Il grande inganno
Francesco Gesualdi*
Alla fine anche i massimi vertici del potere politico ed economico hanno dovuto riconoscere che esiste un problema ambientale, ma sapendo che la colpa è del sistema di cui sono espressione e che l’unico modo per risolverlo è il passaggio a tutt’altro tipo di economia, hanno optato per la carta riduzionista. In altre parole hanno ridotto la crisi ambientale alla sola crisi climatica e facendoci credere che il problema risiede solo nel tipo di energia che utilizziamo, sostengono che non abbiamo nient’altro da cambiare se non la tecnologia.
Operazione costosa, ma non così catastrofica, anzi, tutto sommato provvidenziale, considerato che il capitalismo ha sempre avuto bisogno delle innovazioni tecnologiche per rilanciare la produzione.
È successo quando si è passati dal carbone al petrolio, dal treno su rotaie all’auto su strada, dalle macchine da scrivere ai computer. E ora che bisogna rivoluzionare l’intero parco energetico e passare da congegni funzionanti con combustibili fossili a sistemi attivati con energia elettrica ottenuta da fonti alternative, il sistema si frega le mani pensando alla valanga di nuovi ordini che arriveranno al sistema produttivo. Al momento le nuove frontiere sono la produzione di energia elettrica con solare ed eolico, l’estensione del digitale, il passaggio dall’auto a motore a quella elettrica. Ma già si pensa all’idrogeno, a nuove forme di nucleare, a sistemi di sequestro dell’anidride carbonica: la fede del capitalismo nella tecnologia è infinita, l’ultima frontiera si chiama green economy. Del resto, non dobbiamo dimenticarlo, il capitalismo si fonda sulla crescita, al tempo stesso obiettivo e mezzo di sopravvivenza.
Ma pretendendo di ridurre la questione ambientale ad una sola questione di transizione energetica lasciando tutto il resto immutato, il sistema inganna se stesso perché la crisi ambientale va ben oltre l’effetto serra provocato dall’accumulo di anidride carbonica. Il pianeta vive uno stato di crisi a 360 gradi che si manifesta sotto due forme: l’assottigliamento delle risorse e l’accumulo dei rifiuti. Per quanto riguarda le risorse, fino a ieri la preoccupazione principale era il petrolio, oggi si guarda soprattutto all’acqua, alla terra fertile, alla biodiversità, alle foreste, ma anche ai minerali, in particolare le così dette terre rare che stanno alla base delle nuove tecnologie dell’energia rinnovabile, della digitalizzazione, della robotizzazione.
Ma è rispetto ai rifiuti che il sistema sta tentando la più grande operazione di autoinganno facendoci credere che il problema sia limitato all’anidride carbonica. Da quando abbiamo scoperto che il clima ha già cominciato a cambiare e che le sue conseguenze possono essere catastrofiche per gli eventi estremi che possono condurre ad alluvioni e canicole, alla desertificazione, alla perdita di raccolti agricoli, a migrazioni di massa connesse all’innalzamento dei mari, anche i capi di stato hanno riconosciuto che bisogna cercare di ridurre le emissioni di gas serra. Ma che dire della plastica che si sta accumulando ovunque e che ci torna indietro sotto forma di particelle dissolte nell’acqua che beviamo e nei pesci che mangiamo? E che dire dei veleni e delle sostanze chimiche che ogni anno buttiamo a milioni di tonnellate sui suoli agricoli che oltre a provocare l’avvelenamento delle falde acquifere, ci fanno perdere migliaia di tonnellate di suolo fertile? E che dire delle polveri sottili che appestano l’aria delle città esponendo a rischio cancro non solo i nostri polmoni ma qualsiasi altro organo? Eppure sarebbe un errore se guardassimo alla crisi delle risorse senza collegarla alla crisi sociale ossia alle profonde disuguaglianze esistenti a livello planetario. E qui veniamo su un tema su cui anche la sinistra deve fare qualche riflessione e soprattutto qualche mea culpa…
Il nostro sguardo sul mondo
Il problema è che non abbiamo mai tenuto lo sguardo sul mondo. Ci siamo sempre concentrati solo sulle nostre nazioni dimenticando che gran parte della nostra opulenza era costruita sullo sfruttamento dei paesi del Sud. Ed è finito che abbiamo condotto lotte per ottenere una equa ripartizione di una ricchezza ottenuta sulla rapina degli altri popoli. Una visione distorta che non ci ha neanche permesso di cogliere il nesso fra sostenibilità ed equità. Tanto meno ci ha fatto sentire il bisogno di mettere in discussione il modello consumista. Al contrario lo abbiamo giustificato, addirittura osannato considerandolo obiettivo di sviluppo da garantire a tutti. Ma il “tutti” che avevamo in mente non arrivava ai confini del mondo, si fermava ai residenti nella nostra torretta d’avorio. I nostri connazionali erano gli eletti a cui ritenevamo di dover garantire ogni forma di amenità, sicuri che il pianeta ce l’avrebbe fatta. Per la verità la preoccupazione per il pianeta non ci sfiorava neanche. Le risorse per noi élite c’erano, gli spazi ambientali pure: finché non abbiamo visto i primi segni dei cambiamenti climatici, per noi la questione ambientale non esisteva. Ma oggi che la crisi si è fatta evidente, dobbiamo scegliere che tipo di sostenibilità vogliamo perseguire: se quella dell’apartheid che destina le poche risorse esistenti al consumismo di pochi o quella dell’equità che privilegia i diritti per tutti. Perché le risorse per garantire contemporaneamente a noi i lussi e agli impoveriti i diritti non ci sono. La coperta si à fatta corta, c’è competizione per le risorse scarse, simbolicamente la scelta è: auto elettrica per una minoranza o beni e servizi fondamentali per tutta l’umanità? Una scelta non più rinviabile perché le statistiche ci dicono che il numero di individui che vivono in stato di privazione è ancora scandalosamente alto. Basti dire che 850 milioni di persone sono ancora senza corrente elettrica, mentre quelle senza servizi igienici superano i due miliardi. Volendo usare un’immagine pittoresca potremmo dire che il mondo è come abitato da pochi grassoni che convivono con un esercito di scheletrici. Gli scheletrici hanno bisogno di mangiare di più, ma possono farlo solo se i grassoni accettano di sottoporsi a cura dimagrante perché il cibo è contato e non si può produrne di più. La morale della favola è che non si può più parlare di giustizia senza tenere conto della sostenibilità, l’unico modo per coniugare equità e sostenibilità è che i ricchi si convertano alla sobrietà. Ossia ad uno stile di vita, personale e collettivo, più parsimonioso, più pulito, più lento, più inserito nei cicli naturali.
La via d’uscita e gli ostacoli da superare
Recentemente l’IEA, l’Agenzia internazionale per l’energia, ha pubblicato due rapporti: uno sulla strada da perseguire per arrestare la crescita della CO2, l’altro sugli ostacoli che la strada alternativa rischia di incontrare. La strada indicata è di prediligere l’elettricità come fonte di energia, anche per i trasporti, purché generata da fonti rinnovabili. I limiti che però questa strada rischia di incontrare è legata ai minerali che le nuove tecnologie richiedono, specie per la mobilità elettrica. Rame, litio, cobalto, nickel, sono metalli poco abbondanti, che oltre tutto richiedono molta energia e molta acqua per i processi di lavorazione. Una chiara ammissione di scarsità che avvalora “la necessità di abbandonare un modello consumistico”, senza considerare che la loro estrazione espone le popolazioni locali a gravi disagi dovuti al rilascio di una grande quantità di detriti e sostanze tossiche oltre a competizione per l’uso di acqua che ovunque è una risorsa scarsa. Disagi e conflitti ambientali a cui si aggiungono violazioni dei diritti umani per le terribili condizioni di lavoro imposte nelle miniere.
Se facciamo un’analisi seria del come siamo arrivati a tanto degrado, scopriamo che parte della colpa è di una mentalità che considerando la natura un bene senza valore, l’ha trattata come un magazzino da saccheggiare e una pattumiera da riempire. Ma l’altro pezzo di colpa sta nei miti posti a fondamento della concezione capitalistica: il mito della ricchezza, della mercificazione, dell’accumulo, dell’onnipotenza. In una parola il mito della crescita che ha portato al gigantismo, all’inurbamento, al produttivismo, al consumismo, all’accelerazione, da cui derivano tutti i nostri guai. Dunque se volessimo davvero fare pace con la natura e riportarci nel perimetro della sostenibilità, quella vera che tiene conto dell’equità a livello planetario e del rispetto delle generazioni future, dovremmo necessariamente camminare su due gambe: l’efficienza e la riduzione. Se vogliamo ridurre il consumo di alberi dobbiamo produrre e consumare meno carta; se vogliamo ridurre il consumo di plastica dobbiamo produrre meno imballaggi che si ottiene con uno stile di vita complessivamente più sobrio; se vogliamo ridurre i veleni in agricoltura dobbiamo mangiare meno carne; se vogliamo ridurre il consumo di energia dobbiamo ridurre i nostri elettrodomestici e i nostri spostamenti. E se proprio vogliamo continuare a viaggiare, allora dobbiamo disporre di mezzi pubblici capillari, frequenti e all’avanguardia da un punto di vista energetico.
Servizi pubblici: ecco la strada da perseguire per ridurre i consumi senza sacrificare la dignità di nessuno. Per garantire il diritto alla lettura a basso impatto ambientale ci vuole una fitta rete di biblioteche pubbliche, per garantire il diritto alla mobilità riducendo l’uso del mezzo privato ci vuole un buon servizio di trasporto pubblico, per ridurre il consumo di energia in ambito domestico ci vogliono ampi interventi di ristrutturazione edilizia che molte famiglie possono sostenere solo se adeguatamente sorrette da contributi pubblici.
Tutte tematiche che automaticamente sollevano molte altre questioni, prima fra tutte un’adeguata politica fiscale affinché lo stato possa incassare tutte le risorse di cui ha bisogno per garantire servizi adeguati ai cittadini, prelevando la ricchezza dalle tasche di chi ce l’ha. E poi c’è la questione del ruolo dello stato in economia. Dopo l’ubriacatura neoliberista, che pretendeva di estromettere lo stato da qualsiasi servizio che non fossero quelli di interesse generale come l’anagrafe, la polizia e la magistratura, la concezione sociale è riuscita a riguadagnare un po’ di spazio solo in termini di assistenza al reddito. Ma una vera transizione ecologica richiede una collettività forte non solo come fornitrice di servizi, ma anche come datrice di lavoro di ultima istanza. Perché la riduzione dei consumi potrà essere accolta con favore solo se la gente saprà come avere un lavoro pur in presenza di minori consumi. E la risposta può venire solo da una solida economia pubblica che col lavoro di tutti garantisce i bisogni fondamentali di tutti e la tutela dei beni comuni. Quando la sicurezza delle nostre vite sarà garantita dalla comunità organizzata, quel giorno torneremo alla vera sovranità di chi può imporre al mercato tutte le regole ambientali e sociali che servono per il rispetto della natura e delle persone senza paura di ricatti occupazionali come invece avviene oggi.
* Francesco Gesualdi, già allievo di don Lorenzo Milani a Barbiana, dal 1985 coordina il Centro Nuovo Modello di Sviluppo. Ha scritto in questi anni diversi saggi sui temi del consumo critico e responsabile, dei beni comuni e dei rapporti tra Nord e Sud del mondo.