoluzione anticapitalista: e cioè che gli stessi proletari debbono trasformarsi nel processo rivoluzionario.

Insomma, nei testi dell’autonomia operaia italiana negli anni ‘70, come pure negli scritti più recenti di Negri, la soggettività antagonista è ruvidamente chiamata ad una pratica di affermazione, non di autocostruzione. Non si fa entrare in crisi l’identità proletaria, o moltitudinaria che dir si voglia, poiché la si presume in partenza libera dalle tare del capitalismo. Anzi, per chi è convinto che il capitalismo non sia altro che una “funzione” della classe lavoratrice, l’affermazione che la rivoluzione debba essere anche, e in ultima analisi soprattutto, una “lotta contro noi stessi” (e non semplicemente una lotta contro il nemico esterno), apparirà sostanzialmente incomprensibile.

Così la potentia diventa un “poter fare” rivolto linearmente all’esterno; non è un poter fare indirizzato all’autocostruzione dell’essere umano, a ciò che sta al fondo, e per certi versi al di sopra, di ogni società storicamente determinata.

La rivoluzione come autocostruzione dell’umano

Non mi sfugge, ovviamente, che la direzione di marcia che io suggerisco comporta problemi non meno rilevanti, e persino più spinosi. Per dirne uno: l’essere umano “che si rinnova”, che si “auto-costruisce” è qualcosa già in nuce nelle dinamiche storiche o è una invenzione ex novo? Da questo punto di vista l’aiuto ci viene, forse, da un’altra ricerca degli anni ‘60 e ’70 del XX secolo: quella che si è ricollegata al grande ‘marxismo eretico’ del Novecento – in particolare a Ernst Bloch e a Herbert Marcuse – e che ha cercato di riflettere su cosa potesse davvero significare “costruire il socialismo”.

Mi riferisco, in breve, all’intreccio di “utopia concreta” e rivoluzione antropologica, che costituisce il più significativo lascito del Sessantotto.

“Sognare in avanti”, suggeriva Bloch. Ovvero, muoversi già in partenza in una logica di “speranza” e “azione partecipativa”: che è qualcosa di più forte, di più importante della logica della pura politica e della “costruzione istituzionale”; proprio perché è solo il cammino concreto, esperito in prima persona, quello che potrà rinnovare gli esseri umani “nel profondo dell’animo”.

Durante il “maggio francese” del 1968, un graffito sui muri dell’Università di Nanterre annunciava, in un modo che a me pare estremamente efficace, il vero elemento di novità (accanto ai tanti elementi di continuità) di quella temperie storica. La scritta recitava: «Ce n’est pas une révolution, Sire, c’est une mutation». Una mutazione, non una rivoluzione. Solo che “mutazione” è molto più di “rivoluzione”. Non ci si propone di cambiare le cose che sono, ma di far nascere ex novo altre cose, altre prospettive.


1 Cfr. E. J. Hobsbawm, Il Secolo breve, 1914-1991. L’era dei grandi cataclismi, traduzione di B. Lotti, Rizzoli, Milano 2018, p. 524 e p. 546.

2 L’affermazione è contenuta nel breve saggio Lenin in Inghilterra, uscito nel gennaio 1964 sul primo numero del mensile “Classe Operaia”.

3 Cfr. M. Hardt, A Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2002, p. 72.


* Rino (Salvatore) Malinconico è autore di diversi testi filosofici e letterari. Con “Oratorio per Lidice” ha vinto il Premio Zingarelli 2010. La sua più recente produzione teoretica comprende i tre volumi di “Teoria della totalizzazione” (2012), ampia analisi del capitalismo del nostro tempo, il libro “La dialettica della soggettività” (2014) e la raccolta di saggi “Il marxismo e le classi” (2018)


Foto di Julies da wikimedia.org

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