Il punto di partenza è il ‘17. il comunismo tra ieri e domani

Angelo D’Orsi*

Tutto iniziò nel ‘17

Parlare, cento anni dopo, della nascita di un partito che si chiamò “comunista”, significa innanzi tutto richiamare l’evento che ha portato il comunismo, e le masse da esso rappresentate, sul proscenio della Russia ancora impegnata in una guerra terribile. Il 1917, l’anno più tragico del conflitto mondiale, segnò il comunismo come l’inatteso vincitore di una contesa impossibile, e l’eco di quella vittoria si allargò con la successiva fondazione della Terza Internazionale, che iscrisse sulle proprie bandiere l’aggettivo “comunista”.

Occorre dunque sottolineare l’importanza epocale del 1917, l’anno cruciale della storia contemporanea, e ovviamente questo significa soffermarsi sul 7 novembre, o meglio su quella manciata di giorni – “i dieci giorni che sconvolsero il mondo” secondo l’efficacissimo titolo di John Reed – in cui nel più grande Paese della Terra si rovesciarono i rapporti sociali, e si instaurò un nuovo ordine politico, con un atto semplicemente, risolutamente rivoluzionario. Dopo la Bastiglia, il Palazzo d’Inverno, da allora, fu simbolo del potere da abbattere, e nome stesso del potere abbattuto dai popoli in rivolta. Il comunismo, da quella manciata di giorni, si trasformò da idea, da movimento, da aspirazione in un fatto concreto: un atto che preludeva alla edificazione di una società, di uno Stato, di nuove istituzioni, di una nuova cultura, senza trascurare lo sforzo di costruzione di una cultura di base per decine di milioni di mugiki analfabeti.

Ricordiamo l’imperativo di Lenin dato a Lunaçarskij, “commissario alla Cultura” del Primo governo bolscevico, di “fondare una biblioteca in ogni villaggio della Russia”. Un imperativo che da un lato esprimeva un punto qualificante del nuovo potere, avviando la fase aurea della vita culturale nella Russia post-rivoluzionaria, salutata con entusiasmo da Antonio Gramsci, ma dall’altro identificava il comunismo, come mezzo e forma stessa di autorealizzazione degli esseri umani.

Quello straordinario gruppo di uomini (con una donna, Aleksandra Kollontaj, prima ministra della storia), guidati da Vladimir Ili’ Ul’janov, in “arte” Nikolaj Lenin, in un frangente delicatissimo, assunse il compito immane di salvare quello sterminato Paese, impegnato allo stremo nella guerra, e nel contempo osò avviare un processo di costruzione di qualcosa già tentato e fallito con la Comune di Parigi del 1871. Lenin era ben consapevole dei pericoli che incombevano sulla rivoluzione vittoriosa, proprio a partire dall’esempio dei Comunardi, i quali avevano sottovalutato la capacità della borghesia di riprendersi il potere, anche se, nel contempo, guardava a loro come i generosi creatori del primo Stato comunista della storia, secondo la definizione di Marx.

Stato e rivoluzione

Erano considerazioni che Lenin faceva nell’estate del ‘17, nell’esilio finlandese cui il mandato di cattura spiccato dal Governo Kerenskij lo aveva costretto, in un libro che uscì subito dopo la vittoria del novembre: Stato e rivoluzione era un tentativo di costruire una dottrina marxista dello Stato, ma anche un ammonimento ai suoi affinché badassero a un fatto: l’impresa più difficile non era fare la rivoluzione, conquistare il potere, ma, piuttosto, gestirlo una volta raggiunto, ossia edificare lo Stato proletario.

Lenin si inseriva così, con il vigoroso polemismo di cui era capace unitamente alla forza geometrica dei suoi ragionamenti, nella discussione sullo Stato: respingendo da un lato la tesi semplicistica degli anarchici, che identificavano la rivoluzione nell’abbattimento di ogni forma di istituzione, e dunque nell’eliminazione dello Stato all’indomani dell’atto distruggitore della rivoluzione, ma dall’altro criticando duramente la tesi di cui Karl Kautsky era il principale alfiere, ossia che lo Stato in quanto tale è un organismo tecnico, una macchina, che basta conquistare e, semplicemente, cambiarne il guidatore e la direzione di marcia. Lenin concordava nel vedere nello Stato una macchina, ma ne negava la neutralità: lo Stato è espressione, non solo istituzionale ma ideologica e culturale delle classi dominanti. Perciò la macchina dello Stato borghese andava distrutta e sostituita da un’altra macchina, quella dello Stato proletario che doveva appunto ispirarsi alle visioni dei Comunardi, ma esercitando, nella fase di transizione che breve non sarebbe stata, la dittatura del proletariato, come atto di difesa preventiva, ma anche come pedagogia di massa. Il comunismo era anche questo: conquistare il potere e ipso facto modificarlo. Il comunismo sarebbe stato inverato, pienamente, soltanto quando lo Stato si sarebbe, naturalmente estinto, dopo una fase dittatoriale.

In quella fase transitoria lo Stato, come organo di gestione del potere, di controllo e di coercizione, era necessario e, soltanto quando si fosse raggiunta una mentalità comunistica, allora non ci sarebbe più stato bisogno di quell’organo, che si sarebbe estinto naturalmente essendo scomparsa la divisione in classi della società. Soltanto allora davvero sulle bandiere della società liberata, cioè comunista, si sarebbero potuto iscrivere i motti marxiani: “Da ciascuno secondo le sua possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”. Ecco, dunque, il comunismo palesarsi in un’altra e diversa forma, quella dell’utopia, intesa nel senso letterale pensato da Thomas More nel XIV secolo: un luogo inesistente (ou-topos) ma un luogo dove si sta bene (eu-topos). Non dunque utopismo come divagazione e allontanamento dalla realtà, non come sogno e ammissione di impossibilità, ma piuttosto come messaggio ad posteritatem, per affermare il diritto dell’umanità a un altro mondo possibile.

Bruciare i vascelli alle proprie spalle

La rivoluzione d’Ottobre fu dunque l’evento che provò, per la prima volta, a tradurre in atto due dottrine che risalivano a Karl Marx, riprese e sviluppate da Lenin: la dottrina della Rivoluzione, come cambiamento necessario in determinate fasi storiche, che Lenin interpretò come dottrina della conquista del potere, e la dottrina della gestione del potere, attraverso la distruzione del vecchio ordine e la concomitante costruzione di un ordine nuovo. A tali elementi teorici Lenin aggiunse (e ne fu interprete in modo magistrale), il ruolo della decisione, dell’azione, della volontà: in sintesi, dell’individuo, singolo o collettivo (il partito), che taglia i nodi con la spada e, correndo l’alea, brucia i vascelli alle sue spalle, sfidando la storia, per reinventarla. 

Non fu facile neppure per lui trascinare i suoi compagni su tale strada; fu persino accusato di anarchismo. Eppure egli era convinto che si danno dei momenti in cui occorre forzare la mano, e che la situazione di instabilità e di precarietà dei governi provvisori non sarebbe durata a lungo, e che quello stato di crisi si potesse risolvere solo con la disfatta di una delle parti sul campo. In sostanza, il suo messaggio ai compagni fu: se non lo facciamo noi, lo faranno loro, e se lo faranno avranno la meglio e ci sconfiggeranno, ci stermineranno. Dobbiamo agire, non temporeggiare, “ogni attesa ci sarà fatale” e se mancheremo questa occasione, la storia non ci assolverà. Era quasi, l’azione di Lenin, una estrinsecazione di un altro ben noto concetto marx-engelsiano: “Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”.

Fu dunque un bagliore, quello dei “dieci giorni”, che portando alla luce gli invisibili, i milioni di proletari russi, illuminò tutti gli oppressi della terra, che da allora capirono che potevano cessare di essere oggetto, ma divenire soggetto della storia.

Il comunismo quindi fu quella luce. E il partito di cui celebriamo il centenario, quello italiano, ne fu illuminato e divenne diffusore a sua volta di quella luce. Un partito che nacque, ricordiamolo, come “Sezione Italiana della Terza Internazionale”, ossia semplice espressione locale, nazionale di quello che veniva considerato il “partito mondiale della rivoluzione”. La fondazione del Pcd’I, avvenne, d’altronde, in ossequio ai dettami dello stesso Comintern, che chiedeva alla frazione comunista di separarsi del corpo del Partito socialista, ma quei dettami non vennero invece seguiti negli anni seguenti, da parte di colui che fu il vero motore primo della scissione di Livorno, Amadeo Bordiga, allorquando da Mosca si sosteneva il Fronte unico contro il fascismo, dunque di recuperare, quanto meno a livello di patto di collaborazione, il rapporto con i socialisti e le altre forze antifasciste. Una linea che Bordiga si rifiutò ostinatamente di seguire, fino a che, pur recalci- trante, Gramsci, spinto dallo stesso Comintern, assunse la direzione del PCd’I.

Partito-setta e partito-popolo

Erano due concezioni diverse e opposte, le loro, a prescindere dalla questione contingente delle alleanze e del fronte antifascista. Da un lato, un partito-setta, una congrega di puri, caldeggiato da Bordiga, dall’altro, un partito-popolo sostenuto da Gramsci, il quale aveva in mente un aggregato di massa, in cui la verità, e dunque la linea per arrivare a definire la linea politica, fosse frutto di uno sforzo collegiale, di una dialettica interna e non il verbo calato e imposto dall’alto, dalla direzione. Confronto dialogico invece di autoritarismo: il centralismo democratico era questo per Gramsci, che ovviamente prevedeva poi il momento della decisione, ma solo come un punto d’arrivo. E per lui, accanto al versante politico, era fondamentale quello culturale.

Nel 1919 scriveva: “No, il comunismo non oscurerà la bellezza e la grazia”. Era già in nuce una idea che avrebbe ripreso e portato a compimento nella elaborazione dal carcere, dopo la caduta: sua, del suo partito, dell’ipotesi rivoluzionaria “in Occidente”. La rivoluzione come processo, fondato innanzi tutto sul lavoro intellettuale, volto a costruire una contro-egemonia rispetto all’egemonia borghese. Il comunismo dunque, ancora, era un percorso che avrebbe portato al cambio di guida sociale, ma avrebbe nel contempo dovuto valorizzare lo spirito, affermare come uno dei diritti trascurati e vilipesi del proletariato ridotto nella moderna schiavitù salariale, quello alla bellezza.

Lo scambio di lettere del 1926 con Togliatti in realtà mostrò a Gramsci che il suo comunismo era minoritario nel Partito e ormai anche nel Partito-madre, il Pcsu, e nel Comintern. Ma questa constatazione, che lo avvilì enormemente, non lo indusse a un arretramento. E il comunismo che noi oggi, a distanza di un secolo, celebriamo dovrebbe, a mio avviso, essere quello di Antonio Gramsci e non di Amadeo Bordiga, quello di Gramsci e non quello di Togliatti (il Togliatti staliniano, di quella fase storico-politica), quello di Gramsci e non quello del socialismo reale. Un “umanismo integrale”, come ebbe a definirlo egli stesso, che riprenda e porti avanti il lavoro avviato dai Bolscevichi, tra mille difficoltà e contraddizioni, in Russia, fra il 1917 e il 1924 (prendendo come termine ad quem la morte di Lenin, il “Capo”, come lo appellò Gramsci stesso nel celebre necrologio), in Russia: il lavoro volto a portare avanti il riscatto economico-sociale delle masse dei subalterni, ma anche quello che mirava alla loro liberazione spirituale.

La lezione del comunismo, oggi, a mio avviso, è questa: lavorare nel segno della coerenza tra mezzi e fini, da un lato, e lavorare per un risultato che pur mirando al futuro (il “Sol dell’avvenire”), si concentri sul presente, salvando i corpi e educando le anime, in un percorso in cui educatori ed educandi, dirigenti e diretti, sviluppino un rapporto biunivoco, fondato sulla reciprocità, non rinviando a un domani imperscrutabile il secondo obiettivo, ma anzi, procedendo di pari passo, nella convinzione che ogni miglioramento anche minimo nel presente, non ostacola l’obiettivo massimo nel futuro.

In sintesi, vedo nel comunismo oggi il frutto di una sintesi geniale tra utopismo e realismo, e una fusione tra politica e intelletto, tra economia e cultura, allargando lo sguardo a temi estranei alla tradizione socialista e comunista, come la salvaguardia ambientale e climatica. E mentre la “vecchia talpa” scava, noi dobbiamo alla luce del sole portare avanti la nuova “cospirazione degli eguali”; ma, stavolta, di massa, e attenta soprattutto a gettare uno sguardo nuovo sul pianeta Terra, e la sua salvezza. Perché senza questo, non sarà possibile neppure continuare a discutere di “quale comunismo?”.


* Angelo d’Orsi, già Ordinario di Storia del pensiero politico nell’Università di Torino, dirige due riviste: ”Historia Magistra” e “Gramsciana”. I suoi ultimi libri sono: 1917. L’anno della rivoluzione (Laterza, 2016); Gramsci. Una nuova biografia (Feltrinelli, 2017; nuova ed. riv. e accr. ivi, 2018); L’intellettuale antifascista. Ritratto di Leone Ginzburg (Neri Pozza, 2019). La sua biografia di Gramsci, nella prima edizione, ha vinto il Premio Sila e nella seconda edizione, il Premio Internazionale Sormani (per opere su Gramsci).


Foto di Véronique Tcheidze da wikimedia.org

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