Il Mezzogiorno, storia di un disastro voluto

Natale Cuccurese*

Nella storia unitaria dell’Italia mai come oggi si era avuta fra le diverse Macroaree una così accentuata differenza di Pil. Il Mezzogiorno, che al momento della conquista sabauda aveva un Pil circa alla pari col resto d’Italia, si trova oggi con un differenziale del 45% di Pil in meno rispetto al Nord.

Evidenziamo solo alcune conseguenze negative dall’ultimo Rapporto Svimez, per meglio comprendere la portata del disastro in atto. Rispetto al 2008, anno di inizio della crisi mondiale in corso, l’occupazione giovanile è crollata nel Mezzogiorno di 573mila unità, l’emergenza sanitaria ha cancellato quasi l’80% dell’occupazione femminile creata tra il 2008 ed il 2019, riportando il tasso d’occupazione femminile a poco più di un punto sopra i livelli del 2008. Nel 2018 sono emigrati dal Mezzogiorno oltre 138mila residenti, di cui un terzo del totale laureati, di questi 20mila hanno scelto un paese estero come residenza, quota decisamente più alta che in passato pur in una tendenza che si protrae da anni e che sta portando alla desertificazione demografica di ampie zone, soprattutto dell’entroterra.

Quasi i due terzi dei restanti cittadini che nel 2018 hanno lasciato il Mezzogiorno per una regione del Centro-Nord, avevano almeno un titolo di studio di secondo livello: diploma superiore per il 38% e laurea il 30%. Grazie anche al vergognoso (per un Paese civile) parametro della “spesa storica” i posti autorizzati per asili nido rispetto alla popolazione sono il 13,5% nel Mezzogiorno ed il 32% nel resto del Paese.

La spesa pro capite dei Comuni per i servizi socioeducativi per bambini da 0 a 2 anni è pari a 1.468 euro nelle regioni del Centro, a 1.255 euro nel Nord-Est per flettere a 277 euro nel Sud.

Nel Centro-Nord, nell’anno scolastico 2017-18, è stato garantito il tempo pieno al 46,1% dei bambini. Nel Mezzogiorno in media solo al 16%, in Sicilia la percentuale scende al 7,4%. Si potrebbe andare avanti per pagine intere ad enunciare i dati di una situazione disastrosa, ma in sintesi il Sud sconta un ritardo in infrastrutture e servizi, scolatici e sanitari in particolare, causati anche dal sottofinanziamento statale degli ultimi vent’anni a favore delle regioni del Nord.

Con una sottrazione di fondi per ben 840 Miliardi solo dal 2000 al 2017 come evidenziato dal Rapporto Eurispes del 30 gennaio 2020, mentre aumentano le persone beneficiarie di misure di sostegno al reddito causa il drammatico impoverimento della popolazione. Affermava Adriano Giannola dello SVIMEZ nel Luglio 2020: “Noi la chiamiamo eutanasia della questione meridionale”.

L’idea è di rafforzare Milano e il Nord, sperando che l’industria del Nord, con uno sguardo alla Germania, faccia da traino anche per il Sud. Ma ci si rende conto che la Lombardia nelle classifiche europee è crollata dal ventesimo al cinquantesimo posto? Altro che traino! Il Pil nella regione che dovrebbe essere la locomotiva di tutta l’economia nazionale è precipitato. E la situazione del Piemonte è peggiore.

Questo modello non fa i conti con due elementi: intanto in questi decenni il Nord non è mai riuscito a fare da traino neppure in termini di immigrazione, e poi non possiamo nasconderci che, se il Sud è malato grave, il Nord non può illudersi di risollevarsi dalla sua crisi puntando soltanto sui mercati del Centro e Nord Europa.

Avidità contro solidarietà

In questo scenario sono purtroppo indicative le posizioni dei “governatori secessionisti del Nord” che non solo non recedono dalla richiesta egoistica di Autonomia differenziata, ma per bocca di Bonaccini, presidente dell’Emilia-Romagna, insistono nella richiesta di intercettare gran parte dei soldi che arriveranno dall’Europa, mentre il Sud può ancora aspettare”: il Pd deve avere una chiara identità riformista, rappresentando ancor di più le istanze del Nord del Paese”. Una volta queste tesi erano sostenute solo dal Bossi antimeridionale della prima ora, oggi anche da Bonaccini!

Forse preoccupato di perdere il “treno del Nord” anche Giuseppe Sala, Sindaco di Milano, afferma la necessità di uno stipendio più basso per i dipendenti pubblici del Sud rispetto a quelli del Nord. Un ritorno alle gabbie salariali, anchequesto un tema caro a Bossi. Attenzione che nel frattempo nel Governo Draghi è presente come consigliere Giavazzi, che da tempo dalle pagine del Corriere della Sera rilancia le stesse tesi antistoriche.

Ovviamente nessuno ricorda che il salario medio al Sud è già più basso del 20% circa rispetto al Nord. Che nel Sud gran parte delle famiglie sono monoreddito e la carenza di servizi pubblici (anche grazie al meccanismo della spesa storica), di infrastrutture e welfare, con i relativi costi aggiuntivi, pesano enormemente sulle famiglie (mancanza di asili, ospedali, scuole, strade, Ferrovie ecc.), e sono nei fatti una tassa aggiuntiva che grava sul reddito delle famiglie. Che l’Istat nel 2016 ha comunicato che al Nord il reddito medio di un dipendente già oggi è di 24.400 euro/anno, mentre al Sud 16.100 euro/ anno; il reddito dei dipendenti nella provincia al vertice della classifica, Milano, è già oggi circa due volte e mezzo quello della provincia fanalino di coda Vibo Valentia. Inoltre, nessuno ricorda che le gabbie salariali vanno contro i principi di uguaglianza sanciti dalla Costituzione.

A questo si aggiunga che i cittadini residenti nel Mezzogiorno, a differenza di quanto si crede, pagano già più tasse rispetto ai loro connazionali del Centro-Nord perché lo Stato, investendovi meno soldi, visto che sono vent’anni che si attende la definizione dei Lep (Livelli Essenziali delle Prestazioni), costringe gli enti locali ad aumentare la pressione fiscale per garantire i servizi, così come risulta dal dossier di Eurispes, diffuso nel settembre 2020 sulla condizione del Meridione e sulle politiche economiche adottate negli ultimi anni dallo Stato.

Non bisogna poi dimenticare che il Fondo sanitario nazionale già oggi, grazie alla ripartizione fatta a solo vantaggio del Nord delle “quote capitarie ponderate”, riconosce in media 80 euro in più ad ogni cittadino delle Regioni del Nord. Questa situazione è fra le prime cause della “emigrazione sanitaria” dal Sud per un valore annuo di ben 5 Miliardi. Bisogna rimarcare che senza questi soldi le Regioni “virtuose” andrebbero in disavanzo, ecco perché vi è stata la necessità politica di dover cronicizzare la situazione affinché non crolli la favola della “locomotiva del Nord.

Invertire la tendenza con una diversa politica statale

Per fermare il tracollo nazionale sarebbe invece utile contrappore alla visione egoistica e razzista del Regionalismo, figlio diretto su scala ridotta del nazionalismo, un progetto unitario di rinascita e coesione nazionale basato su solide tesi gramsciane, il solo che può permettere all’Italia di uscire dalla crisi e ripartire, dando eguali diritti e possibilità per ogni cittadino a prescindere dalla latitudine di residenza. Basterebbe ripartire da pochi imperativi: lavoro, giustizia sociale, difesa dell’ambiente, parità di investimenti territoriali e soprattutto dalla lotta alle mafie.

L’ottica per ripartire potrebbe essere simile quella della defunta e tanto criticata “Cassa del Mezzogiorno”, con i dovuti aggiustamenti.

“Cassa” che però tanto male non ha fatto all’Italia intera, anzi.

In Europa, a partire dal secondo dopoguerra, ci sono stati solo due tentativi di recupero di vaste aree sottoutilizzate all’interno della stessa nazione. Si tratta del Sud Italia (1950 -1980) e della Germania Est (dal 1990 in poi).

Giova ricordare, come esempio verificabile, che in Germania l’unificazione del Paese, dopo la caduta del muro di Berlino, ha aiutato molto l’Est per convergere con l’Ovest. Per il Sud in 58 anni, cioè dall’avvio della Cassa del Mezzogiorno nel 1950 al 2008, che ha chiuso definitivamente qualsiasi politica pubblica per il Sud lasciandola solo all’utilizzo dei fondi europei di coesione, sono stati investiti 342,5 miliardi di euro.

In Germania Est si è investito in 30 anni quasi 5 volte in più, cioè tra i 1500 e i 2000 miliardi di euro, 70 miliardi di euro in media all’anno, contro i 6 miliardi l’anno nelMezzogiorno. Una quota di Pil in Germani fra il 4 e il 5%, mentre nel Mezzogiorno non si è mai superato la soglia dell’1% del Pil. Chiusa la Cassa per il Mezzogiorno la percentuale è scesa ulteriormente.

I diversi investimenti sui territori han determinato che nel 2019, il prodotto per abitante nel Sud è stato, rispetto a quello del Centro-Nord, quasi 20 punti in meno della differenza che intercorre oggi tra le due aree tedesche, mentre Il tasso di disoccupazione, è stato del 17,6% nel Sud Italia e del 6,9% nell’Est tedesco; la disoccupazione giovanile (15-24 anni) del 45,5% nel Sud, e solo dell’8,6% negli ex Germania dell’Est.

Il che ci fa comprendere come ogni divario tra diverse parti di uno stesso Paese sia superabile in pochi decenni se lo si vuole, anche partendo da situazioni peggiori di quelle che ci sono oggi in Italia, non riguardando un fatto antropologico o di razza, ma solo di risorse impegnate e di opportunità fornite.

Oltretutto colmare i divari economici è una operazione che si ripaga ampiamente, dato che gli anni in cui il nostro Paese ha conosciuto l’unico periodo di boom economico della sua storia (1950/1980) corrisponde a quello in cui cresceva anche il Sud con gli investimenti della Cassa del Mezzogiorno.

Un periodo che vide la costruzione di infrastrutture come “l’Autostrada del Sole” che fecero uscire dall’isolamento intere comunità, così come con la scolarizzazione di massa resa possibile dalla scuola pubblica (che si vorrebbe ora riformare su basi regionalistiche) nel dopoguerra permise a diverse generazioni di cambiare radicalmente il mestiere dei padri, ed attivare l’ascensore sociale.

Giusto ricordare che finita l’epoca della Cassa e con la modifica del Titolo V nel 2001, lo sviluppo infrastrutturale si è progressivamente bloccato, con i risultati in termini di Pil già indicati e con un lento ma inesorabile declino dell’Italia intera sullo scenario internazionale.

Solo la mobilitazione popolare potrà portare a nuove politiche meridionaliste

L’Italia ha ora davanti a sé la possibilità, grazie ai Fondi della Next Generation EU, di ripetere un nuovo miracolo economico, attivando un secondo motore all’economia nazionale. Non si potrà forse replicare interamente il modello della Cassa per il Mezzogiorno, ma la Nazione ha bisogno di una strategia che inglobi il suo Sud e questa operazione la può solo azionare lo Stato. D’altra parte, le risorse europee sono tante proprio perché assegnate sulla base delle difficoltà economiche delle regioni meridionali e dovrebbero coincidere con il 65% dei fondi totali. Purtroppo, il Governo Draghi, ricco di leghisti e neoliberisti, pare insediato anche per garantire il mantenimento dello status quo ed infatti indiscrezioni giornalistiche indicano per il Sud una percentuale del 40% se non del 34% dei Fondi, cioè semplicemente quanto dovuto in base alla popolazione.

Si potrebbe perciò ripetere quanto già capitato nel corso della storia italiana dopo la Prima e soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale con i soldi del Piano Marshall, che vide le regioni del Mezzogiorno beneficiare solo del 13% del totale dei finanziamenti. Si preferì sostenere, come sempre, il Nord per favorirne l’aggancio alle più ricche regioni europee, nella (vana) speranza che questo potesse favorire la crescita del Paese.

In realtà (ieri come oggi) si preferì sostenere l’accumulazione primitiva del capitalismo padano, mantenendo la presenza di una colonia interna estrattiva, dedicata al consumo dei prodotti delle regioni ricche, non partecipante, se non in minima parte, alle forme di produzione. Creando così un ambiente non-capitalistico utile a fornire la domanda necessaria all’allargamento della produzione del Nord. Il Mezzogiorno si trovò a fornire al Nord salariati a basso livello (oggi soprattutto diplomati o laureati a spese delle famiglie del Sud) o a fungere da discarica terzomondista per le fabbriche del Nord, come nel caso della Terra dei Fuochi.

Il tutto ovviamente in barba alla Costituzione nata dalla Resistenza e mai realmente applicata. Il dramma del Mezzogiorno è anche costituito da quanti, dentro la società meridionale, hanno migliorato o conservato la propria posizione godendo di rendite e privilegi, a danno di quanti invece (la stragrande maggioranza), si sono ritrovati vittime dell’iniquo assetto socio-istituzionale del Mezzogiorno. È questo blocco che agisce in stretta alleanza con la più oscurantista classe imprenditoriale settentrionale (ieri come oggi) che opprime il Mezzogiorno sin dal momento della unificazione. Questo meccanismo è alla base della discesa della Lega al Sud. Non è un problema di mentalità, di modi di vivere, di cultura (approccio di tipo colonialista), come spesso propalano i media, ma di un blocco sociale che opprime l’altro, ben sostenuto a livello nazionale da chi ha tutto l’interesse nel mantenere lo status quo.

In poche parole, è un problema di lotta di classe.


* Natale Cuccurese è il Presidente nazionale del Partito del Sud-Meridionalisti Progressisti. È Consigliere Comunale di opposizione per Sinistra Unita a Quattro Castella (RE) dove risiede. Meridionalista gramsciano, collabora e scrive su giornali e siti di informazione politica.


Foto in apertura: dettaglio di European Space Agency da www.flickr.com

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