Il futuro del mercato delle idee. Tra declino dei giornali e trionfo dell’informazione via social

Fernando Bruno

Un mercato in declino strutturale

Se persino “Yomiuri Shimbun”, il quotidiano più letto al mondo, due edizioni al dì, oltre 10 milioni di copie giornaliere diffuse, patisce il fatidico segno meno, è ora di preoccuparsi sul serio.

Fuori di battuta, l’industria dei quotidiani in Italia (ai periodici va molto peggio) vive da circa 15 anni una crisi di sostenibilità e di vendite che ha tratti strutturali e irreversibili. Con qualche occasionale ed estemporanea eccezione, il trend del decennio fotografa una situazione gravissima e ripropone una domanda. Ha senso mantenere o addirittura rafforzare politiche di sostegno pubblico ai giornali?

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Nel 2001 in Italia si vendevano oltre sei milioni di copie1. Oggi siamo appena sopra il milione e mezzo, tra copie cartacee (1,2 milioni circa) e copie digitali (400mila circa, ma con un prezzo medio al pubblico molto basso, e un valore della pubblicità in rapporto di circa 1:10 rispetto alla carta). Significa una perdita secca e progressiva dei ¾ delle copie negli ultimi 20 anni.

La stessa sorte è toccata ai ricavi da pubblicità. Non inganni al riguardo il +4% del 20212. Il trend lungo l’arco del quindicennio (2008-2022) racconta di una perdita dell’80%. Peraltro, secondo Nielsen, anche il 2022 si è aperto in rosso (-0,5% i quotidiani, e addirittura -13,6% i periodici).

Nel complesso il fatturato del comparto è sceso di oltre il 70% solo nell’ultimo decennio (fonte Fieg). Ed è dal 2007, senza interruzione, che i ricavi si contraggono in misura superiore ai costi, il che già quindici anni fa lasciava presagire la “vastità e la gravità della crisi”3.

Sostegno pubblico SI o NO? Una prima risposta e qualche comparazione.

E dunque? Si potrebbe concludere che la gente non ha più voglia o interesse a comprare i giornali. E che tanto vale farsene una ragione. In definitiva, perché sostenere un comparto industriale morente?

Nel 2021, gli Uffici della Presidenza del Consiglio hanno fornito una risposta pubblicando uno studio comparativo sul sostegno pubblico al settore dell’editoria quotidiana e periodica in alcuni paesi europei. Il documento analizza entità e caratteristiche dell’intervento in otto Paesi in rapporto alle misure di sostegno previste in Italia. Sia in rapporto al PIL che alla popolazione, l’Italia occupa le posizioni di retrovia quanto a entità dell’intervento. Le conclusioni del documento sono inequivocabili: “È evidente come emerga un quadro fortemente orientato alla tutela del pluralismo e dell’indipendenza del settore editoriale, fattori per i quali un finanziamento di natura pubblica risulta, specie all’indomani dell’emergenza sanitaria, quantomai essenziale”4.

Prima di affrontare il cuore del problema, ossia le ragioni del sostegno pubblico non già ad un comparto industriale in crisi, ma al pluralismo delle opinioni ed al mercato delle idee – tema che impone inevitabilmente una riflessione sul ruolo delle piattaforme digitali globali – è utile introdurre una nozione e una comparazione:

la nozione: nell’anno 2020 il bilancio pubblico ha stanziato complessivamente 174 milioni di euro a beneficio del comparto editoriale, al netto delle agevolazioni sull’IVA, di cui 88 milioni di sostegno diretto e 86 milioni di interventi indiretti (in forma di agevolazioni tariffarie, crediti di imposta, convenzioni e altre agevolazioni). A queste risorse si aggiungono 143 milioni di sostegno a titolo di misure emergenziali e straordinarie per fronteggiare gli effetti della pandemia.

la comparazione: nel solo triennio 2015-2017, l’intervento dello Stato per il salvataggio di istituti bancari in crisi è ammontato a 5,45 miliardi di euro5. Per Alitalia, secondo una Indagine dell’Ufficio studi di Mediobanca, l’intervento pubblico nel periodo 1975-2015 sarebbe prossimo agli 8 miliardi. E perché dei giornali non si dica che non sappiano anche guardare in casa propria, il salvataggio di INPGI a carico di Inps costerà, nonostante le riserve della Corte dei Conti, circa 2,5 miliardi di euro.

Stato dell’informazione e salute del pluralismo al tempo degli algoritmi              e delle piattaforme digitali

  Quello della produzione e dell’offerta di informazione, è un mercato in cui il ruolo dei grandi aggregatori digitali (motori di ricerca e piattaforme social) è sempre più centrale. Secondo il Rapporto 2021 del Reuters Institute e dell’Università di Oxford, nel 2021 internet avrebbe superato il mezzo televisivo (76% vs 75%) quale prevalente mezzo di informazione tra la popolazione italiana6. Altre fonti (Agcom, Censis) registrano ancora una lieve prevalenza della tv (i giornali sono irrimediabilmente più indietro), ma questo non cambia di una virgola il problema. Con il trionfo della rete e il suo candidarsi a nuovo mezzo di comunicazione e informazione globale, mentre ci gioviamo di strumenti e opportunità moltiplicate basate sul ricercare, confrontare e acquisire informazioni, come mai in passato siamo al tempo stesso esposti a fenomeni molto chiari: polarizzazione delle opinioni; contagio emotivodisabitudine al confronto e al contraddittorio; diffusione di pseudo informazione; propagazione e amplificazione dei linguaggi d’odio. Per non parlare dell’etero-direzione delle opinioni pubbliche (esemplare il public opinion analysis software messo a punto in Cina), ovvero dei circuiti della disinformazione professionale, pane quotidiano di tutti i regimi autoritari.

Ora, siccome l’informazione professionale, autorevole, trasparente, ha un costo elevato, abbiamo qui una ennesima riprova di quanto le ineguaglianze costituiscano ormai una cifra permanente delle nostre esistenze. Registriamo infatti una profonda differenza di status e di destini tra chi detiene strumenti interpretativi e risorse per discernere e trarre beneficio anche dalle opportunità informative della rete, e chi invece resta prigioniero delle sue derive più deteriori. Si tratta di un dato che sempre più si tradurrà in nuove disparità tra chi può permettersi di pagare per avere una informazione approfondita e professionale, e chi dovrà accontentarsi di quanto (con le debite distinzioni e qualche virtuosa eccezione), circola gratis online.

L’offerta informativa delle grandi piattaforme digitali (qui non si parla dello sforzo virtuoso di tanti piccoli operatori di cultura e informazione e dei loro siti web) è la risultante di un processo di disaggregazione dell’offerta informativa tradizionale e di successiva riaggregazione e re-intermediazione da parte delle fonti algoritmiche. Questo fa sì che gli algoritmi siano decisivi nel determinare le modalità attraverso cui gli utenti fruiscono dell’informazione, orientando significativamente il successo o meno, in termini di audience, di una notizia (e di un editore) rispetto a un’altra. Il che peraltro ha generato un fenomeno di sudditanza e dipendenza degli editori di fronte a soggetti che si propongono nella veste di gatekeeper sia nei mercati dell’informazione, sia nel vitale mercato contiguo della raccolta pubblicitaria.

I miliardi e miliardi di footprint, ossia le tracce che ciascuno di noi lascia online con riferimento a gusti, preferenze, orientamenti, sono raccolti e analizzati dalle piattaforme (big data) e diventano agenti dell’offerta di informazione, atteso che i meccanismi di funzionamento delle piattaforme e dei loro algoritmi (classificazione, associazione, selezione, gerarchizzazione, filtraggio) sono la benzina dei contenuti che compongono l’offerta. In definitiva, l’immane quantità di dati raccolta ed elaborata su centinaia di milioni di individui, permette, nella migliore delle ipotesi, la generazione e la diffusione di contenuti informativi su misura,  ma anche (sempre più diffusamente, come abbiamo ricordato) di notizie che, per effetto delle personalizzazioni automatiche e del cumularsi di azioni di condivisione da parte degli utenti, facilitano la propagazione di contenuti polarizzati, di linguaggi d’odio, quando non anche di vere e proprie notizie false.

Questo è un ragionevole panorama dello stato dell’informazione al tempo di Facebook & Co e del suo devastante impatto sulla qualità dell’informazione. Il dibattito planetario su “post verità” e “fake news” ci dice, in definitiva, che esiste un problema che ha a che fare con le ragioni fondative di una moderna democrazia, perché al successo dell’informazione disintermediata fa riscontro la fine di un intero comparto industriale, il cui modello di business è giunto al capolinea. Peraltro, tutto questo ha effetti, inevitabilmente, anche sull’organizzazione del lavoro giornalistico e sulla qualità e lo status della professione. Come raccontano molto bene sia le indagini Agcom, sia le ricerche di Ossigeno per l’informazione, quel mondo vive anch’esso una sua crisi strutturale, connotata da trend chiarissimi: progressivo invecchiamento, dinamiche accentuate di precarizzazione, crescente fragilità economica, cristallizzazione delle differenze di genere, costante esposizione al ricatto, crisi di ruolo e di identità.

Le ragioni profonde dell’intervento pubblico

Trovare le risposte giuste per reagire a queste dinamiche è una delle grandi questioni del presente per un moderno ordinamento democratico, atteso che tutti i fenomeni che investono il sistema dei media – a partire dalla credibilità, dalla trasparenza e dall’autorevolezza delle fonti – hanno effetto sulla formazione delle opinioni pubbliche, sulla ricerca e la costruzione del consenso, sul grado di trasparenza dei pubblici poteri, e, in definitiva, sulla saldezza e la qualità delle nostre democrazie. L’informazione è un bene pubblico, come la scuola e la sanità. O si entra in questo ordine di idee o non si capisce perché uno Stato dovrebbe impegnarsi nella sua difesa. Per provare a guidare fuori dalla crisi il comparto dell’informazione, per accompagnarne i processi di trasformazione dell’offerta e di innovazione tecnologica, serve l’intervento pubblico.

Che fare? Una possibile soluzione è chiudere gradualmente la stagione dei contributi diretti, e provare a spostare l’attenzione sulla domanda, ossia sui lettori; spingere in particolare le nuove generazioni e i nuclei familiari più fragili, a riscoprire il valore di una informazione strutturata e professionale, fondata sul canone della responsabilità editoriale e sui principi della deontologia professionale. Lo si può fare, sulla scorta dell’esperienza del bonus cultura, estendendo all’abbonamento a testate editoriali di informazione l’esperienza e il perimetro (oggi riservato ai soli 18enni) dei voucher. L’editore medio non ha difficoltà a remunerare la cessione di un abbonamento digitale al prezzo di 80 euro l’anno. Tre milioni di abbonamenti digitali moltiplicherebbero per quindici l’attuale numero degli abbonati ai quotidiani, determinando un vero e proprio boom in un mercato che sta morendo, e innescando ragionevolmente un circolo virtuoso in cui ad una ripresa dei ricavi, corrisponderebbe una ripresa degli investimenti. Il costo per il bilancio dello Stato sarebbe di 200 milioni di euro l’anno (dimezzando gli attuali contributi diretti): non poco si dirà. Ma l’obiettivo sarebbe quello di ricreare le condizioni di crescita di una opinione pubblica intorpidita. Anche questa non è poca cosa per un paese civile.

 Dal canto loro, gli editori premiati dalla scelta dei lettori dovrebbero assicurare (sempre che intendano partecipare a un progetto siffatto) una serie di requisiti. Ne cito alcuni. Non distribuzione di utili; reinvestimenti; disponibilità a sottoporre a fact-cecking i propri contenuti; fornitura gratuita di una copia digitale del loro prodotto a tutto il circuito nazionale delle biblioteche, delle scuole, degli ospedali pubblici. A questo sforzo dovrebbe corrispondere un rinnovato impegno a rilanciare la lettura in ogni luogo pubblico, come appunto biblioteche, scuole, ospedali. Al consolidarsi di queste dinamiche seguirà quasi automaticamente in quei luoghi una fioritura di iniziative culturali di ogni tipo (dibattiti, appuntamenti di riflessione a tema, ecc..). I giornali come luoghi di riaggregazione di un pensiero lungo, strutturato e pubblico, contro le derive (e la solitudine) del web. Vedo molti nasi arricciati e molte labbra atteggiate a sorrisetti sprezzanti. Il libro dei sogni di un’epoca finita, che si contrappone ai processi inarrestabili della modernizzazione. Forse è così. Forse è inutile ostinarsi a pensare che un paese civile debba avere un servizio pubblico radiotelevisivo, dei luoghi di dibattito, dei giornali, degni di un paese moderno e civile. Forse l’ubriacatura del mercato e della sua presunta mano invisibile (ma verrebbe di dire con Joseph Stiglitz, “invisibile perché non esiste”), il mito del trickle-down che pretende che i ricchi diventino sempre più ricchi perché questo beneficia tutti, tutte queste favole che abbiamo digerito negli ultimi decenni sono troppo forti da battere. Eppure, in giro per il mondo c’è una crescente schiera di economisti che racconta i disastri dei mercati e la necessità per i governi di intervenire in prima persona ad invertire le rotte.

Anche sul destino dei giornali e sul contrasto alle derive più deteriori dell’informazione via web c’è bisogno di più governo e di più Stato. In gioco c’è molto di più della sopravvivenza di qualche vecchio editore. A chi replica che tutto questo è roba vecchia, vorrei ricordare che anche la guerra nel cuore dell’Europa sembrava un cascame del secolo scorso. E anche l’epidemia globale sembrava solo la trama di un vecchio film.

Alle legioni di snob e disincantati che storcono il naso di fronte alla solita vecchia tirata sul ruolo insostituibile delle politiche pubbliche, vorrei ricordare che il secolo dei Lumi, prima ancora che sulle picche dei rivoltosi della Bastiglia, vinse la sua battaglia contro le monarchie di diritto divino d’Europa, allorché la cultura prese a uscire dalle corti, dalle accademie e dai monasteri, per farsi incontro alle persone, attraverso i giornali, i caffè, i circoli letterari. Serve un pizzico di incoscienza anche solo nel sussurrarlo.

1   FiegI quotidiani in Italia, 1998-2001

2  Osservatorio stampa Fcp, febbraio 2022

3  Fieg, La stampa in Italia 2006-2008

4  Il sostegno all’editoria nei principali Paesi d’Europa – Politiche di sostegno pubblico a confronto, 2021

5  Università Cattolica del Sacro Cuore, Osservatorio Conti Pubblici Italiani CPI, 6 agosto 2018

6  Digital News Report 2021, pag. 89

* Fernando Bruno è giornalista e scrittore. Si occupa da oltre 30 anni di diritto ed economia dei media. Ha lavorato (e lavora) per le principali istituzioni pubbliche del settore, è stato membro del Consiglio superiore delle comunicazioni, ha pubblicato per molti editori e scritto per innumerevoli riviste. Il suo “Il nuovo ordinamento delle comunicazioni” (Giuffrè, 2006, scritto assieme a Gilberto Nava) è stato per anni un testo di riferimento del settore media e ICT.

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